Capitolo Ottantuno
La stanza che avevano riservato al boss Lo Iacovo era stretta e colma di sedie e poltrone dall'aria vissuta, ordinatamente disposte lungo le due mura ai lati dell'entrata. L'aria era pesante e calda, rendendola difficile da respirare, fu per questo che la Madre Superiora si diresse subito verso la finestra alle spalle del letto, assicurata con spesse sbarre di ferro, e la spalancò. Fu con quel gesto che spostò l'attenzione di Selvaggia sull'uomo disteso al centro del letto.
Aveva dei tubicini attaccati a una bombola di ossigeno che gli sparivano nel naso, e al braccio sinistro aveva attaccata una flebo che continuava a infondergli nelle vene quello che presumibilmente era un antidolorifico, per quel poco che poteva saperne lei. Concentrò lo sguardo sul suo viso e quegli occhi scuri che la fissavano severi la fecero sentire come una bambina colta in fallo.
"Patrizia, perché mi hai portato una negretta delle tue?" Tuonò.
La donna continuò a sistemare e rassettare la stanza senza rispondere alla domanda. La voce dell'uomo, se pur incrinata dalla sofferenza derivata dalla malattia, restava forte e imponente, soprattutto alle orecchie di Selvaggia, che era istintivamente impaurita da lui.
"Quelle infermiere non badano abbastanza a te, dovrebbe essere licenziate..." Borbottava continuamente la suora, apparentemente ignara della domanda che l'uomo le aveva posto, ma quest'ultimo, spazientito, la ripeté alzando la voce.
"Patrizia, si può sapere cu è chissa niura che mi sta taliannu?!" Sbraitò. (Si può sapere chi è questa negretta che mi sta fissando?)
La donna allora si fermò dal rassettare la stanza e andò a piazzarsi al suo capezzale. "Questa ragazza non è una suora del mio ordine, papà."
L'uomo fissò la donna al suo fianco con un cipiglio severo. "E cu è?" (E chi è?)
"È la figlia di Carolina, papà. Questa è tua nipote Selvaggia!"
L'uomo spostò nuovamente lo sguardo su Selvaggia, questa volta incredulo e stupito. "Ma chi sta ricennu?" Alzò le sopracciglia, sbigottito. "A mia pare niura, chissa. Ma figghia bianca era." (Ma che stai dicendo? A me pare nera, questa. Mia figlia era bianca.)
La Madre Superiora sapeva che l'uomo non ci avrebbe creduto e con nonchalance si avvicinò a Selvaggia per toglierle il velo dal capo e farla avvicinare al letto.
Selvaggia era rimasta impietrita appena oltre la porta, totalmente confusa dalla situazione e assolutamente incapace di pensare, le risultò difficile avvicinarsi a quell'uomo. Lui continuava a fissarla con un cipiglio strano, ancora incredulo alle parole della figlia, finché quest'ultima non le tolse gli occhiali dal naso. Alla vista di quegli occhi verdi l'uomo ebbe un sussulto.
"Oh Cristo'!"
"Gli occhi non mentono, papà!"
L'uomo restò a fissare gli occhi verdi di Selvaggia per un lungo istante, come assorto da chissà quali ricordi, ma un forte colpo di tosse improvviso gli fece stendere la testa sul cuscino e chiudere gli occhi.
"Mi ni futtu" (Me ne frego) esclamò ad occhi chiusi. "Chissa a sparire da mo vista!" (Questa deve sparire dalla mia vista!)
Selvaggia si sentì di colpo maltrattata. La reazione di quell'uomo le mise addosso una sensazione simile a quando si sentiva emarginata dai suoi compagni di scuola. Strano, eppure era esattamente questa la reazione che si aspettava da lui. Il fatto che si sentisse respinta da quello che null'altro era che il padre di sua madre la sconvolse più di quanto immaginasse.
Il sangue non è niente se non esiste un legame di affetto.
Stranamente le tornò in mente Michele... Chissà che fine aveva fatto quel padre che lei aveva ripudiato con tanta facilità ma che aveva manifestato nei suoi confronti solo amore e rispetto sincero. Per un attimo provò mancanza di quel padre così dolce.
"Pensavo che ti avrebbe fatto piacere conoscere tua nipote─"
La voce della donna la riscosse, ma venne a sua volta interrotta da quella dell'uomo:
"Chidda nun è ma niputi." Tuonò. "Picchì si fussu ma niputi nun stassi femma dda comu na stupida a taliarimi muta." (Quella non è mia nipote, perché se fosse mia nipote non starebbe lì ferma come una stupida a fissarmi zitta.)
Un altro violento colpo di tosse gli fece di nuovo chiudere gli occhi e abbandonarsi tra le lenzuola.
I suoi modi di fare erano incredibilmente arroganti. Quell'uomo aveva un piede nella fossa, era costretto a vivere gli ultimi giorni della sua vita nella stanza di un carcere su di un letto d'ospedale con la sola compagnia di una figlia suora, eppure non accettava di conoscerla. Selvaggia sentiva un fuoco nel petto che la bruciava, l'orgoglio e la rabbia cercavano di farsi spazio dentro di lei, mentre l'umiliazione li alimentava in silenzio. Sentire quelle parole ruvide e forti al suo indirizzo la fecero scattare.
La Madre Superiora tentava bonariamente di rimproverare il padre e lei gli si piazzò davanti facendo oscillare sotto il naso il suo ciondolo. La trinacria con un cerchio al posto della testa di donna catturò un riflesso di luce, attirando l'attenzione dell'uomo.
"Se non fossi vostra nipote come potrei possedere questo?"
Gli occhi dell'uomo si fecero profondi e allungò una mano per afferrare il ciondolo. "Ma chissu, chissu ie..." (Ma questo, questo è...) Sospirò, rigirandoselo nella mano.
