Capitolo Sessantacinque

Selvaggia si destò di colpo, si alzò di scatto a sedere e si guardò attorno, allarmata. Dove si trovava? C'era un armadio davanti a lei che non riconosceva, ed era la sola cosa che riusciva a vedere data la penombra che regnava nella stanza. Lentamente e con difficoltà si accorse di essere in un letto che non era il suo. Come ci era finita?

Le persiane della finestra alla sua destra, calate quasi del tutto, lasciavano entrare una piccolissima lama di luce gialla dei lampioni, che le permetteva di vedere poco e niente della stanza in cui si trovava, sapeva solo che non la riconosceva in nessun modo.

Si portò una mano alla tempia e subito sentì un forte dolore nel punto in cui aveva picchiato, tanto da farle strizzare gli occhi e aspettare qualche secondo che le passasse. Calò le gambe dal letto, scostando la coperta che aveva addosso e si accorse solo in quel momento che non sapeva dove fossero le sue scarpe. Stava iniziando ad avere paura.

Con la tenue luce dei lampioni tastò sul comodino alla ricerca di una abat-jour, ma non ne trovò. Si alzò in piedi barcollando e raggiunse quella che sembrava una porta. Si sentiva molto debole... Si ricordò di colpo dell'aggressione da parte di quel drogato squilibrato e anche della presenza di quel ragazzo biondo che ultimamente le ronzava un po' troppo attorno, ma, a parte il ricordo delle mani di quel depravato sul suo corpo, non ricordò altro. Un brivido di repulsione la colse e si affrettò a scacciare quella sensazione stringendosi nelle spalle e scuotendosi. Tastò lungo il muro alla ricerca di un interruttore ma non riuscì a trovarlo. Si sentiva troppo debole anche solo per continuare una ricerca semplice come quella e si arrese subito, decisa a uscire da quella stanza. Spostò la mano sulla maniglia e la abbassò. Di fronte a lei si presentò un corridoio in penombra, con una luce soffusa proveniente dalla fine di esso. Con un po' di timore lo percorse lentamente, aiutandosi con le mani contro il muro.

Il corridoio non risultò poi così lungo e dopo alcuni passi si ritrovò in un salottino modesto e semplice, composto da un divano a due posti con una coperta sopra ordinatamente piegata e un tavolino da soggiorno in legno. Un televisore a schermo piatto poco più grande del suo era incastrato in un mobile della stessa fattezza del tavolino e del divano, che donavano a quel salotto un aspetto un po' retrò e antiquato, solo la televisione dava un leggero tocco di gioventù.

Si diresse verso il divano e accarezzò la coperta che vi era posata sopra. Sul tavolino c'era una montagna di fogli e documenti disordinatamente accatastati, dove un oggetto scintillante e semi nascosto attirò la sua attenzione. Scostò i fogli e rivelò una pistola riposta dentro una fondina. Una pistola? Alla vista di quell'arnese le tornarono alla mente le immagini di Sebastiano Caruso e di una sé stessa dodicenne con in mano un fucile. Il cuore tornò a rimbombare nel petto... Afferrò la pistola con mano malferma e la estrasse dalla fondina come in uno stato di trance. La osservò con lo sguardo spento, come se averla in mano e sentirne il metallo sulle dita la facesse sentire potente, ma al tempo stesso debole.

Un rumore di una porta che si apriva e si chiudeva la riportò al presente e, per la paura, afferrò l'arma con entrambe le mani, puntandola verso la fonte del rumore. Lo sciacquone di un water accompagnò l'ingresso di quel ragazzo biondo che ultimamente non faceva altro che guardarla mentre lavorava. Istintivamente tese le braccia di fronte a sé puntandogli la pistola contro.

Appena Riccardo si accorse della situazione alzò le mani e sgranò gli occhi: "Wo! Calma, calma... metti giù quella pistola..."

Ma lei non ne era molto convinta e continuò a tenerlo sotto tiro, i nervi a fior di pelle. "Chi sei? Perché mi hai portata qui?"

Mantenendo le mani ben in vista le si avvicinò lentamente. "Calmati, non voglio farti del male. La porta è aperta, non sei stata rapita..."

Le mani di Selvaggia tremavano vistosamente mentre tentava di tenerlo sotto tiro. "Ma tu chi sei?"

