Capitolo Tre
I pochi averi della piccola vennero riposti in un'unica valigia di pelle. Il tutto comprendeva in un paio di vestitini neri, ricavati da vecchie vesti talari, e alcune paia di pantaloni e magliettine colorate donate dal paese vicino per i poveri, molto più adatte a una bambina di cinque anni rispetto a quelle vesti nere.
Selvaggia indossava proprio alcuni di questi vestiti donati. Si rese lentamente conto che doveva salutare le suore che l'avevano cresciuta per i primi cinque anni della sua vita. Ancora non comprendeva bene cosa stesse succedendo, sentiva delle emozioni contrastanti perché per lei era tutto nuovo, era la prima volta che usciva dal Monastero e ciò le procurava un'eccitazione bellissima ma al tempo stesso sentiva una forte tristezza, perché percepiva che le suore non sarebbero andate con lei.
Quella mattina la Madre Superiora l'aveva fatta entrare nel suo ufficio e le aveva fatto conoscere quel signore serio e pomposo, dicendole che per lei era giunto il momento di passare a un'altra fase della sua vita e quel signore l'avrebbe porata in quella che sarebbe stata la sua nuova casa.
Non capì, perché avrebbe dovuto andarsene? Le suore non la volevano più?
Senza spiegarle più di tanto la situazione, le suore la vestirono con i pantaloni e le scarpe più belle tra quelle donate ai poveri e la prepararono per la partenza. Lei si soffermava a osservarle di tanto in tanto e non le sembravano propriamente contente.
Adesso, una volta pronta e tirata a lustro, si ritrovò circondata da loro nel grande giardino di fronte all'imponente Monastero, intente a salutarla calorosamente. Erano tutte lì... tranne la Madre Superiora.
La strinsero ognuna tra le braccia, con le lacrime agli occhi. Suor Carmela si permise pure di piangerle quelle lacrime che tratteneva da un po', e dopo averla stretta contro quell'enorme petto, attese che le altre suore la salutassero come più volevano prima di tornare ad abbracciarla piangendo come una fontana.
"Fa' la brava, piccola mia. E non dimenticarci. Mai!" Singhiozzò.
"Ma io non voglio andarmene."
Suor Carmela non riuscì a trattenersi dal singhiozzare, Suor Chiara e Suor Teresa si avvicinarono a lei per confortarla. La bambina doveva andare, non poteva più restare lì, ormai. Stava crescendo e prima o poi avrebbe dovuto frequentare la scuola, socializzare con altri bambini... la vita al Monastero non andava bene per lei.
Il signore serio e pomposo conosciuto nell'ufficio della Madre Superiora si fece avanti all'improvviso dal suo angolino in ombra, le afferrò la mano e la trascinò verso la sua macchina. In Selvaggia si scatenò un forte senso di paura. Di colpo capì tutto e non volle più andar via.
"No! Lasciami, non voglio!" Urlò, iniziando a piangere.
Manifestando pochissima pazienza, quell'uomo antipatico strinse la presa sulla sua mano, trascinandola a forza verso lo sportello.
"Dai, andiamo, si è fatto tardi!"
Selvaggia strinse i pugni, puntò i piedi e tentò di non farsi spostare da lì. Ormai aveva capito, non sarebbe più tornata una volta salita su quella macchina. Ma l'uomo era decisamente molto più forte di lei e senza troppi sforzi la alzò di peso e la caricò sul sedile posteriore, nonostante lei continuasse a dimenarsi e a urlare disperata. Caricò la piccola valigia nel bagagliaio e salì al posto del guidatore, facendo sobbalzare la sua piccola ospite mettendo in moto l'auto.
Continuando a piangere ininterrottamente, Selvaggia s'incantò a guardare dal lunotto posteriore tutte le suore immobili di fronte all'enorme ingresso nel Monastero che si rimpicciolivano. Deglutì stropicciando il viso contro il sedile, calde lacrime continuavano a bagnarle le guance e il petto. Solo poco prima di uscire dal cancello in ferro battuto e svoltare sulla strada principale si chiese che fine avesse fatto la Madre Superiora, e perché non fosse lì a salutarla insieme a tutte le altre. Era lei che aveva voluto che se ne andasse?
