Capitolo Cinquanta

Selvaggia e Giancarlo arrivarono a villa Giordano che erano appena le undici di mattina. Secondo quello che lei si ricordava, a quell’ora suo padre doveva ancora essere nel suo studio in centro, quello che condivideva con un altro avvocato e dove aveva una segretaria, e se quello che le aveva detto Carmen per telefono era vero, non sarebbe tornato a casa per mangiare. Aveva tutto il tempo del mondo per fare quello che aveva in mente.

Con le sue chiavi, che fino a quel momento non aveva mai usato, entrò dalla porta ricavata nel cancello, guardandosi attorno, circospetta. Si voltò per far entrare Giancarlo ma lui rimase fermo fuori dal cancello.

“Che fai, non entri?”

Lui si guardò attorno. “Preferirei di no.”

Lei strinse le labbra ma non insistette. Tornò indietro per abbracciarlo. “Qual è il problema?”

Giancarlo sospirò. “Mi dispiace, lo so che ti ho detto che ti avrei dato una mano, ma… credimi, non ce la faccio.”

“Per te resta comunque l’assassino di tuo padre, vero?”

“Sì… diciamo, più che altro uno dei responsabili.”

Selvaggia lo osservò in silenzio e lo baciò sulle labbra. “Ok… non c’è problema.”

Giancarlo la abbracciò a sua volta. “Tu fai pure con calma, io ti aspetto al bar tavola calda lungo la strada, quando hai finito mi chiami e ti vengo a prendere.”

“Ok.”

Si salutarono un’ultima volta e Giancarlo ripartì con la moto. Selvaggia lo vide sparire lungo la strada ed entrò nella villa. Oltrepassò il cancello continuando a guardarsi attorno; anche se suo padre non c’era non voleva farsi scoprire da Carmen o da Vincenzo, non aveva detto a nessuno dei due che sarebbe venuta.

Arrivò davanti alla porta d'ingresso ma all’ultimo momento decise di fare il giro ed entrare dalla porta di servizio, quella sul giardino nel retro, da dove avrebbe dato meno nell'occhio.

Sgusciò dentro cercando di fare il meno rumore possibile. Fece due passi nel corridoio e la voce di Carmen le arrivò dalla stanza attigua, bloccandola di colpo. La sbirciò di sottecchi, cercando di non farsi vedere, stava canticchiando con lo stereo nelle orecchie spolverando la libreria. Attese un momento sicuro in cui non potesse vederla e passò veloce oltre la porta e verso l’ufficio di suo padre, pregando dentro di sé che fosse aperto.

Toccò la maniglia ma ritirò subito la mano, come se avesse preso la scossa; suo padre le avesse sempre proibito di entrare nel suo studio e inconsciamente non ebbe il coraggio di disobbedirgli. Ma poi ripenso al motivo per cui era lì e proseguì. Abbassò la maniglia e la spinse di uno spiraglio. Il cuore le batteva nel petto come un tamburo, si guardò  attorno e sgattaiolò all’interno dell’ufficio.

Tornare in quella stanza le fece rivivere il momento del litigio del litigio con suo padre. Risentì le sua urla di e il divieto di frequentare Giancarlo. Un brivido di stizza la pervase, unita a un sentimento di tristezza. Non poteva ignorare che avesse permesso un tale crimine a favore della malavita… Ma in cambio di cosa?

Sospirò per farsi coraggio, si avvicinò al grande archivio e aprì le ante in basso. C’erano moltissimi schedari suddivisi per anno, ricordò che Giancarlo aveva quindici anni, quindi andò a cercare quelli che risalivano a sei anni prima. Una volta trovato l’anno giusto lo estrasse e si sedé per terra. Lo aprì e lo esaminò con attenzione. Scorse quasi tutti i plichi presenti finché non arrivò a quello riportante il nome Siriani. Lesse con attenzione il resoconto e le dinamiche dell’accaduto, cercando di immaginarsi i poliziotti che sciamavano nel ristorante del padre di Giancarlo e di visualizzare il suo ragazzo mentre  osservava, inerme, tutti quegli uomini in divisa ammanettare il padre e portarlo via senza troppi scrupoli. Realizzò che per lui dev’essere stato traumatizzante. Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e impedire quella retata, e questo solo per scacciare il dolore che gli aveva visto negli occhi mentre le raccontava quella storia.