"Era di mia madre!" La voce chiara e forte di Selvaggia ruppe il silenzio che si era creato. Ma lo sguardo truce dell'uomo le fece ingoiare quel coraggio che era riuscita a racimolare dalla sua rabbia.
L'uomo alzò il braccio e scagliò il ciondolo a terra, lontano da lui. "Nun si cosa i purtarlu, nun tapperteni!" (Non sei degna di portarlo, non ti appartiene!)
Una crisi di tosse convulsa e improvvisa lo fece piegare su stesso, la Madre Superiora accorse per calmarlo.
Selvaggia si sentì gli occhi inondare di lacrime. Perché aveva reagito in quel modo? Corse a recuperare il ciondolo; era l'unico legame che avesse con sua madre, non voleva perderlo. Se lo strinse contro il petto in tumulto, i colpi di tosse sconquassavano quello del vecchio.
***
Quel giorno la visita della Madre Superiora al capezzale del padre durò meno del solito.
Dopo appena mezz'ora dal loro ingresso le due suore uscirono dalla stanza, entrambe a capo chino, come se avessero appena assistito a un funerale. Fu questa l'impressione che ebbe Riccardo vedendole uscire da quella porta e, preoccupato che non fosse successo qualcosa all'uomo, si avvicinò alla Madre Superiora:
"Madre, vostro padre sta bene? È successo qualcosa per la vostra uscita prematura?"
La suora spostò gli occhi su Selvaggia per un secondo, ma cercò di assumere un'espressione neutra per rispondere a Riccardo.
"Oh, no, grazie, non è successo niente. Siamo solo rammaricate per la sua sorte."
Lo sguardo di Riccardo si soffermò più del normale sulla suora più giovane, che manteneva imperterrita lo sguardo basso, la testa china, come se fosse in punizione.
"Certo, capisco..."
"Adesso, se non le dispiace, dovremmo andare." Si scusò la Madre superiora sospingendo delicatamente Selvaggia verso l'uscita.
Riccardo fece un passo indietro e fece loro il gesto di poter proseguire. Le osservò passargli davanti, e posò lo sguardo sulla figura più giovane. Sembrò studiare la sua corporatura e il passo che, seppur lento e impacciato dalla lunga gonna, sembrava ricordargli qualcosa.
***
Si stava passando una spugna da trucco imbevuta di latte detergente sul viso, lo specchio di fronte a lei continuava a guardarla con un'espressione persa e spaventata. Quel viso riflesso nello specchio era quello di una fifona, di una senza spina dorsale. Quell'uomo l'aveva messa di fronte alla sua paura più grande, a quella di non venire accettata neanche dal sangue del suo sangue. Era riuscito a fare tremare tutte le sue convinzioni, a deludere tutte le sue aspettative. Come poteva essere nipote di un uomo simile?
Aprì il rubinetto e passò la spugna da trucco sotto l'acqua corrente, colorando di marrone quella che finì nello scarico. Tornò a versarvi del latte detergente e a passarla sulla pelle, rivelando il suo colore pallido. Non era riuscita neanche a porgli una domanda, a farsi dire quello che sapeva. Era una codarda!
Il bussare veloce alla porta del bagno la fece trasalire e subito la voce della Madre Superiora la raggiunse: "Tutto bene là dentro?"
La spugnetta le cadde di mano, finendo nel lavandino. "Sì... Tutto bene!"
"Posso entrare? Sono già venti minuti che sei lì."
Si guardò di nuovo allo specchio e le tremò il mento. "Preferirei di no..."
Ma la porta si spalancò lo stesso mostrando la figura della suora che la osservava dispiaciuta e rammaricata.
"Non farti condizionare da quello che ti ha detto. È solo un uomo vecchio e malato, pieno di rancore da sfogare su qualcuno."
Tornò a guardarsi allo specchio, ormai era riuscita a togliersi ogni rimasuglio di trucco dal viso.
"So che sembrerà strano, ma quell'uomo aveva ragione."
La suora sembrò non capire: "Di che cosa stai parlando?"
Selvaggia si concentrò sui propri occhi riflessi. "Io... Non ho avuto neanche il coraggio di fargli una domanda─"
"E con questo?" La interruppe la donna. "Come avresti potuto se ti ha assalita subito?"
Selvaggia scosse la testa. "Mia madre doveva essere una donna che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Vero? Da quello che ho capito non avrebbe mai permesso che qualcuno la trattasse come lui ha trattato me."
La Madre Superiora la guardò seria. "Tua madre ha avuto una vita molto diversa dalla tua. È cresciuta con un padre che non l'ha mai voluta, che non ha mai cercato di accarezzarla o tentato di spendere una buona parola per lei... E con una sorella altrettanto fredda e distaccata. È diventata una ragazza forte, sì, ma rude, quasi incapace di amare. Soltanto l'amore di tuo padre la rese più dolce."
Selvaggia scosse la testa, rassegnata. Madre Superiora sembrava non voler capire.
"Tutto ciò sta a significare che non sono degna di possedere questo ciondolo... E adesso non capisco perché mia madre me lo ha dato." Lo estrasse dalla tasca e lo soppesò sul palmo della mano.
La Madre Superiora le afferrò la mano e gliela fece chiudere, racchiudendo il ciondolo al suo interno.
"Questo doveva solo significare che tu sei sua figlia, e per quanto la vita non fosse stata gentile con lei, ti amava e ti ha donato un oggetto che per lei significava la famiglia. E poi era un messaggio per me, per indicarmi chi eri una volta che ti avrei trovata nella ruota." Mantenne la stretta sulla mano e la guardò diritta negli occhi. "Non hai bisogno di quell'uomo per sapere chi sei. Devi essere orgogliosa della donna che sei diventata."
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