Capitolo Settanta

C'era sempre un gran via vai per le strade di Milano, anche nel tardo pomeriggio quando, solitamente, la gente si chiudeva in casa per mangiare. Anche a Catania, a quell'ora, vedevi sempre gente camminare per strada, come quei gruppi di ragazzi che si riunivano per passare il tempo. Ragazzini che si atteggiavano da adulti ma con ancora il fiato che puzzava di latte.

Stava camminando risoluta per la sua strada quando sorpassò un gruppo di  ragazzi seduti su un muretto. A giudicare dai loro modi di fare e dai vestiti colorati che indossavano non dovevano avere più di quindici o sedici anni. Avevano ancora i visi puliti di un bambino, ma alcuni di loro si portavano alle labbra delle sigarette con una disinvoltura che nemmeno lei possedeva, e le ragazze erano truccate e vestite come delle modelle.

A quindici anni non aveva mai avuto un gruppo di amici come loro, al massimo invitava alcune sue compagne a casa di suo padre per studiare e per ascoltare musica, o per parlare dei ragazzi nella privacy della sua stanza. A quel tempo non le sarebbe mai venuto in mente di iniziare a fumare.

Di colpo uno di quei ragazzi le si avvicinò con aria strafottente, guardandola con un sorriso derisorio:

"Signora, sta cercando di studiarci per farci un ritratto?"

Aveva gli occhi castani e dolci, ma sembrava credersi già un uomo di mondo e non un ragazzetto ancora ignorante della vita. Gli altri, dietro di lui, scoppiarono a ridere e si rese finalmente conto che li stava fissando insistentemente già da alcuni metri.

"Oh... No, io stavo solo pensando." Balbettò.

Come l'aveva chiamata? Signora?

L'espressione beffarda del ragazzino non mutò. "Credevo di essere bello."

Gettò la sigaretta a terra e tornò in mezzo ai suoi amici. Alcune ragazze si misero a ridere alla sua battuta e ricominciarono a chiacchierare tra loro senza più degnarla di uno sguardo.

Selvaggia continuò per la sua strada indispettita dal loro atteggiamento. L'aveva chiamata signora... Ma se aveva appena cinque anni più di loro!

Arrivò al pub in cui lavorava in perfetto orario, ma con la testa era rimasta a quei ragazzi che l'avevano fatta sentire vecchia. Dimostrava di essere più grande di quel che era? Non seppe perché ma quel pensiero le diede un senso di tristezza... A vent'anni viveva sola con un gatto e senza nemmeno uno straccio di ragazzo.

L'immagine di Riccardo le attraversò la mente, così come il modo assurdo e antipatico con cui lo aveva cacciato da casa sua.

Si sentì profondamente mortificata, era stata una vera stupida! Si accorse che, per la prima volta da quando era lì, sentiva la mancanza di qualcuno nella sua vita. Che stesse iniziando a superare finalmente la morte di Giancarlo?

Però quello era il momento di lavorare e non poteva indugiare sui suoi drammi esistenziali. Indossò il grembiule dal suo armadietto, se lo legò dietro la schiena e si avviò dietro il bancone del locale per cominciare il suo turno, ma si bloccò appena montò sulla pedana.

Cristina, la sua collega, stava chiacchierando animatamente con Riccardo, seduto dall'altra parte del bancone. Aveva la divisa d'ordinanza e sembrava ancora più bello in quella tenuta. La collega continuava ad attorcigliarsi un ciuffo di capelli attorno al dito, come faceva sempre quando un ragazzo le interessava, e lui la guardava con gli occhi sorridenti, divertito da chissà quale argomento stavano affrontando. Di colpo i suoi occhi si posarono su Selvaggia e lì si bloccarono per alcuni lunghissimi istanti.

