Capitolo Trentanove
A poco a poco Selvaggia smise di fare colazione con le sue amiche, seguiva le lezioni svogliatamente e non era più riuscita a entrare nella mensa all’ora di pranzo. Spesso, per mangiare, usciva direttamente dall’ateneo e ancora più spesso, per non correre il rischio di rivederlo soprattutto in compagnia della sua collega tettona, si ritirava a studiare in biblioteca senza toccare cibo. Non si era fatta più sentire nemmeno dalle sue amiche, che dopo un iniziale messaggio da parte sua per tranquillizzarle, avevano cercato di contattarla inutilmente. Soltanto quando ricevette la chiamata da Matteo si rianimò.
Arrivò sotto casa sua che aveva il fiatone e suonò il citofono, cercando di calmare il respiro. Appena Matteo le aprì il portone salì le scale di corsa, non voleva perdere tempo inutilmente. Trovò la porta d'ingresso accostata e si fiondò nell'ingresso niveo e nel salottino dove trovò i due amici.
“Avete trovato qualcosa di interessante?” Sbottò, senza nemmeno di riprendere fiato.
“Ehm… sì." Matteo si avvicinò intimorito. "Ma, per favore, prima siediti, prendi qualcosa,” la scortò verso il divano e la fece accomodare. “Vuoi un caffè?”
“Sì… grazie.”
Tentò di calmarsi prendendo grossi respiri. Fabio alzò una mano nella sua direzione per salutarla, intimorito. Gli sorrise, imbarazzata. Si rese conto che ancora una volta si era lasciata prendere dall’ansia.
Matteo tornò col suo caffè, che bevve in un sorso e gli restituì la tazzina.
“Non dirmi che ancora non si è fatto vedere.”
Fu colta di sorpresa da questa domanda, scosse la testa e abbassò lo sguardo.
“Che cretino!” Matteo sbuffò, posando la tazzina sul tavolino.
“Insomma… cosa avete trovato di bello?” Selvaggia tentò di cambiare discorso.
Fabio le porse una chiavetta usb. “È tutto qua dentro.”
Fu sorpresa dalla loro efficenza. L'afferrò guardandola meglio. “E cosa contiene?”
“Abbiamo scoperto il conto corrente del direttore della mensa," Fabio era orgoglioso mentre spiegava. "Nonché i nomi delle famiglie delle ragazze Down che hanno lavorato per lui e, guarda caso, ad ognuna di loro ha inviato via vaglia postale una cifra di quasi duemila euro. Incrociando i vari dati che abbiamo trovato in rete, questi vaglia coincidono più o meno con le date dei loro licenziamenti. Soltanto l’ultima non ha accettato il vaglia…”
Continuò a spiegarle in modo conciso tutto quello che avevano trovato e che avevano inserito in quella chiavetta usb. Documenti e rendiconti della banca che affermavano la colpevolezza del direttore della mensa. Alla fine della spiegazione, Selvaggia non poté evitare di abbracciarlo.
Fabio accolse quell'abbraccio impacciato, restituendole una pacca sulle spalle. Si staccò da lui e si tuffò su Matteo, che sembrò addirittura più impacciato dell'amico e assunse un colorito molto acceso.
Proprio in quel momento sentirono la porta d’ingresso aprirsi e poi richiudersi, successivamente videro Vanessa apparire in soggiorno. La ragazza si bloccò a fissarli con un'espressione completamente meravigliata. Matteo aveva il viso rosso e Selvaggia sembrava stravolta.
“Ho interrotto qualcosa?”
Matteo si alzò subito in piedi e le andò incontro. “Ma figurati, Selvaggia ci ha chiesto un favore e ci stava solo ringraziando per averglielo fatto.” Soffiò imbarazzato.
Vanessa non era affatto convinta. Selvaggia e Fabio erano rimasti immobili aspettando che dicesse loro qualcosa. Ma sembrò soltanto molto scocciata e si allontanò verso la loro camera da letto senza aggiungere altro. Matteo la seguì, preoccupato. A quel punto Selvaggia decise di togliere il disturbo.
