Capitolo Novantasei
Michele Giordano aprì gli occhi lentamente, avvertendo un forte mal di testa che gli faceva vedere il mondo completamente appannato. Piano piano che riprendeva i sensi si rese conto di essere legato a una sedia con le mani dietro la schiena. Di fronte a lui due grandi finestre facevano entrare quel poco di sole invernale, ulteriormente oscurato dalle lunghe tende damascate, ma non riuscivano a stare ferme, continuavano a girare vorticosamente davanti ai suoi occhi. Sbatté le palpebre per scacciare la nebbia e il giramento di testa. La situazione migliorò lievemente, ma non riuscì a capire dove si trovasse.
Fu il sussurro di sua figlia a scuoterlo.
"Papà..."
Selvaggia era legata come lui su un'altra sedia, con le mani dietro la schiena e lo sguardo sofferente. Provò a chiamarla ma dalla bocca uscì solo un suono rauco, e il dolore alla gola gli fece strizzare gli occhi. Stanco, abbandonò la testa contro il suo petto. A sua volta, il gesto aumentò il dolore alla testa, nel punto dove era stato colpito, che iniziò a pulsargli a ritmo col battito cardiaco.
Finalmente riuscì a mettere a fuoco la stanza. Don Carmelo gli si piazzò davanti e lo afferrò per i capelli.
"Eccolo qui, l'avvocato delle cause perse. Anzi, devo dire che in passato ci hai reso un grande servizio, ma hai fatto bene a venire qui. Non per te, ovviamente."
Lasciò la presa dai capelli e la testa di Michele ricadde mollemente sulle spalle, come un fantoccio. Subito riconobbe la voce del carabiniere:
"Lo lasci stare, don Carmelo!"
Riuscì ad alzare la testa. Don Carmelo si avvicinò al carabiniere, anch'egli legato a una sedia, aveva una profonda ferita sulla fronte, dalla quale colava un rivolo di sangue.
"Altrimenti che mi fai?" Senza alcun avvertimento, lo colpì con la mano aperta, facendogli girare la testa e sputare del sangue.
Una risata sommessa gli arrivò dalle spalle, ma non poté attribuirne la paternità a nessuno che conoscesse.
"Sei sempre stato manesco, Carmelo."
Un uomo di mezza età con i capelli bianchi e folti e l'andatura arrogante entrò nel suo campo visivo e si avvicinò al giovane carabiniere. Lo guardò con un sorriso di scherno e si spostò di fronte a sua figlia. Selvaggia si appiattì contro la sedia, impaurita. L'uomo si chinò per arrivare alla sua stessa altezza e le accarezzò la guancia con fare lascivo.
"Non c'è bisogno di sfogarsi su di lui. Tanto ho già quello che vorrebbe per sé."
Ma di cosa stava parlando? Non le piacque quel gesto, e la reazione di sua figlia ancora meno. Il giovane carabiniere iniziò a strattonare le mani, muovendo le spalle per liberarsi. Inutilmente.
"La lasci stare, non la tocchi!"
L'uomo si erse in tutta la sua statura e rivolse a don Carmelo un sorriso derisorio. "Il ragazzo ha bisogno di imparare il rispetto. Credo di capire la tua voglia di alzare le mani." E all'improvviso lo colpì al volto, ferendolo al naso. Un rivolo di sangue iniziò a uscire dalla narice sinistra.
Selvaggia iniziò a piangere. "Basta, vi prego..."
L'uomo rivolse tutta la sua attenzione a lei e le si inginocchiò davanti. "Oh, povera Selvaggia. Mischina!" Le passò una mano tra i capelli, mentre lei continuava a piangere e a singhiozzare silenziosamente. "Ti sta scantannu?" (Hai paura?)
Il respiro di Selvaggia divenne più veloce, gli occhi sgranati, terrorizzati, fissi davanti a sé.
"Ti fici na dumanna." (Ti ho fatto una domanda.) Insisté, afferrandole una ciocca di capelli dietro la nuca per forzarla a guardarlo negli occhi.
