7.2 Un'oscura visione

I più tardivi raggi dell'alba si facevano largo tra le chiome fitte dei lecci, mentre il mercenario e il giovane di Nilerusa cancellavano le tracce della loro permanenza nell'angusta radura. Arturo scalciò dei rami secchi, perché ricoprissero in maniera caotica le impronte sulla terra umida: temeva che alcune delle loro orme potessero risultare visibili nonostante le precauzioni. Claudio lo aiutava come poteva, o come credeva di potere, sistemando alla rinfusa sul terreno alcune foglie cadute dagli alberi; ma la vicinanza del mare lo distraeva e molto spesso si ritrovava a guardare incantato la distesa appena increspata delle onde che si spingevano sino alla riva. Aveva già visto il mar Litil, ma mai con la prospettiva di attraversarlo. C'era solo un breve tratto di bosco a separarlo dalla spiaggia e vi si incamminò, con Arturo che lo teneva d'occhio nell'eventualità in cui si facesse scoprire.

Il mercenario aveva ormai capito che il contadino non era affatto abituato a quella vita di sotterfugi e segreti, e non aveva potuto non constatare con un sorriso la sua ingenuità. Che andasse anche a guardare il mare, lì nella radura non sarebbe servito poi a molto. Tuttavia, poco dopo lo spadaccino lo raggiunse e lo trovò seduto sulla sabbia chiara, a osservare ipnotizzato il respiro ritmico delle onde, quel sollevarsi e abbassarsi delle acque.

«Dobbiamo andare» disse Arturo, affiancandolo.

Claudio si sollevò in piedi, come eseguendo un ordine: credeva saggio anticipare ciò che l'altro gli avrebbe ordinato. Il loro compito era quello di proteggere Flora, che in quel momento era a bordo di una nave che lui non aveva mai visto con i propri occhi. Il giovane si rese conto di aver perso sin troppo tempo in balìa delle sue fantasie. Lanciò un'ultima occhiata alla distesa marina, prima di incamminarsi insieme all'altro a ritroso sui propri passi, verso la boscaglia.

«Tu sei già stato a sud, vero?» chiese al soldato, mentre tornavano al riparo tra i tronchi degli alberi e nascosti tra i cespugli di ginepri dalle bacche rosse.

«Sì, ci sono già stato» rispose quello, con voce atona, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

«E il viaggio in mare... com'è?» gli domandò ancora Claudio, preda della curiosità. Aveva compreso che Arturo conosceva il mondo più di lui, che non si era mai mosso da Nilerusa, più di Franco, che l'aveva studiato sui libri. Quel ragazzo dalla pelle arsa dal sole e dalle spalle larghe aveva vissuto chissà quali avventure e lui bramava all'idea di poterne ascoltare qualcuna.

«Dipende. Alcune volte non ci si accorge nemmeno di essere in mare, se invece c'è qualche tempesta, la traversata è più rischiosa» gli spiegò lo spadaccino, con praticità.

Claudio scosse la testa con un sospiro: non era il tipo di risposta che desiderava; tuttavia non aggiunse altro, poiché erano usciti dalla boscaglia e stavano mettendo piede assieme nel porto. Il contadino si guardò attorno, come la prima volta, incantato dall'affaccendarsi degli uomini che caricavano e scaricavano merci dai mercantili, già sudati nonostante fossero le prime ore diurne. La locanda dalle pareti esterne dipinte di rosso aveva le imposte già aperte e si intravedeva qualcuno all'interno con l'intento di rifocillarsi, dal viaggio o dalle fatiche del lavoro. Terra di colore chiaro mista a sabbia riluceva alla luce del giorno che lentamente avanzava, sporcando gli stivali di pelle che indossava il mercenario e infilandosi nelle scarpe di povera fattura dell'altro.