Si alzò in piedi e si sistemò la maglietta. "Credo che per me sia giunta l'ora di andarsene."
“Ma come… sei appena arrivata!” Fabio era del tutto confuso.
“Sì… è meglio che vada, non vorrei creare ulteriore disturbo.” Si mise la chiavetta in tasca e lo salutò. “Grazie ancora per il tuo aiuto, non lo dimenticherò.”
Fabio arrossì lievemente. “Ma figurati…”
Poco dopo stava uscendo dal portone del palazzo ma qualcuno la chiamò dal fondo delle scale. Vanessa le andò incontro con guardo tagliente. Tornò indietro di un passo per affrontarla.
“Oh, ciao. Scusa se me ne sono andata senza salutare, ma—”
“Non me ne importa niente,” sbottò Vanessa, interrompendola. "Ti ho raggiunto perché non voglio più che tu venga a trovare Matteo, né che vi vediate da altre parti. Mi hai capita?”
Selvaggia aveva capito sin da subito che Vanessa era un tipo molto geloso, ma non si aspettava da lei una cosa simile.
“Scusa?”
“Te lo devo ripetere? Non mi va che tu venga a trovare il mio ragazzo e che lo abbracci facendogli gli occhioni dolci, soprattutto quando non ci sono io.”
“Ti ricordo che io e Matteo non siamo mai stati soli, soprattutto quando siamo stati in casa, c’era sempre Fabio con noi.”
“Non mi importa, so benissimo quello che Matteo prova per te, che ha sempre provato. Mi ha raccontato del vostro passato all’orfanotrofio e ti ha sempre dipinta come il suo primo grande amore non corrisposto. Cos’è, sei venuta per tastare il terreno?”
Questa rivelazione la fece restare di stucco, non aveva idea che Matteo potesse nutrire dei sentimenti per lei, tanto meno che durassero da quando erano bambini.
“Mi dispiace, io… non me ne sono mai accorta.”
Vanessa scoppiò a riderle in faccia. “Pretendi che ti creda? Comunque adesso lo sai. Addio, Selvaggia, a mai più rivederci.”
Si allontanò tornando da dove era venuta, non degnandola di un saluto. Svanì oltre le scale del palazzo e Selvaggia si incamminò per strada completamente frastornata. Come aveva potuto non accorgersi di niente? Adesso capiva perché Vanessa fosse tanto gelosa. Le era sembrato che l’avesse riconosciuta per altri motivi, che si ricordasse di lei dal caso dell’omicidio di Sebastiano, invece…
***
Alcuni giorni dopo, un articolo su un giornale locale, L'indipendente, denunciava il direttore della mensa dell’Università di Catania di aver commesso violenza sessuale aggravata, perché diretta a più vittime per giunta incapaci di intendere e di volere.
Il trambusto che attrasse molti studenti dell’ateneo, e anche molti professori, nel corridoio antistante alla mensa non stupì più di tanto la stessa Selvaggia, che si confuse tra la folla per assistere all’arresto del direttore della mensa con tutti gli altri. Molti guardavano l’avvenimento con distacco, chi con scetticismo, alcuni pensavano che ci fosse un errore, altri dicevano che se era vero era giusto che pagasse.
Selvaggia sapeva benissimo che il direttore della mensa si meritava di venire arrestato, e sperava ardentemente che pagasse fino alla fine per ciò che aveva combinato.
Il processo che si tenne subito a seguire portò a galla anche dei fatti che nell’articolo del giornale locale, scritto ovviamente da Giancarlo, venivano solo menzionati ipoteticamente. A quanto pareva dagli accertamenti fatti dai Carabinieri, il direttore della mensa aveva dapprima assunto personalmente le dipendenti affette dalla Sindrome di Down e poi le aveva licenziate additando scuse campate in aria e intimando loro di non parlare a nessuno di aver abusato sessualmente di loro e aveva dato dei soldi anche alle famiglie per convincerle a non sporgere denuncia. Soltanto l’ultima ragazza non aveva accettato i soldi in quanto, dalla violenza, era rimasta incinta e, d’accordo con i genitori, non aveva nessuna intenzione di abortire di quel bambino. Se con un esame del DNA fosse venuto fuori che era figlio del direttore della mensa la situazione per lui sarebbe precipitata ulteriormente.
