Sempre dicembre

Trigger warning/Content warning: depressione, pensieri suicidi, linguaggio esplicito. Se il contenuto di questa OS potrebbe turbarti, non leggere, proteggiti.

~🍂~

"Dietro ogni cosa squisita che sia mai esistita,
si cela qualcosa di tragico"
- Oscar Wilde

~🍂~

Nonna Maria le aveva detto che quando era nata profumava di latte e biscotti; da quel momento non aveva più fatto colazione in modo diverso.

Quel giorno no. Aveva perso anche questo.

Stringeva una tazza di caffè nero fra le mani screpolate dal freddo, seduta in bilico sull'unico sgabello della cucina, con i gomiti poggiati sul bancone della piccola isola. Non aveva un tavolo, non c'era abbastanza spazio fra le mura di quel suo monolocale.

Ciocche di capelli del colore del miele le si incastrarono fra le ciglia, quando voltò la testa verso l'unica finestra della stanza.

Si perse a osservare i graffiti che coloravano le mura di via Emilio Gola, la sua via.
Il colore preponderante era il rosso.

Rosso come il sangue che scorre nelle vene, come i miei pensieri quando si aggrappano a un colore. Il colore sbagliato, ovviamente. Perché no, il rosso non è amore, il rosso è sangue e fa male.

Quella mattina, Sofia aveva aperto gli occhi ancora una volta sul mondo che detestava e amava allo stesso tempo. Il sole non era filtrato dalla finestra, perché quella mattina era nuvolosa e uggiosa, e lei si era incupita proprio come il cielo.

Si era alzata dal letto a una piazza e mezza che giaceva al centro della stanza, ancora sfatto, e aveva percorso i pochi passi di distanza che la separavano dalla cucina. Aveva aperto uno dei tre sportelli di legno, quello che conteneva i suoi preziosi biscotti al cioccolato – i "Magretti" della Galbusera – ed era rimasta a fissarli senza prenderli in mano, la mente persa nel vuoto.

Non aveva fame; quella constatazione la colpì come uno schiaffo.

Non aveva fame perché sentiva un peso approfondarsi nelle viscere, non aveva saputo dargli un nome.

Rimase a fissare la confezione aperta di Magretti per un tempo che non riuscì mai a definire, con la consapevolezza di aver perso un'altra parte di sé perché quel giorno il latte e i biscotti non li avrebbe mangiati.

Non aveva mai fatto colazione in altro modo da quando nonna Maria le aveva detto che alla sua nascita profumava di latte e biscotti.

Sofia amava le piccole cose, e amava le storie; quella piccola cosa che la nonna le aveva detto, lei l'aveva vista un po' come una storia, un pezzo della sua. E adesso stava rinunciando a un'altra parte di sé perché per nulla al mondo, neanche con il più tenace degli sforzi, quella mattina sarebbe riuscita a mandare giù un solo biscotto.

Si era alzata dopo un tempo infinito, le ginocchia che le bruciavano per la posizione che aveva tenuto troppo a lungo, e aveva chiuso lo sportello, la cui vernice verde mela era terribilmente scrostata ai margini.

Come gli angoli del mio cuore, scrostati.

Con un sospiro, si era preparata una tazza di caffè nero e, con un peso nel petto, si era seduta a berla.

Sei una persona da caffè nero la mattina adesso, Sofia.

Era consapevolmente in ritardo per il lavoro. Non le importava, Gabriele, il suo capo, non l'avrebbe ripresa in nome di una delle tante notti che avevano condiviso senza amore.

Posò la tazza nel lavandino, fra i piatti della cena del giorno prima che non aveva ancora lavato, e si avviò in bagno. Scostò la tendina di plastica rovinata della doccia e s'infilò sotto il getto di acqua calda, bollente, ustionante tanto da portarla quasi a urlare.

Quasi.

Lei, a quelle temperature, c'era abituata, perché con quell'acqua calda cercava di lavare via lo sporco che le incrostava la pelle e l'anima ogni giorno. I capelli le si appiccicarono sulla fronte, le si incastrano fra le labbra quasi a soffocarla; non importava.

Fu la doccia più lunga di sempre, poi uscì e andò a lavoro.

~🍂~

Terminò di legare i capelli in una coda bassa e si allacciò il grembiule marrone dietro la schiena.
Gabriele, quella mattina, neanche c'era.

