1.
today
Attraversai frettolosamente la soglia del piccolo bar dove ogni mattina facevo colazione.
Raggiunsi il bancone e mi sedetti su uno sgabello. Tossii, attirando l'attenzione del barista, nonché, mio amico.
Lui girò la testa, mi guardò e sorrise.
Poi pronunciò: «Il solito?»
«Sì,» ansimai a causa del fiatone. «Grazie Fred.»
Mi guardai intorno, ispezionando tutti i dettagli di quel bar che ormai conoscevo a memoria: in tutto erano dieci tavoli con al centro un piccolo vaso di vetro con una rosa rossa al suo interno. Le pareti erano completamente nere e come abbellimento erano appesi dei quadri, sempre in tema romantico. Forse era per questo che il bar si chiamava: "The bar of the romantics".
Sistemai una ciocca dei miei capelli rossi dietro l'orecchio e cercai di riprendere fiato, mentre guardavo il caffè riempire il bicchiere di cartone.
«Sembri stanca, va tutto ok?»
Lo guardai. «Sì, è che... di solito in questo periodo c'è moltissimo lavoro e sai benissimo che non riesco a fare molte cose contemporaneamente.»
«Puoi riuscire a fare tutto quello che vuoi se ci credi. Diavolo Emily, io devo preparare tutti i giorni dieci, tra caffè, bicchieri di latte e mille altre cose, tutte nello stesso momento e tu mi stai dicendo che non riesci a fare uno stupido disegno?»
«Non è così semplice come credi.» mi lamentai.
«Io pagherei oro per lasciare questo lavoro maledetto.»
Aggrottai le sopracciglia. «Non ti piace più fare il barista?»
«Non sto dicendo che fare il barista non mi piaccia, solo che mi occupa un sacco di tempo. Se devo dirti la verità: la mia vita sentimentale non sta dando bei frutti come speravo.» si lamentò anche lui prima di pulire velocemente il bancone.
Lo guardai e risi debolmente. Fred era mio amico dall'ultimo anno di college. Lo incontrai per la prima volta durante una festa che una nostra amica in comune organizzò e da quel giorno, diventammo buoni amici. Era diplomato in legge, ma lavorava in un bar da molti mesi. Provò a cercare lavoro, ma le sue ricerche non diedero i risultati sperati.
«Se vuoi riuscire a pagare l'affitto, devi lavorare, non hai scelta.» lo rimproverai io sta volta. «so che non hai voglia di fare niente ma...»
Mi bloccò. «Emily, io non sono come te.» si girò verso il suo collega. «Brett, prepara un bicchiere di latte per la signora!» ordinò, rivolgendosi alla donna che era seduta accanto a me: aveva i capelli corti, di un biondo molto chiaro. Le gambe erano accavallate l'una sull'altra e a coprirle fin sotto il ginocchio c'era un vestito completamente nero, con una cinta oro che le stringeva i fianchi. Sembrava assorta nei suoi pensieri, guardava attentamente una piccolo anello che aveva tra le mani e non si era resa conto che Fred si stava rivolgendo a lei.
Continuai con il discorso. «Perché, cosa avrei in più di te?»
«Be'» iniziò guardandomi, «tu hai un lavoro, il lavoro dei tuoi sogni. Io sono in un bar. Secondo, hai una casa tutta tua. Io ho una coinquilina che suona il violino ventiquattro ore su ventiquattro, è uno schianto, ma è lesbica. Ed ogni giorno porta la sua ragazza a casa mia e si chiudono in camera a...»
Mi coprii istintivamente gli occhi, immaginando cose assurde. «Ok, ok. Forse ho qualcosa in più di te, ma non credere che io sia la più fortunata di questo mondo.»
«Parla la ragazza che non ha una lesbica in casa.» borbottò prima di posare accanto al mio braccio il bicchiere di cartone, ricoperto da un coperchio di plastica.
Aprì la borsetta per prendere il pacchetto di sigarette che ogni giorni, per pochi minuti, riusciva a donarmi un po' di felicità. Lo aprii e ne presi una, poi l'accendino. Afferrai con le labbra la parte posteriore della sigaretta, cercando di mantenerla ferma. Posizionai l'accendino sulla punta e premetti il piccolo bottoncino che subito fece spuntare la piccola fiammella. Accesa la sigaretta, riposi l'accendino nella borsetta. Ma le mie speranze di una piccola felicità giornaliera si spezzarono di netto, quando Fred avvicinò la mano alle mie labbra e prese la sigaretta.
