16

Sentivo la bocca asciutta e la gola in fiamme, mentre un sapore amaro si diffondeva in ogni fibra del mio corpo. Aprii gli occhi con fatica, la testa pesante e confusa, e la prima cosa che feci fu portare una mano tremante alla pancia. Era piena di fili. Come il resto del mio corpo.
Con movimenti lenti, girai la testa. Lo sguardo si posò sui macchinari accanto a me che monitoravano i miei parametri vitali e quelli del bambino.
Poi vidi Pablo, seduto su una poltrona accanto al letto, con la testa reclinata e le braccia incrociate sul petto. Anche nel sonno, il suo viso tradiva una stanchezza profonda.
La mia mente si riempì di domande. Quanti giorni erano passati? Cos'era successo dopo che avevo perso i sensi? La rissa tra Pablo e quell'uomo era continuata? C'erano state conseguenze? Ma soprattutto... il mio bambino era al sicuro? La gravidanza era a rischio? E io? Il mio respiro si fece irregolare, e un nodo crescente mi stringeva il petto.

L'ansia si trasformò in panico. Cercai di respirare, ma l'aria sembrava mancare. Ogni tentativo di riempire i polmoni era vano, come se fossi intrappolata in una scatola senza vie di uscita. Provai a chiedere aiuto, ma dalla mia bocca non uscì nulla. Il monitor accanto a me aveva iniziato a suonare. Le luci iniziarono a confondersi, a mescolarsi in un vortice di ombre e colori. Sentivo le mie forze abbandonarmi.
Poi una voce, distante ma riconoscibile: «Mami, estoy aquí». Pablo. Lo riconobbi immediatamente, anche se il suono mi sembrava provenire da un'altra realtà.
Le porte si aprirono, voci concitate, passi affrettati. Mani ferme e sconosciute mi toccarono, mentre qualcosa di freddo veniva posato sul mio volto. Una maschera. Cercavano di farmi respirare, di calmarmi, ma era come se parlassero una lingua che non riuscivo a comprendere. Pablo si avvicinò.

«Señor, debe salir!», gli ordinò una voce autoritaria. Lo vidi protestare, insistere, ma alla fine lo costrinsero ad andarsene.

Chiusi gli occhi, cercando di calmare la mente e rallentare i pensieri, ma l'agitazione continuava a scorrermi dentro, come un fiume in piena impossibile da fermare.

Il respiro mi era tornato regolare, ma dentro di me sentivo il peso delle parole che mi avevano appena detto. I medici mi avevano spiegato che il trauma fisico che avevo subito aveva messo a rischio il flusso di ossigeno al bambino. C'era stato un momento in cui avevano temuto di dover ricorrere a un parto prematuro. Anche se ora la situazione sembrava stabile, dovevo affrontare un periodo di assoluto riposo. «Niente preoccupazioni o rimuginare sull'accaduto. Qualsiasi stress o ansia potrebbe influire sul tuo bambino.»
Ma come potevo essere serena dopo tutto quello che era successo? Eppure non avevo scelta. Dovevo farlo per lui. Le contusioni e gli ematomi che ricoprivano il mio corpo erano la testimonianza tangibile di quella notte. Le infermiere venivano spesso per controllarmi, mentre i monitor tenevano traccia costante del battito del bambino. Cercavo di scacciare quelle immagini, di concentrarmi su ciò che contava: andare avanti.

Le mie amiche vennero a trovarmi in ospedale. Elena rimase fino a sera. Dopo risate e chiacchiere leggere per distrarmi, calò un momento di silenzio. Mi feci coraggio e, con un filo di voce, le chiesi: «Vorrei sapere una cosa... Sei la mia migliore amica, l'unica che può dirmi la verità. Cosa è successo quella sera?»

Elena mi fissò seria, poi iniziò: «Cercherò di spiegarti tutto, mettendo insieme quello che mi hanno raccontato e quello che ho visto. Dopo averti persa di vista, sono andata verso il privé per cercare Clara. Lì l'ho trovata, in panico totale. Mi disse che aveva sentito quei ragazzi parlare di una specie di gara per scopare quante più ragazze possibile. Nico aveva detto: "Vado a prendere la puta di Gavi, è un bel premio". Clara, capendo le loro intenzioni, è scappata, anche se hanno provato a fermarla. Quando mi ha vista, mi ha raccontato tutto, e insieme abbiamo cercato di contattare Pablo mentre correvamo fuori.»

Si fermò per un attimo, come per riprendere fiato, poi proseguì: «Era un caos. Non riuscivamo a trovare l'uscita e, nella folla, nemmeno te. Quando finalmente abbiamo trovato i ragazzi, ci siamo messi a cercarti ovunque. Poi ti abbiamo vista, a terra. È stato terribile. La rissa tra Pablo e Nico era finita lì, ma i suoi compagni sono usciti e hanno iniziato a litigare con Pedri, Fermín e Alejandro. È durata poco, per fortuna stanno tutti bene. Alla fine, quei bastardi sono scappati. La nostra unica preoccupazione eri tu. Abbiamo chiamato subito l'ambulanza.»

Non riuscivo più a trattenere le lacrime. Il peso delle parole di Elena, la paura e il ricordo di quella notte, tutto insieme mi travolse. Mi misi una mano davanti al viso, cercando inutilmente di fermare il pianto. Pablo entrò in quel momento. Era cupo, con lo sguardo serio che non lasciava spazio a dubbi. Si avvicinò senza dire nulla, guardò Elena e con un cenno gentile ma deciso le chiese di lasciarci soli.

Elena mi sfiorò la mano prima di uscire, lasciandoci nella stanza immersa nel silenzio. Pablo si sedette accanto a me sul bordo del letto. Con la voce calma, il suo accento spagnolo si fece più dolce mentre iniziò a parlare: «Mami, cálmate, por favor. No puedo verte así...» Cercò di tranquillizzarmi, senza troppe smancerie, ma con una sincerità che arrivò dritta al cuore.

Prese la mia mano, stringendola con fermezza. «Quello che è successo mi ha fatto capire quanto siete importanti, tu e il bambino. Non permetterò mai più che qualcosa vi metta in pericolo. Giuro che vi proteggerò sempre.»

Mi guardò negli occhi, e il suo sguardo sembrava scavare a fondo nei miei pensieri. Si avvicinò e, senza fretta, mi diede un bacio dolce, come una promessa silenziosa. «Dopo quella notte, ho temuto di perderti per sempre. Non succederà mai. Lo giuro.»

Quelle parole erano la certezza di un uomo che stava iniziando a prendere sul serio la sua responsabilità. E in quel momento, nonostante tutto, una piccola parte di me si sentì più al sicuro.

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