In realtà la Madre Superiora aveva assistito inerme all'intera scena dalla finestra del suo ufficio, che si affacciava proprio sul giardino anteriore, direttamente sopra l'ingresso. Osservò la bambina venire strattonata da suo fratello, dopo la straziante scena delle lacrime di Suor Carmela. Continuò a osservare finché la macchina non svoltò oltre il cancello e sparì dalla sua vista.
Era fatta, se n'era andata...
***
Selvaggia pianse tutte le sue lacrime, ma l'uomo continuava a guidare in silenzio, senza mai degnarla di uno sguardo. Non era avvezzo ad avere a che fare con i bambini. Soltanto quando si fermarono per pranzare dovette rivolgersi a lei:
"Vuoi mangiare qualcosa? Io ho una fame da lupi."
La bimba aveva smesso di piangere, ma aveva ancora le guance rigate dalle lacrime e non aveva nessuna intenzione di rispondergli. Non le era piaciuto sin dall'inizio, sembrava troppo arrogante e rimase nel suo mutismo, con le braccia incrociate e lo sguardo fisso davanti a sé.
"Allora, vuoi scendere o no?"
Abituata dalle suore a non tirare troppo la corda, Selvaggia scese dalla macchina, mantenendo comunque il broncio sul suo faccino, ostinandosi a non guardare il suo accompagnatore. Ce l'aveva a morte con lui.
Pranzarono insieme in silenzio, osservando le altre persone passare accanto a loro impegnate nella propria vita. Tra un boccone svogliato e l'altro, Selvaggia era distaccata, triste. Spesso si fissava a guardare una famiglia con dei bambini che mangiava a un paio di tavoli di distanza da loro e si chiedeva se sapessero della sua tristezza e della sorte che le era capitata. Avrebbe voluto chiedere aiuto e farsi portare via, lontano da quell'uomo antipatico. Ma non lo fece.
Partirono subito dopo il pasto, che lei toccò a malapena, e dopo ancora un tempo infinito che Selvaggia non seppe decifrare, entrarono in un nuovo paese sopra delle basse montagne. All'inizio sembravano esserci case molto moderne, nuove, ma la macchina si inserì sempre più nella parte antica di questo paese, fin dove l'asfalto era sostituito da mattoni antichi che facevano vibrare le ruote della macchina.
Tutte quelle case vissute, balconi fioriti, portoni enormi e stradine anguste, affascinarono la piccola che, dimenticata per un attimo la sua pena, osservava quel paese a bocca aperta. Attraversarono un lungo parco costeggiato da alberi con freschi fogliami, da dove si poteva cogliere con un'unica occhiata l'intero paese che si estendeva al di sotto, finché la macchina non varcò un cancello trasandato, che stonava con il resto della via che avevano appena percorso. La macchina parcheggiò all'interno di una corte spaziosa, con delle logge che davano su una sfilza di porticine dall'aria curiosa.
L'uomo scese dalla macchina e le aprì lo sportello, esortandola a scendere. Confusa, Selvaggia non pensò di disubbidire e scese continuando a guardarsi attorno. L'intera corte in cui si trovava era cosparsa di ghiaia bianca e polverosa, sui tre lati che la componevano si affacciavano le finestre di quello che assomigliava alla facciata del Monastero in cui era cresciuta, ma solo la parte che comprendeva gli alloggi delle suore.
Guardando tutte quelle finestre le sembrò di scorgere qualcuno fare capolino nella penombra e poi sparire subito dopo. Quella scena le mise addosso un vago senso di inquietudine.
Vennero accolti da una suora che camminava verso di loro con sguardo severo. Per Selvaggia la vista di una suora bastò per farle tornare il buon umore e, senza pensarci oltre, le corse incontro abbracciandole le gambe.