Il cuore le si fermò, soprattutto quando lui riportò lo sguardo sulla sua collega senza neanche salutarla. Scambiò con quest'ultima altre due o tre parole e si allontanò, non prima di aver portato la mano alla visiera del cappello in segno di saluto. Cristina lo salutò scuotendo la mano, quando si voltò verso di lei un sorriso amichevole le illuminò il viso.

"Chi lo avrebbe mai detto che quel tipo fosse un carabiniere! Perchè non me lo hai detto?"

Selvaggia rimase imbambolata a fissare il punto in cui Riccardo era sparito dalla sua vista e non sentì la domanda della collega.

"Ehi, ci sei?" Cristina le sventolò una mano davanti agli occhi. "Accidenti, ma cosa hai fatto al naso? Hai sbattuto?"

Si risvegliò dal suo mondo e sbatté le palpebre. "Ehm... No... Sono caduta."

"E come hai fatto?"

"Ehm... c'è da sparecchiare quel tavolo."

Afferrò un vassoio di ferro e si allontanò, evitando di rispondere. Fortunatamente la collega era abituata ai suoi modi di fare schivi e riservati e non le diede peso.

La vista di Riccardo lì al locale l'aveva mandata in confusione, mentre toglieva i bicchieri sporchi dal tavolo continuava a domandarsi come mai era lì. Credeva che non l'avrebbe più rivisto dato il modo in cui lo aveva cacciato di casa e non si aspettava di ritrovarselo davanti a chiacchierare con la sua collega. E poi, chissà di cosa avranno parlato! A giudicare dal comportamento della collega stavano parlando di qualcosa che non aveva niente a che fare con lei, Cristina sembrava molto presa dal discorso. Lui non l'aveva nemmeno salutata prima di andarsene. Era interessato alla sua collega, adesso?

A questo pensiero si bloccò con il vassoio in mano e abbassò lo sguardo... Per un attimo aveva sperato che fosse lì per lei. Aveva assolutamente ragione lui, era lei a non voler nessuno attorno, e un moto di stizza verso sé stessa le fece stringere le labbra, contrariata. Da quando Riccardo l'aveva aiutata portandola a casa aveva sperato che restasse con lei per sempre. Poi la sua stupidità era riemersa, cacciandolo senza un vero motivo. O forse un motivo c'era, ma non voleva prenderlo in considerazione.

Sospirò per farsi coraggio e tornò dietro al bancone per mettere i bicchieri sporchi in lavastoviglie, nel mentre, Cristina le si affiancò:

"Quanto tempo hai passato insieme a quel giovane carabiniere?"

Selvaggia sussultò a questa domanda e la guardò di scatto. "Perché, cosa ti ha detto?"

"Niente..." le sorrise, civettuola, e si allontanò.

Quel sorrisetto a Selvaggia non andò a genio e la afferrò per un braccio: "Se ti ha parlato di me voglio saperlo!"

"Ehi, calmati!" Cristina strattonò il braccio per liberarsi dalla sua presa. "Non mi ha detto niente! Mi ha solo chiesto se eravamo amiche e se ti conoscevo bene!"

"E tu cosa gli hai risposto?"

La ragazza la guardò un po' sconcertata. "Ma che ti prende, si può sapere? Gli ho detto la verità... Che ti conosco poco e che sei un tipo molto riservato."

Selvaggia non replicò e l'altra poté finalmente allontanarsi. Non capiva, cosa interessava a lui se erano amiche o no? Non riuscì a dare una logica a questo comportamento e dovette lavorare cercando di non pensarci. Fu la cosa più difficile del mondo, il pensiero andava costantemente lì. Perché se l'era presa così a cuore?

Per tutta la sera continuò a rimuginare sul perché Riccardo fosse andato dalla sua collega a farle domande su di lei, si diede una marea di risposte e congetture che scartava subito dopo. Pensò che Riccardo fosse in qualche modo attratto da Cristina e voleva capire quanto ci sarebbe stata male se li avesse visti uscire insieme. Assurdo! Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile?