"Mi chiamo Riccardo Felici e sono un sottotenente dell'arma dei carabinieri. Ci sono i miei documenti lì, da dove hai preso la pistola. Se non ci credi, controlla."

Selvaggia non riusciva a mantenere la mano ferma mentre si avvicinava guardinga al tavolino del soggiorno. Staccò una mano dalla pistola, rendendo ancora più evidente il suo tremore, e impacciata tentò di scostare i fogli dal tavolo per rivelare il portafogli. Riccardo non si mosse di un millimetro, stando con le mani alzate e fissandola intensamente.

Spostando continuamente lo sguardo tra lui e il tavolino, Selvaggia si piegò per cercare meglio e quando lo trovò lo aprì con una mano sola, anche se con difficoltà, ed esaminò il suo interno, senza accorgersi di non puntare più la pistola contro Riccardo. Vide il distintivo e lesse i dati, si accorse finalmente di quello che aveva fatto. Rimase a bocca aperta con lo sguardo fisso nel vuoto, abbassando la pistola. La paura le stava facendo commettere un errore madornale.

Non poteva pensarci... per un attimo le sembrò di rivivere un incubo e sentì la testa girarle vorticosamente.

Si accasciò al suolo, lasciando definitivamente la presa dalla pistola, che atterrò malamente sul tavolino, e cominciò a singhiozzare rumorosamente. L'adrenalina e la paura la abbandonarono di colpo, lasciandola debole come una bandiera in un giorno senza vento. Strinse i pugni afferrandosi la stoffa dei pantaloni e sentendosi come quando aveva dodici anni. Lo shock di allora si ripresentò al suo subconscio, non dandole l'opportunità di comprendere ciò che le succedeva intorno.

Riccardo si fiondò su di lei e si sedé sul pavimento, abbracciandola e cercando di confortarla. "Shhh, non è successo niente. Tranquilla!"

Selvaggia pianse sul suo petto per un bel pezzo, lasciandosi accarezzare e stringere da quelle braccia sconosciute. Riuscirono a farla sentire meglio. Alzò lentamente lo sguardo su di lui e due dolcissimi occhi azzurri, calmi e profondi come il cielo estivo, la osservarono vicinissimi, per un attimo sembrò dimenticarsi del dolore che stava provando e dell'errore che stava per compiere. Le sembrò di rivedere lo stesso paio di occhi azzurri che la fissarono nei suoi dodici anni, i primi occhi che riuscirono a farla sentire compresa e al sicuro nonostante la tempesta che perversava nella sua vita. Così come allora si sentì fortemente sollevata.

Si fissarono per diversi istanti in silenzio, nessuno dei due si mosse, come se nessuno dei due volesse spezzare quella strana atmosfera che si era creata. La voce di Riccardo ruppe il silenzio, calda e confortevole:

"Non ti preoccupare, non è successo niente. Mi credi?" Selvaggia annuì. "Va meglio, adesso?" Annuì di nuovo. "Bene! Ti va di alzarti o vuoi stare sul pavimento ancora un po'?"

Si guardò attorno, come svegliandosi da un incubo. "No... va bene... alziamoci." Le tremava la voce ma decise di farsi forza.

Riccardo si alzò, scattante, e allungò una mano per aiutarla a fare altrettanto.

Mise la mano in quella di lui e uno strano calore le invase il cuore. Si alzò in piedi continuando a guardarlo negli occhi.

"Va tutto bene?" le domandò, preoccupato.

Lei non rispose. "Mi dispiace, io—"

"No... ti prego, sta' tranquilla!" La interruppe. "Non hai nessun motivo di dispiacerti."

Lei abbassò la testa e riprese a piangere silenziosamente. Era mortificata, esausta.

Con una comprensione straordinaria, Riccardo le asciugò il viso con delicatezza. "Dico sul serio. Per me è un piacere aiutarti. Passavo di lì con la macchina e quando ho visto quello che quell'eroinomane ti stava facendo non potevo tirare dritto—"

A queste parole lei alzò la testa di scatto. "Che fine ha fatto?"

"Quel tipo?" Riccardo strinse la bocca, dispiaciuto. "Non lo so. Una pattuglia di polizia è arrivata e lo ha inseguito, ma non so se lo hanno preso."