Passò velocemente uno straccio bagnato sul bancone del bar per ripulirlo dalle macchie di caffè che aveva lasciato il cliente andato via un attimo prima che arrivasse lei, e poi sorrise alla figura dell'anziana signora che le si stagliava di fronte.

Aveva i capelli bianchi acconciati in boccoli da bigodini e una lunga collana di perle che le pendeva sul maglioncino verde menta, un sorriso gentile ad addolcirle i lineamenti.

«Desidera?», chiese con quella sua voce troppo squillante che detestava.

«Un cornetto alla crema e un cappuccino da portare via», rispose lei, gli occhi gentili.

Non le ricordava nonna Maria, no. Sua nonna era molto più alta e robusta della signora che le stava davanti, e si ostinava ancora a tingere i capelli di quel nocciola chiaro che aveva rappresentato tutta la sua infanzia.

Non vedeva nonna Maria da due anni, da quando aveva lasciato la casa dei suoi genitori, da quando aveva preso quel volo; Catania-Milano, diretto.

Non era più tornata.

Imbustò il cornetto e finì di preparare il cappuccino, poi li porse alla signora, ricevendo in cambio un altro sorriso gentile e un "grazie" mormorato a fior di labbra mentre già si voltava per andare a pagare alla cassa.

Lei è davvero una bella persona, signora, mi piacerebbe essere come lei un giorno. Ma forse non sarò mai abbastanza.

La mattina trascorse lentamente, tra un cliente e l'altro, come sempre. Un ragazzo che poteva avere la sua età ordinò uno shot di vodka liscia alle dieci del mattino, ma Sofia non se la sentiva di giudicarlo.

Passiamo tutti attraverso questa lunga strada che è la vita, ma la strada non è gentile, è fatta di rovi e ferisce. Ognuno fa quello che può per sopravvivere. Io, in una di quelle spine, mi ci sono impigliata.

Il ragazzo andò via senza pagare, Sofia non lo fermò. Nessun altro se ne accorse, forse perché ogni uomo non aveva occhi che per se stesso.

~🍂~

Quel pomeriggio Sofia non aveva niente da fare. Tornata a casa si sfilò le false dottor martens dai piedi e si gettò su quel letto sfatto che era la sua consolazione, ma anche la sua tomba.

Ci moriva ogni giorno, perché avrebbe voluto non esser costretta a trovarci riparo, ma non poteva. Non poteva, perché di uscire non se ne parlava, non aveva amici, e a casa non aveva altro da fare se non stare lì a sentirsi soffocare.

Afferrò il suo libro preferito – "Cime tempestose" di Emily Bronte, con la costina tutta rovinata dal tempo – e ci annegò dentro.

Si svegliò il giorno dopo senza il ricordo di essersi addormentata, e fu tutto uguale.

Caffè nero.
Doccia ustionante.
Ritardo a lavoro.
Casa.
Letto.
Libro.

E ancora.

Caffè nero.
Doccia ustionante.
Ritardo a lavoro.
Casa.
Letto.
Libro.

Ancora.

Caffè nero.
Doccia ustionante.
Ritardo a lavoro.
Casa.
Letto.
Libro.

~🍂~

Arrivò il tempo di dire basta. Stava leggendo l'ultimo capitolo di "Cime tempestose", ma le venne la nausea. Nausea perché non riusciva a provare più niente, perché l'apatia e il silenzio le avevano avvolto il cuore e la mente.

Si sentì soffocare, il respiro mozzato, il panico a salirle su per la gola.

Corse in bagno e vomitò i resti di una cena solitaria a base di toast al formaggio.

Quando ebbe finito pensò d'aver riversato anche l'ultima goccia della sua anima, quella che ancora aveva un pezzetto di buono. E così, con ancora la fronte poggiata sulla tavoletta del water, digitò il numero di Gabriele sul cellulare.

Uno squillo.

Due squilli.

«Pronto?».

«Ti va di passare?».

~🍂~

La mattina dopo si era svegliata completamente da sola. Si era tirata su a sedere e il piumone bianco le era scivolato giù dalle spalle, ammucchiandosi attorno ai suoi fianchi morbidi.
Aveva freddo, ma non le importava.

La sera prima aveva inconsciamente sperato che Gabriele si accorgesse che qualcosa in lei non andava.

Guardami.

Guardami.

Guardami guardami guardami guardami.