Scorse ancora le parole stampate su quel plico finché non arrivò alla lista di nomi degli uomini che vennero arrestati nella stessa retata. Probabilmente tra loro c’era qualcuno che Michele aveva aiutato, a discapito della vita del padre di Giancarlo. Ma i nomi erano troppi, non avrebbe mai potuto ricordarli tutti! Si alzò per prendere un foglio e una penna dalla scrivania del padre. Vi trovò solo una penna stilografica che suo padre usava solo in rare occasioni, altre penne non ce ne erano. Quella era troppo costosa ed elegante per poterla usare, così aprì il primo cassetto per cercarne altre ma qualcosa la bloccò.

In una elegante cornice dorata, la foto di una donna la stava guardando, donandole un tuffo al cuore. Aveva un viso armonioso e perfetto, ma ciò che la sconvolse furono gli occhi verdi come i suoi, e i capelli, rossi come il fuoco, esattamente come i suoi... Chi era quella sconosciuta che le assomigliava così tanto?

Estrasse la cornice dal cassetto e la mise davanti a sé per osservarla meglio, più la guardava e più ne rimaneva affascinata. Era come se la conoscesse, ma era la prima volta che la vedeva. Di colpo la porta si spalancò e sbucò Carmen, intenta nelle pulizie delle stanze. Nel vedere Selvaggia seduta alla scrivania del padre rimase spiazzata.

“E tu… quando sei arrivata? Che ci fai, lì?”

Selvaggia non seppe cosa rispondere e si alzò lentamente in piedi, nascondendo il fascicolo che stava consultando dietro la schiena.

“Ehm… stavo cercando una penna.”

Carmen la fissò in silenzio, la stava prendendo in giro?

“Avanti, che ci fai, qui? Tuo padre lo sa che sei qui dentro? Lo sai che qui non ci vuole nessuno, specie se lui non c’è!”

“Lo so… ma tu non gli dirai che mi hai visto qui, vero?”

La donna assunse un’espressione sofferta. “Beh… non lo so…”

“Non devi dirglielo, non sono affari tuoi!” Sbottò di colpo infuriata.

Carmen la guardò sbalordita. “Selvaggia!” La rimproverò.

“Ok, glielo dirò io.” Si arrese, con aria contrita. “Così non dovrai mantenere nessun segreto con lui, ma non lo fare prima che lo abbia fatto io.”

Carmen sospirò rassegnata. “D’accordo.”

Selvaggia le sorrise e con nonchalance uscì dallo studio nascondendo il plico dietro la schiena, diretta nella sua stanza per poterlo contemplare con la giusta privacy. Una volta lì si tuffò sul letto a pancia in giù e iniziò a sfogliarlo nuovamente dall’inizio. Rileggendo per la seconda volta la descrizione delle dinamiche di ciò che successe apprese che suo padre era l’avvocato del signor Siriani in quanto, essendo benestante, il signori Siriani aveva scelto uno degli avvocati più preparati e bravi in circolazione, ritenendo di essere stato arrestato dai Carabinieri ingiustamente, perché ritenuto affiliato alla cosca mafiosa. I Carabinieri che lo avevano arrestato avevano sbagliato, come se, nella ressa, lo avessero scambiato per uno dei mafiosi e lo avessero arrestato senza badare a chi fosse in realtà. Il lavoro di suo padre non era troppo difficile, avrebbe dovuto dimostrare la sua innocenza e il fatto che non fosse affiliato a nessuna cosca mafiosa, ma qualcosa andò storto. Il signor Siriani aveva cercato di tutelarsi già da tempo, arrivando a chiamare la protezione dei Carabinieri quando aveva visto che queste particolari riunioni stavano iniziando ad essere troppo frequenti e che non si limitavano più a discussioni private...