Selvaggia riabbassò lo sguardo. Una rabbia cocente sentì invaderle la pancia. Come aveva potuto quell'escremento umano trattarla in quella maniera? Nonostante la vita che aveva vissuto, le esperienze negative che aveva avuto e le difficoltà che aveva superato, mai nessuno si era azzardato a toccarla in quel modo.

Vedendola perdersi nei suoi pensieri, Riccardo le alzò il mento con una mano. "Non devi preoccuparti per lui, c'è già chi ci sta pensando."

Lei annuì, ma non ribatté.

Riccardo fece finalmente un passo indietro, allontanandosi da lei, e sospirò come levandosi un peso di dosso. "Bene! Hai fame? Ho un po' di pollo freddo in frigo... è di ieri, ma è ancora buono."

Al pensiero del cibo, la pancia di Selvaggia brontolò, mettendola ancora più in imbarazzo. Il sorriso di Riccardo illuminò la stanza.

"Lo prenderò come un sì. A meno che il pollo non ti piaccia per qualche motivo, a quel punto potre—"

"No... il pollo va bene." Lo interruppe.

Riccardo le sorrise ancora di più e lei contraccambiò il sorriso. "Ok, vado a preparartelo."

***

Si allontanò lasciandola sola ed entrò in cucina, si voltò per guardarla attraverso la porta aperta. Selvaggia si guardava attorno spaesata e si sedette sul divano, continuando a guardarsi attorno, portandosi le ginocchia al petto e abbracciandole. Gli fece pena, sembrava un gattino abbandonato.

Eppure quegli occhi... Quegli occhi li conosceva, li aveva già visti. Esattamente così, pieni di lacrime e tristezza, pieni di sofferenza ma al tempo stesso di forza. Per un attimo se la immaginò con dei ricci capelli rossi attorno alla testa, come se quei lisci capelli neri non le appartenessero davvero.

Cercò di non pensarci e aprì il frigo, preparandole un piatto di pollo e piselli e mettendolo nel microonde. Quando glielo portò, di nuovo fumante, la trovò addormentata sul divano, con la coperta che aveva preso per sé sulle gambe e la testa appoggiata sul bracciolo. La osservò per alcuni secondi, chiedendosi se svegliarla o no. Sospirò, la coprì del tutto con la coperta e riportò il pollo in cucina. A quanto pare la stanchezza era stata più forte della fame.

Decise di prendersi un giorno di permesso, non le andava di lasciarla uscire dalla sua vita così, come se non fosse successo niente. Era evidente che avesse dei problemi. Ok l'aggressione, ma la sua reazione era stata esagerata, anche per una che era stata aggredita da un drogato fuori di testa.

Il giorno dopo sarebbe rimasto a casa, così avrebbe avuto l'opportunità per conoscerla meglio.

***

La mattina dopo un rumore metallico come di una pentola che cadeva a terra lo svegliò di soprassalto. Si alzò ancora frastornato dal letto e si diresse verso la cucina, dove trovò la ragazza in piedi su una sedia, con la testa infilata dentro uno sportello, alla ricerca di chissà cosa.

"Che stai facendo?"

Selvaggia fece un salto sul posto, rischiando di cadere dalla sedia. "Cavolo! Mi hai spaventata!"

"Scusa..." avanzò lentamente verso di lei. "Ma cosa stai facendo?"

Osservò con minuziosa attenzione ogni centimetro di quelle gambe snelle che svettavano proprio davanti al suo naso. Lei scese con grazia dalla sedia e sorrise, intimidita. Non riusciva nemmeno a guardarlo in faccia.

"Volevo preparare qualcosa per colazione."

"E cosa stavi cercando dove io tengo le pentole?"

"Uhm... Cercavo un pentolino per scaldare il latte."

"Se mi avresti aspettato ti saresti risparmiata la fatica." Si avvicinò al forno e lo spalancò. "Questo forno non funziona, quindi lo uso per tenerci le pentole più piccole." Ne afferrò una e gliela allungò.

Selvaggia gliela tolse di mano ancor più imbarazzata. "Già..."

"Non potevi saperlo."

"Volevo fare qualcosa per sdebitarmi per ieri sera."

"Non ce n'è bisogno."

