Capitolo Novantasette

Selvaggia sgranò gli occhi e osservò la pistola senza accennare ad afferrarla. Don Carmine le prese la mano e gliela fece impugnare a forza.

"Credo che tu sappia come si impugna un'arma."

Le mani di Selvaggia iniziarono a tremare vistosamente, sia Riccardo che Michele la osservarono preoccupati. Continui flash del suo passato le apparivano in sequenza, impedendole di agire.

Don Carmine si sedette spaparanzato sulla sua sedia, guardandola ironico. Era così sicuro che non avrebbe puntato la pistola contro di lui! Seduto alla sua scrivania, don Carmelo osservava tutta la scena con lo sguardo divertito, non intenzionato ad aprir bocca. Il respiro concitato di Selvaggia le riempiva le orecchie, le fischiavano, facendola sentire come dentro a una bolla. Come poteva scegliere?

La visione di sé stessa nell'atto di sparare a Sebastiano Caruso la fece sentire estraniata da sé stessa. Si sentì in una sorta di limbo. Non si trovava più nell'ufficio di don Carmelo, con don Carmine che la guardava divertito... Tutto il mondo attorno a lei scomparve, rimasero Riccardo e Michele, seduti davanti a lei, in attesa, in mano stringeva un fucile... quello con cui sparò a Sebastiano.

Cosa doveva fare? Come poteva prendere una decisione simile? E se si fosse rifiutata? Sarebbe stato don Carmine stesso a prendere la decisione al posto suo?

Osservò i due uomini, entrambi sofferenti e feriti... Uno dei due era più meritevole dell'altro di morire?

Sicuramente suo padre in passato si era macchiato di alcune colpe, una fra tutte quella della carcerazione del signor Siriani, ma... era tutto così lontano, ormai, così privo di importanza.

Riccardo, se pur da poco, lo conosceva quel tanto da sapere che non avrebbe fatto del male a una mosca. Ma come Carabiniere non poteva credere che non avesse mai alzato un'arma contro qualcuno, anche solo perché glielo avevano ordinato.

Ma davvero stava prendendo in seria considerazione chi dei due meritasse maggiormente di morire? E lei, allora? Lei non meritava di morire? Lei, che aveva abbandonato un padre per il solo fatto di non averle detto sin da subito una verità scomoda, una verità che avrebbe potuto sconvolgerla come mai niente avrebbe potuto. E che si era data a un uomo dopo averlo messo alla prova inutilmente sulle sue intenzioni mentre avrebbe dovuto essere lei a meritarsi il suo amore.

Non si meritava il loro amore, di nessuno dei due.

Se c'era qualcuno in quella stanza che non era affatto innocente quello era proprio lei.

Aveva le mani sporche di sangue.

E la coscienza sporca di ingratitudine.

Li guardò negli occhi per alcuni istanti, entrambi sembravano supplicarla di sparare a lui e salvare l'altro. Michele perché si sentiva in dovere di fare il padre fino alla fine, Riccardo per il ruolo che ricopriva come Carabiniere.

Ma la sua mano tremante portò la pistola contro la propria tempia, e chiuse gli occhi. Contemporaneamente, entrambi gli uomini iniziarono a urlare, supplicandola di non farlo. Tra le loro proteste, la voce di don Carmine emerse, come da un luogo estraneo e lontano:

"Tale madre tale figlia."

Selvaggia non ebbe il tempo di chiedersi cosa volesse dire, era troppo sconvolta per ciò che stava per fare. Tra le imprecazioni di Michele e Riccardo, iniziò a dare tensione al grilletto. Ora capiva cosa doveva aver subìto suo padre quando aveva dovuto scegliere tra lei e il padre di Giancarlo.

All'improvviso un confuso scalpiccio fuori dall'ufficio la interruppe, sussultò e abbassò la pistola guardando verso la porta. Qualcuno bussò con prepotenza, come se si stesse accanendo sulla porta con i pugni e con i piedi. Antonio urlò al di là di quella barriera:

"Don Carmelo, apra, presto!"

Confuso, l'uomo si alzò dalla propria scrivania e andò ad aprire. Antonio, sudato e affannato, si accostò al suo orecchio, riferendogli qualcosa che nessun altro riuscì a sentire. Un'ombra di preoccupazione attraversò lo sguardo di don Carmelo, ma fu talmente breve che non lasciò tracce sul suo volto. Di nuovo impassibile, ordinò ad Antonio di rimanere lì a far da guardia ai prigionieri, si scusò col proprio ospite e si allontanò, senza dare informazioni.

Don Carmine lo guardò preoccupato. "Cos'è successo?"

Il braccio destro di don Carmelo sembrò in difficoltà. "Non sono autorizzato a dirglielo, don Carmine."

Lo sguardo di indignazione lo trapassò da parte a parte, ma l'energumeno non ne fu assolutamente colpito. Don Carmine si avvicinò a Selvaggia e le strappò la pistola di mano.

"Questa serve a me."

Infilò la porta e scomparve. Selvaggia sentì lo sguardo pesante di Antonio su di sé, ma questa volta non ebbe la presenza di spirito di ribattere a tono come era ormai abituata a fare. Restò seduta a terra, incapace di capire la situazione. Era completamente confusa, le sembrava di vivere un incubo, dove non aveva volontà di azione.