Lei alzò lo sguardo sul suo viso e annuì, frenetica.
L'uomo fece sbattere la lingua contro gli incisivi. "Tzu tzu tzu!" Scosse lentamente la testa.
Tornò con la sua carezza, passandole la mano dai capelli fino al collo, scendendo ancora più giù, fino a sfiorarle il seno. Selvaggia mosse le spalle di scatto, con l'intento di scansare quella mano. Fu a quel punto che lui si alzò di nuovo e iniziò a ridere.
"Non ti preoccupare. Una volta che sarai in America con me ti dimenticherai del tuo amante."
In America? Michele non riusciva a capire. Chi era quell'uomo? Perché trattava Selvaggia come un oggetto di sua proprietà?
Contro ogni buon senso, il ragazzo si azzardò a sfidarlo di nuovo.
"Lei non vuole venire con voi, don Carmine!"
Di colpo un flash di un passato risalente a venti anni prima invase la mente del povero Michele, facendogli assumere ancora più consapevolezza della gravità della situazione.
Si trovava all'università, per prepararsi alla tesi di laurea. Stava studiando i suoi appunti nel silenzio della biblioteca quando una presenza davanti a sé gli fece alzare la testa. Carolina lo stava guardando con una strana luce negli occhi. Il sorriso gli si era spento dal viso e si era preoccupato all'istante.
"Caro, è successo qualcosa?"
Lei aveva deglutito e si era seduta affianco a lui. "Devo sparire dalla circolazione."
Lui non aveva capito. "Cosa stai dicendo?"
"Mio zio... l'ho sentito parlare al telefono l'ultima volta che sono andata a casa." Aveva abbassato lo sguardo, perdendosi tra le assi di legno del pavimento. "Mio padre ben presto dovrà partire per diversi giorni e lui... vuole vendermi."
Lui aveva riso. "Ma che stai dicendo? Cosa vuol dire che vuole venderti?"
Lei allora gli aveva preso le mani e lo aveva guardato negli occhi. "C'è una cosa importante che non ti ho detto, Michele. Riguarda la mia famiglia."
"Ti ascolto."
Lei si era guardata attorno in modo nervoso. "Non qui. Andiamo fuori, sulla nostra panchina."
Lui non riusciva a capire ma aveva annuito e si era alzato dalla poltrona, riponendo il libro e la penna nella sua borsa. L'aveva seguita nel giardino interno, fino alla panchina su cui si erano conosciuti, nascosta da un salice piangente su cui aveva inciso con la chiave la scritta M+C all'interno di un cuore. Si erano seduti e a quel punto Michele aveva iniziato a preoccuparsi vedendo l'espressione scioccata di Carolina.
"Per favore, dimmi tutto... non posso vederti così."
Lei aveva preso un grosso respiro e, tra diverse interruzioni e giuramenti di verità, gli aveva spiegato che suo padre era il boss Gaetano Lo Iacovo, massimo esponente del clan mafioso che dettava legge in tutta la Sicilia. A quei tempi per lui era stata una notizia scioccante, ma lei non gli aveva dato il tempo di assorbirla che subito gliene aveva data un'altra:
"Mio zio ha diversi contatti con la mafia americana... Un certo don Carmine ha deciso di volermi come sua sposa, in cambio di una grossa mandata di stupefacenti, o forse di altro materiale che ora non so..."
Lo aveva guardato negli occhi e vi aveva letto incredulità. Era stato allora che lo aveva afferrato per le mani e lo aveva supplicato di aiutarla. In quel momento l'unica cosa che era venuta in mente a Michele era stata di nasconderla a casa sua, in quella villa che divideva con i suoi genitori e una coppia di domestici fidati. Era proprio in quel periodo che avevano concepito Selvaggia...
Sentendo quel nome alzò lo sguardo sul suo proprietario. "Voi siete don Carmine!"
Un sentimento di fastidio apparve negli occhi di quest'ultimo. Gli si avvicinò, sospettoso.