Claudio si guardò i piedi con un sospiro malinconico, ricordando il momento e l'occasione dell'acquisto da uno dei calzolai di Nilerusa. La bottega in una delle vie principali, quell'odore penetrante a cui non aveva saputo dare un nome, un uomo mezzo calvo e mezzo attempato che passava una strana sostanza su degli stivali appena conciati... E Franco al suo fianco, che lo invitava con un'occhiata a farsi avanti e a parlare con quell'omino dall'aria curiosa. Tutto lo aveva intimidito, quel giorno, a partire dall'artigiano che con sapienza aveva ascoltato la sua richiesta, fino alla prospettiva di essere ospite dalla famiglia del suo amico in occasione di un pranzo e di non poterci andare con i suoi vestiti consumati di ogni giorno.

«La Millenaria è l'ultima» disse Arturo, riscuotendolo dai suoi pensieri.

Il giovane defico ammirò la schiera delle navi ormeggiate, solenni, alcune con le vele spiegate, altre con uomini che si muovevano sovracoperta, in alto, coperti dalle balaustre.

«Sono tutte uguali» constatò. Qualche giorno prima, quando aveva incontrato Gaetano, non aveva badato alle imbarcazioni, concentrato com'era sul compito che gli era stato affidato; ma in quel momento non poté non notarlo.

«Questo è un porto mercantile» gli spiegò il soldato. «Ce n'è un altro più ad ovest, verso il confine con il Pogudfo, riservato allo spostamento delle persone. Quello è più grande e molto più trafficato. Qui ci si ferma solo per i traffici commerciali.»

«Perciò nessuno controlla se qualcuno salpa da qui» concluse Claudio.

«In genere no» assentì Arturo, guardandosi alle spalle. All'improvviso temette che gli uomini di Alcina potessero aver esaurito i luoghi da perlustrare e potessero dirigersi lì come ultima risorsa; ma il timore gli apparve mal fondato: tutto intorno a loro non era diverso dalle altre mattine che il mercenario aveva trascorso lì, con gli uomini che scaricavano barili di merci dalle navi, altri che li ordinavano secondo la provenienza, o secondo il contenuto, o secondo la destinazione, con i placidi raggi a increspare la serena superficie marina, attraversando gli spiragli tra le vele, con i legni delle imbarcazioni che fornivano un riparo dal sole che entro poche ore sarebbe divenuto cocente.

L'odore di salsedine impregnava l'aria, mentre una brezza leggera soffiava da oriente. Arturo camminava spedito, attento a non destare attenzione, ma, quando era quasi arrivato alla Millenaria, si accorse che il contadinotto non era al suo fianco. Che si fosse trattenuto per guardarsi intorno? Si voltò e lo vide immobile pochi passi dietro di lui, con lo sguardo assorto, come cercando di percepire qualcosa che a lui sfuggiva. Il mercenario annullò la distanza che li separava e bisbigliò: «Che ti prende?»

Claudio non gli rispose, ma gli fece cenno di abbassare ancor di più la voce, mantenendo gli occhi spalancati e puntati nel vuoto. Avvertiva qualcosa di negativo, come un presagio nefasto, inesprimibile a parole. Lui non poteva andare a sud, non doveva mettere piede nel Pecama: questo gli pulsava nella testa, trapassandogli le tempie da parte a parte. Un dolore repentino, sconosciuto, si propagò nella sua mente, oscurandogli la vista.

Immobile in piedi, si sentì le forze venire meno, e barcollò; per non cadere sul pontile del molo e non attirare occhiate estranee, si aggrappò alla spalla del mercenario che la sua mano cercò a tentoni, in uno spazio vuoto.

«Stai bene?» gli domandò ancora Arturo, seriamente preoccupato.

L'altro sospirò, prima di stropicciarsi le palpebre. Intravedeva qualcosa di chiaro al di là del sottile strato di pelle, forse la luce solare. Con uno sforzo che gli parve sovrumano, Claudio aprì gli occhi e vide davanti a sé il mercenario, che lo scrutava con attenzione.

