12.2 Pedine e strateghi


I sotterranei del palazzo erano freddi e umidi persino nei primi giorni d'estate. La guardia reale che guidava Giampiero tra quei cunicoli era silenziosa, ma visibilmente corrucciata: non avrebbe mai creduto di dover sorvegliare un Lotnevi prigioniero nella propria reggia. Il marchese lo seguiva altrettanto taciturno, riflettendo su come porsi con il principe, ma la sua mente era attraversata di continuo dal pensiero di Luciana, rinchiusa nello stesso luogo. Non aveva avuto il coraggio di domandare a Clara Riutorci di poter conferire anche con lei, perché forse i suoi sentimenti l'avrebbero smascherato e lui non poteva permettere che le proprie vicende personali interferissero con i suoi doveri.

La guardia si fermò e infilò il chiavistello in un lucchetto di ferro, che chiudeva le sbarre oltre cui si trovava Nicola Lotnevi.

«È già arrivato il momento?»

La voce del giovane sembrava implorante, come se non sopportasse più l'attesa e volesse che la morte ponesse fine alla sua agonia.

«Non ancora» rispose la guardia. «Qualcuno vuole parlare con voi.»

«Non voglio vedere nessuno...» si lamentò il principe.

«Mi dispiace, Altezza, ma non avete scelta.»

L'uomo fedele ai Lotnevi si scansò per permettere al Tirfusama di entrare nella cella. Nella penombra, illuminata fiocamente solo da alcune torce, Giampiero vide Nicola seduto sul pavimento a gambe incrociate, con il capo chino verso il basso.

La guardia richiuse la porta e si allontanò di qualche passo, in modo da permettere ai due nobili di parlare in privato.

«Chi siete?» domandò il prigioniero. Con quel buio era difficile distinguere i lineamenti altrui.

«Qualcuno che sta facendo di tutto per salvarvi» rispose il marchese. «Sono Giampiero Tirfusama.»

«Ah, sì, voi...» biascicò Nicola. «Se ci troviamo qui qualcosa è andato storto, non trovate?»

Rise, il principe, perché non gli restava altro da fare: credeva che non ci fosse più nulla che potesse tirarlo fuori da lì, nulla che non fosse la pubblica esecuzione che i cortigiani di Mitreluvui attendevano con trepidazione.

«Donna Clara mi ha permesso di parlare con voi, pensa che possiate...» Giampiero esitò: non era certo che le sue prossime parole fossero quelle giuste. «Lei ritiene che voi abbiate davvero ucciso vostro padre, e penso che mi abbia concesso di...»

«Non sono stato io» sussurrò il Lotnevi, abbassando lo sguardo.

«Lo so che non siete stato voi. Non avreste mai potuto.»

Nicola rise, di nuovo. «E come fate a esserne tanto convinto? Raissa mi avrebbe creduto davvero capace di farlo!»

Il marchese lo guardava incredulo. Respirò profondamente prima di parlare. «Io non sono Raissa, io credo in voi. Se avete l'affetto, la stima e l'amicizia di Flora, allora potrete sempre contare su di me.»

«Flora...» La sua risata si spense, la voce del principe si ridusse a un sussurro. «Luciana mi aveva detto che l'avrebbe portata qui, ma lei non c'è. Dicevano tutti che senza Flora sarei stato perduto e io sono stato uno stupido nel credere di potercela fare da solo. Rimpiango di non averle chiesto di venire qui e di far credere a tutti che il nostro matrimonio sarebbe stato imminente. Frottola più, frottola meno... per lei avrebbe fatto poca differenza. Ma io sarei stato vivo per molto tempo, nessuno avrebbe mai osato chiedere a Donna Clara di convocare i Lupfo-Evoco.»

«Lei non sarebbe venuta» disse invece Giampiero. «L'avrei fermata io.»

«Allora anche voi mi volete morto!» esclamò Nicola. Sollevò lo sguardo e i suoi occhi chiari si affermarono sofferenti in quelli dell'altro. «Avete mentito, non siete qui per salvarmi!»

Il Tirfusama scosse la testa. «Flora non può avvicinarsi a Raissa. Se è ancora nel Loavi, è bene lei non venga più a nord del Defi.»

Il principe Lotnevi si stropicciò gli occhi, non riuscendo a trovare un senso a quelle parole. «Cosa c'entra Raissa con Flora? Lei voleva la morte di mio padre e l'ha avuta, perché avrebbe dovuto prendere anche la mia promessa sposa?»

Giampiero accennò un sorriso. «Commettete un grosso errore: pensate che gli Autunno vogliano la vostra disfatta, mentre invece bramano quella dei Primavera. Voi e lo Cmune siete solo un ostacolo.»

«Sono solo una pedina, allora» sussurrò Nicola. «Per Alcina sono solo un fantoccio da far sposare alla figlia, per Raissa sono una marionetta da poter muovere a piacimento...»

«Non lo siete» lo contraddisse il marchese. «È vero, qualcuno ha pensato che voi sareste stato solo un ragazzino al potere e vi hanno creduto capace di un'ignominia... perché un fantoccio mosso da mani invisibili può diventare pericoloso. Ma perché Raissa vi avrebbe creduto capace dell'uccisione di vostro padre?»

Aveva lasciato cadere quell'allusione del principe, anche se in un primo momento lo aveva turbato: era qualcosa da approfondire separatamente.

Il Lotnevi sospirò amaramente: per lui era già stato difficoltoso farne parola con Luciana, che era un'alleata e un'amica; ma cosa avrebbe pensato il marchese?