Selvaggia guardava tutto questo sentendosi in parte responsabile per il suo arresto, ma non riusciva a provare gioia per aver partecipato a questo avvenimento.
Per tutto quel tempo Giancarlo non si era più fatto vivo con lei, nemmeno durante gli orari in cui era solita andare in biblioteca a studiare. L’aveva lasciata, e doveva farsene una ragione.
Eppure continuava a pensare ai suoi occhi e ai suoi abbracci, all’ultima volta che si erano baciati proprio sotto casa sua e al fatto che non riuscisse a credere che per una stupida incomprensione avesse perso il grande amore della sua vita.
Quella mattina di sabato si alzò presto e, preparato come di consueto quel piccolo bagaglio a mano, prese un taxi e si fece portare alla stazione, per prendere il treno e tornare a casa da suo padre per il weekend.
Pagò il tassista e si diresse direttamente al binario giusto, senza nemmeno passare dal bar per fare colazione. Sospirò consolata, pensando al fatto che Giancarlo avrebbe dovuto essere con lei quel giorno; le aveva promesso che sarebbero partiti insieme, invece era sola.
Si sedette pigramente su una panchina e si guardò attorno, sconsolata. Le sembrava di vederlo apparire ad ogni angolo del marciapiede, con quella sigaretta sempre in mano e quel sorriso che la faceva sciogliere. Sembrava davvero arduo scindere l’immaginazione dalla realtà.
Annunciarono l’arrivo del suo treno e si alzò per avvicinarsi al binario. Assorta completamente dai suoi pensieri fece fatica ad accorgersi della voce di Giancarlo che la stava chiamando. Ma alla terza volta dovette ammettere che non era frutto della sua immaginazione e si voltò verso quella direzione.
Di colpo le sembrò che il mondo si fermasse. Giancarlo era in piedi con uno zaino sulle spalle e un’espressione colpevole. Rimase a fissarlo impallidita, avrebbe voluto chiedergli perché si trovasse lì, ma non riusciva né a parlare né a muoversi. Forse anche stavolta era solo la sua immaginazione. Fu lui a fare un passo nella sua direzione.
“Mi dispiace… mi sono comportato da stronzo…" Si guardò attorno, imbarazzato. "Volevo che sapessi che non… non avrei mai voluto cacciarti a quel modo. Ma ho un bruttissimo carattere, sono troppo orgoglioso, mia madre lo dice sempre, e non volevo ammettere che…”
Di colpo si zittì, rendendosi conto che stava parlando a vanvera. Sospirò. “Mi dispiace.”
Selvaggia lo osservò dalla testa ai piedi, poi finalmente trovò il coraggio di parlare. “Cosa ci fai con quello?” Indicò lo zaino.
Lui si tastò la spalla, quasi dimentico di avere uno zaino addosso.
“Beh… ti avevo promesso che sarei venuto con te da tuo padre, e—”
Non riuscì a terminare la frase perché Selvaggia si tuffò tra le sue braccia, cogliendolo alla sprovvista.
Il mondo prese a girare sopra un altro asse e sembrò di colpo meraviglioso. Avrebbe voluto farlo penare prima di perdonarlo, fargliela pagare per averla trattata a quel modo, ma ritrovarselo di fronte all'improvviso le aveva tolto la possibilità di pensare lucidamente. Era solo felice che fosse tornato da lei, che potesse di nuovo stringerlo tra le braccia e sentire il suo odore.
“Grazie!” Sussurrò con le lacrime agli occhi.
“No. Sono io che devo ringraziarti, per tutto!”
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