«Non capisco» disse soltanto. «Mi era già capitato, ma non così...»

«Soffri di qualche male?» lo interrogò Arturo. Una salute cagionevole del contadino non avrebbe di certo aiutato la loro missione: se avesse dovuto chiedere l'aiuto di qualche guaritore, avrebbe rischiato di farli scoprire.

«Non lo so con certezza» gli rispose l'altro con un filo di voce. «Una volta ogni qualche mese mi succede... ma stavolta era più forte...»

Il soldato scosse la testa: quelle parole non gli erano affatto utili per capire cosa fosse accaduto.

«Ora stai bene, puoi proseguire?» gli domandò ancora, senza turbamento, ma con voce sinceramente preoccupata.

Claudio si stupì di quella premura e annuì, prima di togliergli la mano dalla spalla. «Sì, andiamo.»

Il contadino di Nilerusa trasse un profondo respiro. C'era qualcosa che non andava, ma non riusciva a comprendere cosa: non erano passati mesi dall'ultimo lancinante dolore alla testa, ma appena poche settimane. Che forse soffrisse davvero di qualche oscuro male che si stava acuendo? Eppure, constatò con meraviglia, non sentiva più nulla, né alle tempie, né in altra parte del corpo. Di cosa si trattava? Esisteva qualcuno che potesse dargli una risposta? Claudio non lo sapeva, ma si ripromise che, una volta tornato a casa dal Pecama, avrebbe chiesto ai genitori di Franco di indicargli qualche guaritore. Chiedere a sua madre di aiutarlo sarebbe stato impensabile: per fortuna, ogni volta in cui era stato male non era mai in sua compagnia, altrimenti... altrimenti sì che avrebbe smosso ogni donna, uomo, pianta, pietra o pomodoro del Defi. Tuttavia non erano attenzioni, quelle che cercava.

«Questa è la Millenaria» gli disse Arturo, indicandola con un plateale gesto del braccio che sembrava volerne definire la maestosità.

Claudio sorrise, vedendo le vele spiegate, di un tessuto chiaro, e la bandiera di un colore sbiadito, un tempo azzurro, forse addirittura blu, a indicare l'indipendenza della nave da qualsiasi sovrano di Selenia.

«Non è rischioso girare con quella?» chiese, indicando la banderuola, legata in alto, che tremava al minimo soffio del vento.

Il mercenario scrollò le spalle, prima di rispondere. «Fossi in Virgilio, la cambierei a ogni porto, per sicurezza... ma mentre si è in mare può non essere una buona idea: non si sa mai chi si incontra. E noi dobbiamo partire in fretta.»

L'altro annuì, convinto della risposta: in effetti non aveva pensato a eventuali attacchi nel corso delle traversate. «Ci sono dei pirati?»

«Nel Litil no... ma nei mari occidentali sì: spesso catturano le navi del Rosonembro» gli spiegò Arturo, facendogli cenno di salire sul ponte e, di conseguenza, sul mercantile. «Anche se negli ultimi anni, il Tuilla sta portando avanti una campagna militare contro di lor...»

Il soldato non terminò la frase e Claudio si voltò alle sue spalle, curioso di scoprirne il motivo, ma quello che vide gli ghiacciò il sangue nelle vene: un manipolo di soldati apparve dalla via che immetteva nel porto, sbandierando lo stemma dei Primavera. Intravide i due che, solo pochi giorni prima, gli avevano vietato l'accesso al castello, quando aveva dato appuntamento a Flora a casa di Menta.

Qualcuno lo spinse in avanti, cogliendolo alla sprovvista, e lui scivolò, finendo con il naso contro il legno della nave. Con un gesto istintivo si portò le mani al volto e le sentì macchiarsi le dita di un liquido viscoso e le guardò: sangue.

«Ritirate il pontile, tirate su l'ancora!» gridò una voce sconosciuta.