«Io... lei...» Si grattò la nuca, incerto su come proseguire. «Ho la vostra parola? Non lo direte a nessuno, vero?»

Il marchese annuì. «Ve l'ho già detto: potrete sempre contare su di me. Se volete che non lo dica a nessuno, lo farò.»

Nicola sorrise, nella semioscurità. Era fedeltà, quella che gli veniva offerta?

«Lei mi aveva chiesto di farlo. Mi era arrivata una lettera scritta da lei in cui mi diceva che se volevo evitare l'invasione nello Cmune avrei solo dovuto uccidere mio padre. Non so perché lo volesse... e, stando a quanto dite voi, il mio regno è solo terra che si mette in mezzo a quello che lei desidera. Io però... non l'ho fatto. Ho pensato di farlo, credetemi, ma... avevo già prima la corte contro, la mia situazione sarebbe stata esattamente quella in cui mi trovo ora.»

Giampiero si portò una mano al volto. Raissa sembrava aver previsto ogni eventualità e lui si sentiva spaesato. «Chi altro lo sa?»

«Ne ho parlato con Luciana Lugupe, ma dopo che era stato ucciso...» Tacque e fissò gli occhi sul pavimento umido della cella. «Voi mi credete?»

«Certo che vi credo» asserì prontamente il marchese. «Ma non credo a qualcun altro» mormorò più a sé stesso che al principe. Perché Luciana non gli aveva detto nulla, il giorno prima, in quei brevi secondi in cui erano stati vicini, mentre Donna Clara leggeva la lettera che accusava il principe di Cmune? Perché gli aveva taciuto quella preziosa informazione, che avrebbe potuto salvare il destino anche dello Dzsaco? Le sue certezze iniziavano a vacillare: da un lato aveva la percezione che uno dei suoi più stretti alleati lo avesse tradito, dall'altro una delle persone in cui voleva riporre la sua fiducia non sembrava essergli altrettanto leale.

«Donna Clara vi ha mandato qui perché pensa che io confessi» disse Nicola, a un tratto. «Il mio vero problema è che l'unica persona che potrebbe dire dove ero quando mio padre è stato ucciso, non può farlo.»

A quelle parole il marchese si riscosse dai suoi pensieri. «Cosa intendete dire?»

«Ero insieme a Saro, il mio cameriere personale» rivelò Nicola. «Era insieme a me mentre rileggevo alcune vecchie lettere, alcune di Flora e altre di Luciana... Sono le uniche persone con cui ho una corrispondenza continua.»

«Questo Saro» disse invece Giampiero «perché non può dire che era insieme a voi?»

«È muto» spiegò il principe. «Gli hanno tagliato la lingua... e non sa neanche scrivere. Inoltre non credo che tutti quei nobili crederebbero a un servitore fedele... penserebbero che vuole solo salvarmi la vita. E forse non avrebbero neanche torto.»

«La sua testimonianza non sarebbe rilevante ai Lupfo-Evoco» meditò il Tirfusama. Guardò il suo interlocutore, che non si era alzato dal pavimento per tutta la conversazione ma che, almeno, non sembrava più sconfortato come al momento del suo ingresso nelle prigioni.

«Non preoccupatevi, troverò il modo di tirarvi fuori di qui» promise.

«Flora si fida di voi?» gli chiese invece Nicola.

«Credo di sì» rispose pacatamente il marchese. Era convinto della risposta affermativa, ma preferiva non mostrarsi presuntuoso di fronte a quel nobile che rischiava di cadere una rovina peggiore di quella della sua famiglia.

«E ora lei dov'è?»

«Nel Pecama.»

Nicola si alzò in piedi con uno scatto felino. «Nel Pecama? Cosa è andata a fare lì? Quel posto non è sicuro!»

Giampiero si lasciò sfuggire un sospiro. «È al sicuro, perché nessuno sa dove si trova di preciso, neanche io. Se nessuno lo sa, Raissa non può scoprirlo: dunque non sono preoccupato. Ha un compito da svolgere.»

Il principe si abbandonò a una risata. «Flora? Lei non ha compiti da svolgere, è circondata da persone che lo fanno al suo posto!»

Il Tirfusama scosse il capo, illuminato appena da una torcia in arrivo nelle segrete. «Questo non può essere rimandato ad altri: riguarda solo lei.»

«Vi credo, tanto ormai non ho motivo per non farlo» asserì Nicola. «A un morituro non si nega un po' di verità.»

«Con voi non ho bisogno di mentire» disse invece Giampiero. «Vi ho ribadito più volte la mia lealtà.»

«Marchese, il vostro tempo è finito!» chiamò una nuova guardia dall'esterno della cella.

«Non vi abbattete» disse lui al Lotnevi. «Non resterete qui ancora a lungo.»

«Oh, sì, il boia mi attende con impazienza» scherzò il prigioniero.

L'inferriata si aprì con un cigolio e il Tirfusama fu costretto a uscire in seguito a un'occhiata severa del soldato nella sua direzione.

L'uomo richiuse la porta della cella. «Volete parlare anche con la Lugupe?»

A quelle parole il cuore di Giampiero si strinse in una morsa. Desiderava parlare con Luciana: da quello che gli aveva detto Nicola lei conosceva più di quanto lasciasse intendere; tuttavia non era certo di riuscire a dominarsi e ad evitare che i suoi sentimenti e le sue emozioni prendessero il sopravvento. Se fosse stato interrotto anche con lei, non voleva che qualcuno lo udisse rivolgersi alla donna che amava.

«Non ho niente da chiederle» disse con un filo di voce, prima di seguire la guardia fino ai piani superiori.

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