"E tu sei Michele Giordano. Mi ricordo di te." Si chinò per mettere i propri occhi alla stessa altezza dei suoi. "Ma questa volta non ti permetterò di mettermi i bastoni tra le ruote." Una mano pesante si posò sulla spalla di Michele. "E non dovrò fare niente di mio pugno."
Si alzò di scatto, aggirò Selvaggia e le sciolse il nodo che le teneva le mani. La prese per una spalla, costringendola ad alzarsi e a piazzarsi di fronte ai due uomini legati. Assumendo un'espressione decisa fissò Michele e contemporaneamente afferrò Selvaggia per i fianchi.
"Questa volta starai a guardare senza poter fare niente, come fece io ai tempi."
Accarezzò Selvaggia lungo il suo profilo, sfiorandole il seno e la pancia. Riccardo si mosse istintivamente per liberarsi.
"Rifattela con quelli della tua stazza!" Scoppiò, sofferente.
La mano di don Carmine si bloccò sulla pancia di Selvaggia e lo guardò sorpreso.
"Non ditemi che siamo davanti a due innamorati!"
Selvaggia iniziò a tremare sotto quello sguardo inquisitore. Fortunatamente don Carmine non le fece niente, ma si rivolse al suo compare.
"Don Carmelo, unnè u ferro che aveva iddu?"
Con una risatina divertita, don Carmelo si diresse alla sua scrivania, aprì un cassetto e gli porse la piccola rivoltella che Michele aveva con sé quando aveva deciso di inoltrarsi in quell'avventura. Don Carmine l'afferrò per il calcio, e passò la canna sul viso di Riccardo.
"Sarebbe davvero molto facile per me levarmi questo fastidio. Ma che divertimento ci sarebbe?" Si voltò verso Michele, che lo guardava preoccupato, cercando di capire cosa avesse in mente. Puntò la canna contro la gola di Riccardo.
"Bang!" Urlò all'improvviso.
Un urlo di spavento uscì dalla gola strozzata di Selvaggia, subito seguita dalla risata divertita di don Carmine. Mantenendo il suo sorriso divertito si avvicinò a Selvaggia.
"Che c'è? Non vuoi che il tuo amante muoia?" Le accarezzò il viso lentamente con la canna della pistola. "O hai più paura per tuo padre?" Puntò la pistola verso Michele.
Selvaggia respirava con l'affanno, spostando in continuazione lo sguardo tra i due uomini della sua vita.
"Però non saprei proprio dire a chi tieni di più." Gesticolando con la pistola in mano, don Carmine si sedette sulla sedia dalla quale l'aveva liberata. "Hai abbandonato la casa di tuo padre solo per un capriccio infantile. Mischinu, avia fattu arrestare o padre de to fidanzato. E allora?"
Era davvero curioso per Michele che don Carmine conoscesse questo particolare della loro vita passata. Adesso si rese conto che lo avevano sempre tenuto d'occhio in tutti questi anni. Si sentì uno stupido burattino nelle loro mani. Forse gli avevano permesso di adottare Selvaggia per controllarla senza fare fatica. Si maledisse interiormente. Probabilmente, se non avesse insistito tanto, non sarebbero a questo punto, e magari Selvaggia sarebbe stata felice con una nuova famiglia.
"Per non parlare di chissu ca!" Indicò Riccardo, servendosi sempre della pistola. "Un povero milanese che si è innamorato della ragazza sbagliata."
L'espressione di Selvaggia si fece ancora più preoccupata. "La prego... non gli faccia del male..."
La supplica di Selvaggia sembrò impietosire il loro aguzzino. "Oh, ma allora forse gli vuoi bene davvero!" Si alzò in piedi e puntò la pistola alla tempia di Michele. "Allora potrei fare fuori tuo padre..."
Caricò il tamburo e rimase immobile in quella posizione. Dopo alcuni intensi secondi Selvaggia si accasciò al suolo.
"Basta, la prego!" Singhiozzò.
Don Carmine la prese per mano e la fece alzare in piedi. "No, sta' tranquilla. Non ho nessuna intenzione di sparare a uno dei due." Afferrò la pistola dalla canna e gliela porse. "Perché lo farai te."
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