Claudio udì dei suoni attorno a sé, ma non vi fece caso, finché non sentì che il suolo su cui era ancora riversato non si muoveva sotto di lui: la Millenaria era in partenza.

«Stai bene?» gli chiese Arturo, preoccupato.

«Sdabo beglio briba» rispose l'altro, con voce nasale.

«Prendi questo» disse qualcuno alle spalle del giovane di Nilerusa. Claudio si voltò e distinse controsole i contorni di una figura umana, che gli porgeva qualcosa. Con una mano afferrò un tessuto morbido, con cui tamponò il sangue che continuava a colare dal naso.

«Scendete sotto» sentì dire dal capitano della nave, probabilmente al mercenario. «Se incontriamo navi dirette nel Defi, rischiamo che ci siano uomini della regina.»

Il contadino non udì altro, ma qualcuno lo prese per le ascelle e lo rimise in piedi: Arturo.

«Hai sentito? Scendiamo» bisbigliò. «Scusami per la spinta, ma dovevamo sbrigarci.»

Claudio lo seguì sotto coperta, barcollando per l'oscillazione della nave: riusciva a percepire ogni minima onda che si muoveva al di sotto del legno, avvertiva i suoi sensi amplificati per un'ignota ragione. Dovette sorreggersi alle pareti per non cadere, mentre l'altro procedeva spedito, come se ben conoscesse la Millenaria e fosse ben avvezzo a percorrerne ogni centimetro.

Il soldato si fermò e bussò a una porta chiusa. «Siete lì?»

«Entra» disse la voce di Flora, dall'interno, invitando il mercenario a varcare la soglia, nonostante la riluttanza di entrambi a trovarsi all'interno delle stesse quattro pareti.

Il contadino seguì Arturo, continuando a tamponare il sangue che gli colava dal naso, sebbene con meno copiosità rispetto a poco prima.

«Che cosa gli hai fatto?» gridò la principessa, chiaramente all'indirizzo della figura di cui ancora non si fidava del tutto. La fanciulla inspirò ed espirò con lentezza, gli occhi puntati in quelli dello spadaccino, esigendo una risposta, quasi pretendendola.

«Ba do, Blora, dod di breoggubare» provò a dire Claudio, sedendosi sul pavimento, con la schiena poggiata al legno della nave. «Dod è sdada golpa sua

Flora inarcò le sopracciglia, confusa da quelle parole pronunciate con difficoltà e colpita dall'atteggiamento che il suo caro amico aveva assunto in difesa del mercenario. «Come può non essere colpa sua?» domandò saccente, con una malcelata insofferenza.

«C'erano dei soldati» spiegò Arturo, con tono pacato, cercando di dominare la rabbia che sentiva crescere dentro di sé a ogni parola pronunciata dalla nobile. «Se hanno scoperto la vostra fuga, è stato un bene trovarsi già qui. Se non l'hanno ancora scoperta... abbiamo ancora un margine di vantaggio.»

«Quanto impiegheremo per arrivare?» gli chiese lei, con un sospiro, e chinando lievemente il capo. Vedere Claudio sanguinante la scuoteva, perché significava che il soldato non aveva alcuno scrupolo nel portare a termine la missione. Così dimostrava di essere fedele, ma a cosa era disposto pur di ottenere il denaro che Giampiero gli aveva promesso? Flora non sapeva darsi una risposta; e il timore di evenienze spiacevoli le impediva di formulare ipotesi più dettagliate.

«Con il favore di vento, durante la notte, o addirittura domattina» asserì Arturo, con prontezza.

«Va' a cercare qualcosa con cui medicarlo» ordinò Flora, ancora con un sussurro. Non voleva essere severa, in quella richiesta, perché la sua preoccupazione per Claudio era più forte del rancore che provava a convertire in buoni sentimenti.

Il mercenario annuì e voltò le spalle ai due giovani. Si rischiuse la porta della cabina alle spalle, udendo poche parole del contadino alla principessa.

«Dod è gosì bale gobe gredi du.»

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