«Quante volte ti ho detto di non fumare questa roba?» alzò la voce mentre mi sventolava la sigaretta davanti al viso.
«Smettila di fare il ragazzino e ridammela!» allungai il braccio, cercando di prenderla, ma lui con non curanza la buttò. Respirai il più profondamente possibile, per evitare di gettargli il caffè bollente in faccia e mi calmai.
«Sai che potrebbe venirti un tumore ai polmoni se continui a fumare quella roba?»
Lo guardai storto. «I miei genitori fumano quella roba da quando hanno diciotto anni e ancora non sono morti.»
«Genitori che non senti da quanto? Un anno?»
«Due anni.» precisai alzando la voce. Lui non ribatté niente. Sapeva benissimo perché non parlavo con i miei genitori da due anni e se lo meritavano.
Mi pentii subito di avergli urlato in faccia. Lo guardai. «Scusa.»
Fred accennò un sorriso, sapevo che mi aveva già perdonata. «Ne riparliamo sta sera, ora va a lavoro, che è tardi.»
Ricambiai il sorriso e mi diressi verso la porta con il bicchiere di cartone, ancora pieno di caffè, in mano. Non avevo il coraggio di guardare l'orologio, sapevo di essere in immenso ritardo, ma sapevo anche che con una banalissima scusa l'avrei passata liscia per la quindicesima volta.
Con l'unica mano libera aprii la porta e il piccolo campanellino posto accanto ad essa trillò, attirando l'attenzione di alcune persone.
Stavo per uscire, quando qualcuno mi spintonò per superarmi. Quella spinta mi fece barcollare verso destra e lo scontro che ebbi con la sedia non fu per niente comodo. Girai la testa verso sinistra, pronta per dire quattro parole alla persona che mi aveva fatto perdere i secondi più importanti della mia vita, ma fu in quel momento che mi resi conto di avere il polso circondato da una mano tatuata. Alzai lo sguardo e lo vidi.
Era lì, davanti a me. Lui allentò la presa che aveva sul mio polso, ma con le dita riusciva ancora a circondarlo completamente.
Deglutii, anche se la mia gola era completamente secca.
Sentì il mio cuore perdere un battito e lo guardai negli occhi. Lui distolse subito lo sguardo e si concentrò sulla sua mano che circondava ancora il mio polso.
«Harry, dobbiamo andare!» urlò un uomo alle sue spalle; era alto, sembrava avere una quarantina d'anni e lo sguardo che aveva non era per niente amichevole.
Harry guardò l'uomo, poi me. Schiuse le labbra, poi sussurrò: «Mi dispiace...» e raggiunse l'uomo dall'altra parte della strada.
Ripresi fiato, dopo aver sentito la sua voce per la prima volta.
Restai lì, impalata come una statua, mentre quel "mi dispiace" continuava a ripetersi nella mia testa. Uscii definitivamente dal locale e mi diressi verso lo studio.
***
A passo svelto raggiunsi la mia scrivania e mi sedetti.
No, era impossibile. Non poteva essere lui. Come poteva Harry Styles essere in un bar, quando poteva essere visto da giornalisti, fotografi e fan accanite?
Non riuscivo a spiegarmelo.
«Sei in ritardo di un quarto d'ora tesoro.» mi rimproverò la mia collega, che ha la scrivania proprio di fronte alla mia. Avevamo perso cinque minuti del nostro tempo solo a guardarci, gli altri dieci li avevo persi parlando con Fred.
Mi sporsi in avanti. «Devo raccontarti una cosa...»
«Devi raccontarmi come tu e il tuo ammiratore segreto avete fatto sesso in un quarto d'ora?» domandò lei, seria.
«Loretta, ti prego. È importante.» insistetti. «E comunque, sei tu che hai un ammiratore che ogni giorno ti invia un mazzo di fiori, non io.» le ricordai, sorridendo maliziosamente.
Io e Loretta ci siamo incontrate per la prima volta durante un colloquio di lavoro. A prima vista, non sembrava molto cordiale, ma conoscendola meglio avevo scoperto che era una persona fantastica e sempre disponibile. Era poco più bassa di me, aveva i capelli molto corti e gli occhi scuri. Adoravo la sua carnagione olivastra, che avrei voluto avere anch'io.
«E di cosa dovrebbe parlare questa cosa così importante?» domandò alla fine. Sapevo che era curiosa di sapere, ma non lo dava a vedere.