Gliel'aveva urlato con quei suoi occhi scuri troppo profondi. Gli aveva chiesto di vederla, vederla davvero e magari stringerla fra le sue braccia e dirle che andava tutto bene. Ma Gabriele non aveva tempo per i suoi occhi e tra loro non sarebbe mai andata in quel modo. Loro erano una dipendente e il suo giovanissimo capo, con qualche scopata di mezzo, nient'altro. Non c'erano sentimenti, eppure Sofia avrebbe voluto essere vista.

~🍂~

Monotonia. È questa la parola che definisce la mia esistenza. Un tempo la monotonia erano parole urlate con un po' troppa cattiveria; adesso la monotonia è silenzio.

Era sdraiata a letto, fissava il soffitto.

Quel giorno si era data malata.

Avrebbe tanto voluto che quella fosse una bugia, ma non lo era. Forse malata lo era davvero.

Aveva qualcosa che non andava, nella testa. Se lo sentiva; se lo sentiva fin dentro le ossa. Ma con chi ne avrebbe potuto parlare? Non aveva soldi per pagare uno psicologo e non aveva amici, ma tanto non avrebbe riversato i suoi dolori su di loro.

Non aveva mai voluto essere un peso, per questo non aveva mai parlato; si era tenuta tutto dentro e anche se adesso si sentiva come una nave alla deriva che imbarcava acqua per via di un grosso buco proprio al centro del petto, era fiera di se stessa per non aver parlato e aver retto così tanto.

Sofia si sentiva sbagliata; forse era nata storta.

Non aveva mai capito il perché, ma ai suoi genitori Sofia non era mai piaciuta. Non c'era altra spiegazione per le parole che le erano state rivolte contro.

Mamma, perché non ti piaccio?

Urlava la mente e urlava il cuore. E poi vennero i ricordi.

Sofia aveva sette anni, era in vacanza con i suoi genitori e la famiglia della sua migliore amica, Melissa. Stava camminando accanto a lei, intenta a mostrarle la barbie che i suoi le avevano regalato per Natale. Era bella, con il vestitino color panna e una lunga treccia bionda che le scendeva fino alle ginocchia. Era felice.

«Sofia, vieni qui», si era sentita chiamare da sua madre.

E Sofia si era voltata, aspettandosi di trovare occhi gentili; aveva incontrato il gelido ghiaccio delle sue iridi azzurre.

«Sei cattiva», le aveva sussurrato sua madre quando l'aveva raggiunta. «Non sei stata con me neanche un secondo oggi, Melissa è sempre con sua mamma».

Sofia aveva annuito, ignorando la coltellata al centro del petto a cui avrebbe saputo dare un nome solo più avanti nel tempo, e le aveva camminato a fianco per il resto della vacanza. Per quel giorno non fu più felice.

Sei cattiva.

Un altro ricordo.

Aveva undici anni, sedeva a tavola composta con un piatto di maccheroni al pomodoro davanti. Le piaceva cospargerli di parmigiano, così aveva allungato la mano per prendere la grattugia ma sua zia, ospite per quel giorno a casa loro, era stata più veloce. Così, ridendo, le aveva rubato il parmigiano.

«Non puoi usare la grattugia senza questo», aveva scherzato, sventolandolo in aria. «Adesso la devi dare a me, gratterò il formaggio per prima».

«Sofia, dai il parmigiano a tua zia», aveva tuonato suo padre, portando via dalla tavola ogni parvenza d'ilarità.

«Ma perché? Che cambia se lo gratto prima io?», aveva chiesto lei che, in undici anni di vita, non era ancora riuscita a capire che a volte doveva stare zitta.

«Sei un'egoista. Tua zia è ospite, dalle il parmigiano».

Sei un'egoista.

Ancora un ricordo a emergere dalle acque nere in cui riposava, soltanto per trascinarla a fondo con lui.

Aveva sedici anni, doveva andare a un compleanno e non sapeva cosa indossare.

I vestiti, per Sofia, erano sempre stati un incubo.
Non le piacevano come le stavano i colori, non li sapeva abbinare; forse perché i colori, nella sua vita, si erano spenti pian piano, portati via dal nero del dolore e dal grigio dell'apatia.

Aveva chiesto un consiglio a sua madre e avevano finito per litigare, come ogni volta che chiedeva.

Perché non aveva ancora smesso? Perché si ostinava a cercare un suo parere? Perché era tanto importante?

La lite era finita con lei contro l'armadio, i segni rossi degli schiaffi sulle braccia. Non facevano male, perché il dolore l'avevano rubato tutto le parole.

«Mi stai facendo schifo», le aveva urlato, con quegli occhi freddi che l'avevano gelata dentro.