Le parole di Riccardo la riscossero dal suo stato di estraniamento.

"Don Carmelo ti ha messo di guardia, eh? Come un cane..."

Antonio lo fissò affilando lo sguardo. "Te lo devo ripetere, milanese? Se non sai le cose devi stare muto."

Riccardo mandò uno velocissimo sguardo divertito a Selvaggia, ma tornò subito serio per parlare con Antonio. "Io credo che quello che non sa le cose, qua dentro, sei solo tu."

Senza rispondere, Antonio avanzò al centro della stanza e si sedette alla sedia riservata a Selvaggia. "Già... secunnu tia iu nun sacciu nente, ma nun sugnu iu chiddu attaccatu na seggia." (Secondo te io non so niente, ma non sono io quello legato a una sedia.)

Riccardo restò in silenzio per alcuni secondi, sembrava ragionare sulle parole da usare con quell'uomo.

"Sai cosa mi disse il tuo tanto amato don Gaetano?"

Antonio lo guardò di scatto, incuriosito e sospettoso. "Vuoi farmi credere che si rapiu cu tia?"

Le narici di Riccardo si allargarono in un profondo respiro. "Disse che non era stato lui a organizzare l'attentato a quel Magistrato... come si chiamava?"

"Farnesi." Antonio sembrò vacillare a quelle parole. "Non ero ancora alle sue dipendenze ai tempi, non posso saperlo."

"Don Gaetano era stato incastrato per l'attentato al giudice Farnesi... ma non vi aveva mai partecipato. Però si è fatto quasi dieci anni di carcere e ci è morto per un cancro ai polmoni."

L'attenzione di Antonio era tutta per lui. "Cosa vorresti insinuare, scusa?"

"Ah, io niente," abbassò lo sguardo sul pavimento, per non dare troppa importanza alle sue parole. "Ma credo che da qualche parte potresti trovare qualche documento che forse svela i veri colpevoli di quell'attentato."

Antonio alzò un sopracciglio, e schioccò la lingua contro il palato. "Tzè. Minchiate!"

"Se non spiega i veri colpevoli sicuramente spiegherà come invece era stato incastrato don Gaetano al posto dei veri responsabili. Se non ricordo male, Farnesi non si era mai scontrato con la famiglia Lo Iacovo, ma solo con─"

"Don Carmine." Finì per lui Antonio.

Perplesso si alzò dalla sedia e aggirò la scrivania di don Carmelo, aprì tutti i cassetti e frugò al loro interno, alla ricerca di chissà cosa. Sembrò non trovare niente nemmeno all'interno del mobile alle sue spalle. I tre lo guardarono frugare frenetico in ogni luogo senza battere ciglio, finché Antonio si voltò verso un grande quadro raffigurante un branco di cavalli al galoppo contro un tramonto e lo afferrò con entrambe le mani. Lo staccò dal muro e lo appoggiò a terra, rivelando una cassaforte con combinazione. Si guardò un attimo attorno, spostando lo sguardo sui tre che lo fissavano attoniti, e digitò velocemente un numero. Fortunatamente la cassaforte si aprì con un piccolo clank.

"Minchia, nun lu cangiau!" (Cazzo, non l'ha cambiato!)

Lo aprì fino in fondo, rivelando una gran quantità di banconote strette in fascette di carta e alcuni documenti appoggiati alla parete interna. Afferrò subito questi documenti e li scartabellò velocemente. Li lesse con fretta, una pagina dopo l'altra e si soffermò su di un particolare che sembrava interessante, leggendolo con particolare attenzione. Di colpo il fascicolo gli cadde di mano e in poche falcate uscì dalla stanza, lasciando i tre a guardarsi negli occhi, sbigottiti.

Nessuno di loro riuscì a spiccicar parola, restarono in silenzio, incapaci di comprendere cosa stesse succedendo e perché li avessero lasciati soli. Tremando come una foglia, Selvaggia si alzò dal pavimento e si azzardò ad affacciarsi alla porta, sotto gli occhi preoccupati dei due uomini.

"Sta' attenta, amore mio." Si allarmò Michele.

Lei gli restituì uno sguardo di rassicurazione e guardò fuori. Proprio in quel momento, delle urla concitate arrivarono da chissà dove, seguite da un colpo di pistola che rimbombo tra le mura e gli alti soffitti di quell'ingresso. Impaurita, si ritirò dalla porta e fece un passo indietro senza staccare gli occhi da essa.

"Selvaggia! Selvaggia, che succede?"

Riccardo tentò di strapparle qualche reazione, ma Selvaggia rimase immobile con lo sguardo fissò nell'ingresso. Uno scalpiccio di molti piedi, calzati da stivali con la suola in gomma, si avvertirono scendere dal piano di sopra. Grida concitate e confuse davano ordini di perlustrare l'intera villa e finalmente Loredana apparve da quella porta, con in mano un fucile e una cartuccera avvolta attorno alla vita. I lunghi capelli neri erano legati in una coda alta e la lunga gonna era stata sostituita da dei pantaloni mimetici.

"State tutti bene?"

I tre la fissarono sbalorditi come non mai e Selvaggia franò al suolo come un fantoccio, perdendo i sensi.

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