"Ciao, suora, sono felice di conoscerti!"
La suora, costernata da questo atteggiamento, stette per cadere dalla sorpresa.
"Buon Dio... chi ti ha insegnato le buone maniere, bambina? Chi ti ha detto che le persone sconosciute si salutano a questo modo? Nemmeno i barbari fanno così!"
Questa reazione confuse e sconvolse la piccola Selvaggia, che si staccò da lei, spaesata. L'aria truce di questa donna algida le raffreddò lo spirito.
"Non hai niente da dire? Potresti almeno scusarti."
"Mi... mi dispiace." Balbettò.
La suora la guardò severamente, ma sembrò soddisfatta della sua reazione.
"Così va meglio. Io sono Suor Maria e pretendo che mi sia dato del lei dai bambini ospiti nel mio orfanotrofio. Non te ne dimenticare."
Vennero raggiunte dal signor Giuseppe, con la piccola valigia della bambina in una mano.
"Buona sera, lei deve essere suor Maria, la direttrice dell'orfanotrofio con la quale ho parlato per telefono."
Durante i convenevoli Suor Maria accennò un lieve sorriso. Non era una donna dall'aspetto brutto, non doveva essere nemmeno tanto vecchia, ma l'espressione perennemente arcigna la faceva sembrare decisamente più grande di quello che era.
"La ringrazio per avercela portata in così breve tempo. So che sua sorella non vedeva l'ora di sbarazzarsene."
L'uomo piegò la bocca in una smorfia scettica. "Diciamo di sì."
I due si scambiarono brevemente altre informazioni circa la vita che la bambina aveva avuto fino a quel momento. Suor Maria sembrò inorridita al pensiero di una bambina cresciuta in un luogo sacro come un Monastero. Selvaggia continuò a guardarli dal basso, senza riuscire a capire le loro parole, né tantomeno il perché la suora sembrasse schifata quando parlava delle suore che l'avevano cresciuta. Già le mancavano così tanto!
L'uomo se ne andò senza nemmeno salutarla e Suor Maria la squadrò con arroganza.
"Prendi quella e seguimi."
Si incamminò verso le logge, senza aspettare che la bimba avesse avuto almeno il tempo di intendere il suo ordine. Selvaggia si guardò attorno verso quello che Suor Maria le aveva indicato, che altro non era che la sua valigia. La afferrò istintivamente con una mano, ma non riuscì a spostarla molto facilmente e dovette afferrarla con entrambe le mani per riuscirci. Iniziò a camminare lentamente nella direzione intrapresa dalla suora che si era fermata a poca distanza da lei per attenderla con aria scocciata per quella inutile perdita di tempo.
Appena l'ebbe raggiunta, la suora riprese a camminare senza curarsi di aiutarla. Selvaggia arrancava portandosi dietro il peso di quella valigia che, se pur piccola, era sempre un carico troppo pesante per una bimba di cinque anni.
Varcarono una porta sotto quelle logge e si ritrovarono in una stanza con una scrivania, un'antica macchina da scrivere e un armadietto a muro. Un crocifisso e altre immagini sacre, tra le quali il calendario di Padre Pio, adornavano le pareti, ma la suora non le permise di guardarsi tanto attorno perché subito varcò un'altra piccola porta e si ritrovarono in un lungo corridoio.
A Selvaggia sembrò un buon momento per fare una domanda che le frullava nella testa già da un po':
"Scusi... cosa vuol dire orfanotrofilo?"
La suora si bloccò lungo il corridoio e la guardò severa. "Basta domande stupide, seguimi in silenzio e sta' zitta."
Riprese subito a camminare e Selvaggia si sentì profondamente mortificata, non credeva di aver fatto una domanda stupida. Quella suora era molto diversa dalle dolci suorine che l'avevano cresciuta e con il cuore pesante iniziò a sentirsi profondamente sola.
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