Era rimasta immobile per un tempo infinito. Al compleanno non c'era più andata.

Mi stai facendo schifo.

Desideravo una figlia così tanto, ma poi sei arrivata tu.

Hai un carattere di merda.

Puttana.

Non ti meriti niente.

Rompicoglioni.

Esagerata.

Visto che sei stupida e non capisci quello che studi, perché non te ne vai a lavorare per strada?

Fino a quando non c'eri tu siamo stati bene.

Non piangere.

La colpa è tua se litighiamo.

Parole, parole, solo parole, eppure l'avevano ferita dentro. Brutte parole e sguardi di ghiaccio, era questo che i suoi genitori le avevano sempre riservato.

E Sofia non poteva fare a meno di amarli, no, perché ogni tanto si comportavano da genitori. Ogni tanto le compravano qualcosa e sembravano così felici di regalargliela che lei si sentiva al centro del mondo.

Lo sapeva, in fondo al cuore, che i regali non bastavano per dimostrare amore, ma lei se li faceva andare bene. Se li faceva scivolare addosso come fossero stati carezze e abbracci.

Ho imparato ad amare da sola, sulla pelle e non con gli abbracci.

~🍂~

Era stato un giorno devastante, quello dei ricordi.

Si era addormentata con le lacrime ancora incastrate agli angoli degli occhi, con l'ultimo ricordo a invaderle la mente; il giorno in cui aveva detto basta.

Aveva preso i cinquecento euro che teneva conservati nel salvadanaio e aveva comprato un biglietto di sola andata per Milano.

Voleva ricominciare, voleva vivere.

Ma Sofia non sapeva niente del mondo e presto si era trovata a fare i conti con le spese da affrontare, il lavoro da trovare, una casa in cui abitare.

Non era più tornata, perché sapeva che non l'avrebbero voluta indietro.

Si era lasciata tutto alle spalle, ma aveva dimenticato di nascondere sotto il letto il suo dolore. Se l'era portato dietro come una parte di sé invisibile ma pesante come un macigno; un pezzo di carne masticata che nascondeva agli occhi del mondo e ai suoi. Ma per quanto fingesse che non esistesse, c'era, e l'aveva impregnata d'apatia e insofferenza, di monotonia.

Sofia viveva un mondo senza sentimenti, ma lei i sentimenti li adorava.

Era sempre stata sensibile, ogni cosa le era pesata addosso con più forza. Ogni parola aveva ferito la sua carne più in profondità. Ogni sorriso le aveva scaldato il cuore di un grado in più rispetto agli altri. Ogni volta che si era commossa aveva versato una lacrima in più del normale, provato una morsa un po' più stretta nel cuore.

E adesso cosa ne restava di quella Sofia che aveva provato così tanto? Solo un involucro di carta senza più sentimenti; un foglio bianco stropicciato ai margini, strappato in più punti.

Sospirò dolore, mentre la fitta ustionante come una lama calda le attraversava il cuore e il braccio. Le mani presero a tremarle, brividi di freddo le invasero la pelle.

Si alzò dal letto, doveva pensare ad altro, doveva reagire, non tornare nel dolore del passato.

Si preparò l'ormai consueto caffè nero e cercò gli auricolari nel primo cassetto della cucina, dove teneva le più disparate cianfrusaglie a sottolineare il disordine della sua mente. Li attaccò al telefono – usava ancora quelli con il filo – e aprì la finestra del monolocale, sporgendosi con la testa sulla strada.

Via Gola, declino della sua esistenza.

"Paralyzed" di NF le urlava nelle orecchie parole che la rappresentavano e che avrebbe voluto fossero diverse.

Finì di bere il suo caffè quando terminò anche la canzone.

Fece partire "Dear patience" di Niall Horan, che parlava ancora una volta di dolore, che parlava ancora una volta di lei; lei che annegava.

Era più rassicurante della canzone precedente, più tranquillizzante, quasi totalizzante. Le calmò i battiti impazziti del cuore. Però non bastava, perché stava per essere avvolta di nuovo dalla monotonia.

Con uno scatto di rabbia lanciò il telefono con ancora attaccati gli auricolari sul letto; rimbalzò e finì a terra, lo schermo si ruppe. Non le importava.

Indossò un paio di skinny jeans neri strappati sulle ginocchia e un maglione bianco, combattendo contro la voglia che provava di lanciarsi sul letto, rimbalzare e finire per terra a rompersi come il suo cellulare.