E se questo interessamento da parte sua fosse dettato dal suo passato? Forse, essendo carabiniere, l'aveva riconosciuta come la bambina che aveva ucciso il padre adottivo. Ma anche questa ipotesi aveva poco senso; era strano che fosse andato a chiederlo a Cristina.

Lavorò con questo tarlo che le rose il cervello per tutta la serata, ringraziò Dio che fosse una serata infrasettimanale e con pochi clienti.
Una volta finito il turno e ripulito il locale, uscì come di consueto dalla porta di servizio sul vicolo adiacente. La stanchezza mentale e fisica la resero quasi insensibile al solito odore di piscio e muffa che vi si trovava, e lo attraversò senza rendersene conto. La collega aveva staccato un paio di ore prima perciò era sola ad attraversare quel vicolo. Ma quando arrivò sulla strada principale l'ombra di un uomo si stagliò di fronte a lei, oscurandole per un attimo la visuale. Memore della brutta esperienza testé vissuta alzò lo sguardo con il cuore in gola, ma gli occhi dolci e bellissimi di Riccardo la accolsero, fissi su di lei. Sentì il cuore cambiare ritmo; stava sempre correndo veloce, ma non di paura.

"Finalmente ce l'hai fatta ad arrivare! Credevo che non saresti più uscita da lì." Le sorrise, facendo un passo nella sua direzione.

Selvaggia non poteva essere più stupita della sua presenza, credeva che sarebbe sparito dalla sua vita...

"Cosa ci fai, qui?"

Non indossava più la divisa, aveva dei semplici jeans sgualciti e una felpa leggera, che gli aderiva al petto tonico e muscoloso.

"Aspettavo te." Le sorrise ancora. "Oggi non potevo restare quando sei arrivata, ero in servizio e mi avevano appena chiamato, ma volevo parlarti."

Uno strano senso di sollievo invase il petto di lei.

"Di cosa?"

Lui sembrò pensarci su con aria seria e si avvicinò ulteriormente. "Del fatto che mi hai cacciato da casa tua ma... Ho comunque una voglia irrefrenabile di sapere tutto ciò che ti riguarda."

Selvaggia  non seppe se credere alle sue orecchie. Lo aveva detto davvero? Quelle parole ebbero un effetto incredibile su di lei. Era davvero genuinamente interessato come voleva farle credere? 

"Io..." Deglutì, imbarazzata come una quindicenne, non sapendo come replicare. Ma lo spettro del suo passato riaffiorò nei suoi pensieri e provò vergogna per quello che era. "Non so se sia una buona idea—"

"Che cosa, che io ti conosca più profondamente?" La interruppe lui.

Lei annuì e abbassò lo sguardo, come avrebbe potuto dirgli quello che era, come avrebbe potuto raccontargli il suo passato?

Ma Riccardo non era tipo da farsi scoraggiare per queste cose. Le si avvicinò ancora di più e le mise le mani sulle spalle.

"Quello che non capisci è che io sento di conoscerti già."

A queste parole Selvaggia alzò la testa di scatto, guardandolo negli occhi.

"In che senso?"

Lo sguardo si Riccardo si fece per un attimo confuso, ma poi sembrò riprendersi. "Anche se non so molto su di te i tuoi occhi li ho già incontrati. Voglio solo scoprire perché mi sembrano così familiari..."

La voce gli si spense, sostituita da un silenzio assordante. Non c'era anima viva che passava di lì, nemmeno un cane, erano in una dimensione personale dove solo loro erano accetti.

"La cosa che mi sconvolge di più è che sono tristi." Continuò lui. "Ma sono talmente belli che vederli sorridere per me sarebbe il massimo, e ancora di più se fossi io l'artefice di quel sorriso."

Selvaggia era letteralmente in estasi, nessuno mai le aveva detto cose simili, nessuno prima di lui l'aveva fatta sentire così importante... Neppure Giancarlo.

"E io cosa dovrei fare?"

"Permettermi di provare a farli sorridere."

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