Lo sguardo di Riccardo si posò su quelle iridi verdi e sembrarono incatenarlo. Si guardarono negli occhi per un lungo momento, di nuovo catturati l'uno dall'altra.

"Mi andava di farlo..." Sussurrò lei.

Un lieve sorriso increspò le labbra di lui, subito imitate da quelle di lei, mentre sembravano studiarsi a vicenda in un lungo esame. Sembrò quasi che il tempo si fosse fermato. Per un interminabile attimo esistevano solo loro due.

L'incanto venne interrotto dal suono del campanello, facendoli sobbalzare e distogliere entrambi lo sguardo. Riccardo andò ad aprire, mentre Selvaggia si rimise alla ricerca di quello che le serviva per la colazione.

Oltre la porta del suo appartamento, trovò il suo collega Roberto, con uno stupido sorriso stampato in faccia e con indosso la divisa di ordinanza. Appena lo vide, sentì il sangue defluirgli dal viso.

"Roberto, cos—"

"Come mai oggi non sei venuto al lavoro? Ti senti male?"

"No... non mi sono messo in malattia, infatti." Era nervoso, la sua presenza non ci voleva...

"Già, ti sei preso un giorno di permesso. Perché?"

"Perché ho da fare."

"Cosa?"

L'insistenza dell'amico stava iniziando a essere insopportabile.

"Cose personali."

"Ok... mi fai entrare?"

Riccardo fece per voltarsi verso la cucina, con la paura che Selvaggia sbucasse dalla porta, ma ci ripensò e riportò l'attenzione su Roberto facendo finta di niente. Ma a quest'ultimo non sfuggì quel gesto strano, sgranò gli occhi sotto la visiera del cappello e aumentò il sorriso che aveva in faccia.

"C'è qualcuno in casa con te!"

"No... nessuno." Fu la risposta, subito tradita dal rumore di una pentola che cadeva a terra.

"Avanti! Chi è, una ragazza? La conosco?"

"No, Roberto, non è nessuno..."

A questa risposta l'amico divenne serio. "Perché non vuoi farmela conoscere?"

Riccardo non seppe cosa rispondere e tergiversò. Roberto ne approfittò per spingere la porta ed entrare.

"Ehi!" Protestò il padrone di casa.

"Andiamo! Non vuoi condividere con me le tue conquiste?"

"Shh!" Lo apostrofò Riccardo. "Non c'è nessuna conquista!"

Selvaggia si affacciò d'improvviso alla porta della cucina: "Scusa... dov'è lo zucchero?"

Appena la vide, Roberto assunse nuovamente quello stupido sorriso di prima. "Ciao..."

Lei lo riconobbe subito e si morse le labbra. "Ah... scusate, non volevo disturbare."

"Nessun disturbo, signorina!" Rispose prontamente il carabiniere.

"Scusalo..." Intervenne Riccardo. "Era venuto un secondo per prendere una cosa, stava giusto andando via."

Pensò velocemente a un modo per allontanare l'amico da lì e gli venne in mente il serramanico dell'eroinomane, che aveva lasciato su di un tavolino vicino all'entrata. Lo afferrò appoggiandolo sul petto di Roberto, in questo modo riuscì a spingerlo nuovamente fuori dalla porta.

"Tieni questo, e fallo esaminare. Guarda se tutte le impronte che trovano appartengono a qualcuno già schedato."

"Ma... perché?" Confuso, Roberto gli prese l'oggetto dalle mani, senza evitare di ritrovarsi nel pianerottolo con gli occhi sgranati.

"Te lo spiego poi, adesso vai." Gli fece un gesto per farlo allontanare e gli chiuse la porta in faccia.

Roberto si ritrovò da solo sul pianerottolo, osservò il coltello che aveva in mano e si strinse nelle spalle, non gli rimase che andarsene e fare come Riccardo gli aveva detto.

Riccardo tirò un grosso respiro di sollievo, ci mancava solo che quel cretino iniziasse a fare il cascamorto con lei e a fare domande indiscrete, su queste cose non aveva un limite. Sperò che almeno riuscisse a far analizzare il coltello che gli aveva dato; ripensando a come quel drogato aveva toccato e percosso Selvaggia, avrebbe voluto sbatterlo dentro per il resto della sua vita.

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