Infilò le dottor martens fingendo di non volerle lanciare contro la parete, di non volersi lanciare contro la parete.

Conficcò le unghie nei palmi così a fondo che il sangue sporcò leggermente la manica del maglione.

Ecco, l'ho rovinato. Rovino sempre tutto.

Poi si perse a osservare quelle leggere sfumature di rosso su bianco.

Niente resta mai immacolato, tutto si macchia di peccato, tutto muore.

Uscì dalla stanza sbattendo la porta dietro di sé. Non si preoccupò di chiuderla a chiave, non avrebbero potuto rubarle nulla, perché non aveva niente.

Camminò per via Gola a passo svelto, il vento a scompigliarle i capelli; ciocche di miele che sferzavano l'aria con la stessa violenza che avrebbe voluto imprimersi sulla pelle.

Entrò nel primo tabacchino che vide. Comprò un pacco di Marlboro rosse perché era di quelle che aveva sempre letto nei suoi libri.

Non aveva mai fumato, non voleva neanche che diventasse una dipendenza. Voleva soltanto provare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso dal gelido niente che le divorava le viscere da dentro.

Sfilò una sigaretta dal pacchetto, la accese con il clipper che aveva appena comprato e aspirò.

Tossì. Faceva schifo. Non importava, aspirò di nuovo. Espirò.

Fermò il primo uomo che incontrò per strada e gli regalò il pacchetto di Marlboro; non ne avrebbe mai più fumata un'altra.

Quando la sigaretta si consumò fino al filtro, la gettò per terra e la calpestò con la punta della scarpa. Le girava la testa, non era abituata a fumare.

Non appena trovò una panchina, vi si accasciò contro, tenendosi la testa con le mani; i capelli a incastrarsi fra le dita.

È quasi marzo, ma è sempre dicembre. È sempre dicembre dentro di me.

Quelle parole se le tatuò sul braccio lo stesso giorno.

Sempre dicembre.

~🍂~

Sofia amava i libri. A casa sua pila e pila di tomi occupavano i pavimenti, quasi fossero stati accessori ad abbellirne i contorni. Erano un insieme di frasi lette e rilette, sottolineate, evidenziate, segnate con post-it colorati e scritte sui muri che di bianco, ormai, avevano ben poco.

Sofia amava i libri, e le citazioni. Aggiunse la sua in un angolo in basso a destra: "Sempre dicembre".

A volte pensava che se la vita non le avesse riservato tutto quel dolore, o forse proprio per quello, sarebbe potuta diventare una brava scrittrice.

Le frasi le affollavano la mente all'improvviso, bastava una sensazione provata dopo esser stata a lungo in un arido deserto di sentimenti, un'immagine che la coglieva alla sprovvista, un pensiero che le si arrovellava in mente. E le frasi apparivano. "Sempre dicembre", in quel momento, era la sua preferita.

Tossì; aveva preso freddo camminando per le strade di Milano a fine febbraio senza un giubbotto a riscaldarla. Forse l'aveva fatto a posta, come se avesse sperato di morire congelata per non doversi liberare di se stessa da sola. Fece una doccia calda e andò a dormire.

Il giorno dopo comprò un nuovo libro. Le cadde di mano quando andò a sbattere contro uno sconosciuto perché teneva la testa così bassa che non vedeva quello che aveva di fronte.

Lo sconosciuto era una lei.

Era una ragazza dai capelli ricci e rossi, gli occhi grandi e pieni di sogni.

Il cuore le si fece pesante come ogni volta che incontrava qualcuno per la prima volta e tornava a sperare sempre la stessa cosa.

Guardami.

Guardami, ti prego, guardami.

Lo so che non ci conosciamo, ma tu guardami. Ti prego sii una di quelle persone che vede dentro gli altri. Guarda il mio dolore e aiutami, mi basta un sorriso.

Ma la ragazza le fece cenno con la mano di non preoccuparsi e non la guardò, non come Sofia avrebbe voluto.

~🍂~

Riusciva a vedere se stessa sul fondo del baratro.

Attorno a lei era tutto nero e una luce proveniente dall'alto illuminava la sua figura rannicchiata per terra a soffrire.

C'era un buco, era da lì che veniva la luce.

A Sofia sarebbe bastato saltare, arrampicarsi, per tornare in superficie, per tornare a vivere. Ma era troppo alto. Sapeva che non ci sarebbe mai arrivata.

Riusciva a vedere se stessa soffrire, la bambina che era stata, la donna che era diventata, e non riusciva a ricordare neanche un attimo in cui era stata felice.