Continuando a leggere le sembrò che ad un certo punto lo stesso processo venisse manipolato, come se qualcuno stesse muovendo i fili di un ipotetico burattino che era il processo stesso. All’inizio la difesa di suo padre era ottima e ideale a dimostrare l’innocenza del signor Siriani, ma all’improvviso iniziarono a venire prese in considerazione delle prove particolari alle quali suo padre non si oppose. Iniziarono ad uscire fuori testimoni che lo vedevano coinvolto, e nonostante anche suo padre avesse in mano delle prove concrete per dimostrare il contrario di ciò che dicevano quei testimoni, non le esibì mai.
Ma perché? Cosa gli impedì di portare a termine la difesa fino alla fine?

Di colpo l’occhio le cadde sulla data in cui iniziò il processo e il fiato le mancò. Quello era il mese in cui era stata accusata dell’omicidio di Sebastiano Caruso!

Il ricordo della morte del suo primo padre adottivo la gettò in uno stato semi catatonico. Davanti ai suoi occhi rivide le sue mani afferrare il fucile lasciato a terra da quella che ai tempi considerava una mamma, rivide sé stessa prendere la mira verso quell’uomo disteso inerme su suo letto, si rivide tirare il grilletto e fare fuoco… e basta, la sua mente si rifiutava di andare oltre. Era come se avesse consciamente rimosso le scene più crude di ciò che aveva fatto… perché, sì, era stata prosciolta da ogni accusa di omicidio, ma nel suo intimo lei sarebbe sempre stata l’unica colpevole per la morte di quel padre dolce e affettuoso che aveva conosciuto.

Distolse lo sguardo dai documenti che aveva davanti e lo posò su quel carillon che il suo primo padre le aveva regalato. Si alzò come in trance e si avvicinò ad esso, lo aprì e ascoltò la melodia che suonava. Una lacrima le scese sulla guancia, che asciugò con un gesto nervoso. Afferrò quel paio di orecchini a loro volta regalo di Sebastiano e li osservò con malinconia e tristezza. Si sarebbe ricordata di lui per sempre, anche se aveva conosciuto un nuovo padre e raggiunto una nuova stabilità emotiva. Non li aveva mai indossati e non aveva intenzione di farlo, aveva troppa paura di rovinarli o di perderli, perciò li rimise al loro posto. Nel farlo vide quello strano ciondolo che aveva messo lì quando la Madre Superiora glielo aveva riportato. Aveva detto che l’avevano ritrovata nella ruota con quello addosso e che aveva ritenuto più opportuno custodirlo per lei finché non avesse avuto l’opportunità di restituirglielo. Si era dimenticata totalmente di quel medaglione.

Lo prese in mano e lo esaminò alla luce della finestra e, di nuovo, ebbe un flash su quello stesso medaglione. Cavolo, lo aveva appena visto su quella foto di quella donna nello studio di suo padre!

Lo strinse nella mano e si precipitò nuovamente fuori dalla sua stanza verso l’ufficio di suo padre. Doveva controllare che fosse veramente lo stesso medaglione, non voleva sbagliarsi!

Arrivò trafelata in quello studio e spalancò la porta senza accertarsi se ci fosse qualcuno, ma dentro vi trovò suo padre, in piedi dietro la sua scrivania con in mano la foto della donna che le assomigliava. Si era dimenticata di rimetterla nel cassetto, l’aveva lasciata sulla scrivania.

Michele alzò di scatto la testa staccando gli occhi dal quadro per puntarli su sua figlia. Si fissarono per un lungo attimo e Michele sembrò specchiarsi nei suoi occhi, che a parte il colore, erano per taglio e grandezza identici ai suoi. La fissò con la paura nel cuore, finché non vide quello stesso medaglione, che stava osservando nel quadro, caderle dalle mani e atterrare a terra con un rumore metallico.

“Dove lo hai preso, quello? Chi te lo ha dato?” Indicando il medaglione a terra.

“Me lo hanno dato le suore, lo avevo addosso quando mi hanno trovata.”

“Le suore?” Michele sospirò e strinse gli occhi, rimproverandosi.

Il silenzio si fece teso tra di loro, nessuno dei due distolse lo sguardo dagli occhi dell’altro, ma Selvaggia aveva una domanda da fare che le bruciava sulla lingua, e pretendeva la verità:

“Chi è quella donna nella foto?”

Alla sua domanda vide gli occhi di Michele allargarsi, spaventati. Però non rispose.

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