Tra le braccia di chi aveva provato amore?

Non fra quelle dei suoi genitori che l'aveva distrutta a suon di parole, non fra quelle di Gabriele che amava il suo corpo ma non la sua anima, non fra quelle di nonna Maria che non la chiamava da quando era partita per Milano.

Si strinse le sue, di braccia, attorno al petto, ma anziché darsi conforto scoppiò a piangere.

Cosa ne sarebbe rimasto, alla fine, della sua anima?

Anima rotta,
anima sporca;
brandelli di fumo nero che mi indicano la rotta.
Non portano mai a casa.

Il pianto la sconquassò da dentro, come un'onda che con troppa forza si abbatte sugli scogli e si spezza. I capelli le finirono in bocca, soffiati via dai singhiozzi che le pervadevano il petto.

Voleva urlare, colpire, mordere.

Urlava, stava urlando, urlava tutti i giorni con gli occhi e con il cuore, ma nessuno la sentiva.

Voleva morire. Sì, voleva morire.

Non c'è una soluzione. Non la trovo. Non la vedo. Non c'è via d'uscita. Non c'è. Nessuno mi vede, nessuno mi sente. Forse mi dovrei rialzare da sola, ma non ce la faccio. No, non ce la faccio più. Muoio, mi ammazzo. Sono già morta. Sono morta dentro. Sono morta tanto tempo fa. Che senso ha vivere se tutto quello che mi è rimasto da provare è il niente?

Si alzò dal letto tremante, si diresse in bagno e aprì lo sportellino color panna sporco accanto allo specchio. Prese lo scatolo di pillole che si trovava là dentro. Lo osservò.

Tachipirina.

La usava per lenire i dolori mestruali.

Forse se ne avesse prese abbastanza avrebbe fatto smettere anche il dolore che provava al centro del petto.

Con le unghie morsicate rimosse il lieve strato di alluminio che proteggeva le compresse. Le prese tutte nella mano destra, soppesandole. Erano tante. Ma erano abbastanza perché lei morisse?

Le guardò e gli occhi le si riempirono di lacrime. Quei suoi occhi tanto buoni e profondi che amavano il mondo, si arrossarono e gonfiarono e si lasciarono scappare qualche goccia salata che le arrivò fino alle labbra.

Sofia non voleva morire. Sofia voleva vivere.

Ma come? Come avrebbe potuto vivere portandosi dietro tutto quel dolore?

Sofia voleva vivere; voleva restare nel mondo.

Voleva poter osservare ancora una volta gli uccellini volare, il sole brillare e illuminare la striscia di pavimento davanti al suo letto al mattino. Voleva sentire le risate dei bambini, il cuore più caldo quando un estraneo le rivolgeva un sorriso. Voleva trovare l'amore in cui aveva smesso di sperare, andare al mare, 'che non lo vedeva da più di due anni. Voleva contare le stelle e perdersi nei disegni delle nuvole. Sofia voleva ridere come non le accadeva da tempo.

Gettò le pillole nello scarico del lavandino, tutte.
Non avrebbe avuto i soldi per ricomprarle, ma non le importava.

Pillole, di vita.
Di dolore.
Pillole che avrei voluto usare
per annebbiare
in testa ogni mio colore;
nero come l'anima che porto dentro.

Per quel giorno, le pillole finirono nello scarico del lavandino.

Sofia avrebbe vissuto un giorno in più. Ma il dolore non se ne sarebbe mai andato.

Per quanto ancora posso continuare?

~🍂~

Se sei arrivatx fin qui, grazie.
Spero non sia stato troppo difficile da leggere, spero che Sofia ti sia entrata un po' dentro. Se conosci unx Sofia, guardalx, vedilx. Se sei unx Sofia, forse non avresti dovuto leggere, ma, come Sofia, abbi il coraggio di buttare le pillole ogni giorno, abbi il coraggio di vivere ogni giorno; arriveranno tempi migliori, ti rialzerai, anche se non ci credi. Per qualsiasi cosa, mi puoi scrivere qui su wattpad o su Instagram nella mia pagina _laragazzanerd_
Volevo scrivere questa one-shot che è sostanzialmente uno spaccato della vita di Sofia. Non inizia e non finisce, lascio capire a voi il perché. Spero che, indipendentemente dai pensieri che vi hanno affollato la mente leggendo, "Sempre dicembre" vi sia piaciuta. Se vi va, lasciatemi un commento.
~Chiara.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top