«Di Har. . .»
«Emily, potresti raggiungermi nel mio ufficio?» urlò il mio capo.
Tutti mi guardarono, compresa Loretta.
Mi alzai e a passo sostenuto lo raggiunsi. «Signor. Adams, se vuole parlare del mio ritardo le assicuro ch...»
Accennò un piccolo sorriso e mi guardò. «Non mi porta del tuo ritardo Emily, ti ho chiamata perché ieri i miei superiori ci hanno affidato un compito molto importante.»
«Ci?»
Ero confusa.
«Proprio così.» si schiarì la voce. «Hanno scelto la nostra agenzia per un lavoro molto importante e hanno scelto te, Emily, come stilista. Reputano il tuo lavoro eccellente, così, ti hanno scelta.»
Avevano scelto me, per un lavoro molto importante. Io non avevo niente in più degli altri.
«E lei sa già chi sarà il cliente e di che lavoro si tratta?»
«Sì, ma le spiegherò tutto domani sera in un e-mail. Non vorrei che gli altri stilisti diventassero gelosi della nostra agenzia.» sussurrò l'ultima frase con un pizzico di maliziosità.
«Quindi il mio ritardo è perdonato?» cambiai discorso facendo gli occhi dolci, ci provai, almeno.
«Sì Emily,» guardò una specie di registro. «il tuo sedicesimo ritardo è perdonato.»
Esultai silenziosamente, ma ero anche curiosa di sapere chi fosse il pezzo grosso che i piani alti ci avevano affidato.
«Puoi andare.»
«Grazie...» bisbigliai, soddisfatta del lavoro che mi era stato affidato e tornai da Loretta.
***
«Davvero, non avrei dovuto risponderti in quel modo, oggi al bar.» dissi a Fred prima di impostare il vivavoce. Erano le nove di sera e mentre parlavo con Fred al telefono, preparavo la cena. Non ero molto brava a cucinare, era una delle cose che mi riuscivano peggio. Avrei scaldato qualcosa al microonde.
«Smettila di scusarti e parliamo di cose più interessanti.» rispose lui, annoiato. «Tra poco la mia coinquilina riprenderà a suonare quel maledetto violino e la nostra chiacchierata terminerà in quel preciso istante.»
Sorrisi, ma subito mi ricordai di quello che era successo quella stessa mattina: Harry che mi stringeva il polso, i suoi occhi contro i miei, l'uomo che lo chiamava, poi mi aveva chiesto scusa e se ne era andato. Forse stavo solo sognando... forse tutto quello che era successo al bar era solo frutto della mia immaginazione.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Fred mi domandò: «Comunque, hai denunciato il tizio che ti ha colpita?»
«Mi ha solo spinta e... perché avrei dovuto denunciarlo?»
«Ehi, sono Londinese. Qui a Londra tutti sono contro tutti. Non senti la mattina i claxon che suonano e la gente che urla a squarciagola?»
«Sono sicura che non l'ha fatto a posta. Forse aveva fretta.» lo difesi. «Sono due anni che mi sono trasferita, ricordi? Ormai mi sono abituata alla confusione di questa città.»
Il suono dei claxon non erano niente in confronto a Parigi. Lì i turisti venivano subito giudicati male e odiati. Anche se ero di Parigi, io non la vedevo in quel modo, anzi, adoravo vedere i turisti in giro per la città, sperduti. Mi avvicinavo apposta per dare indicazioni. Facendo così, speravo che il loro giudizio su noi Francesi cambiasse.
«Posso confessarti una cosa?» mi chiese. «Be', in realtà è una sensazione.»
«Con questo tono di voce mi spaventi.» ridacchiai prima di mangiare una crocchetta di pollo che avevo riscaldato al microonde poco prima.
«Quando vi siete guardati, tu e quel tizio, ho avuto la sensazione che lui ti conoscesse.» spalancai gli occhi e restai in silenzio. «Forse mi sbaglio, te l'ho detto, è solo una sensazione.»
Harry non mi aveva mai vista prima d'ora, ma io sì: in foto, video, poster, ovunque, visto che ero sua fan. Poi cambiò tutto.
«Ti sbagli, io non lo avevo mai visto prima d'ora.» mentii.
«Be', allora la mia sensazione era sbagliata.» concluse. Poi, sentii un suono acuto e stridulo provenire dall'altro capo del telefono. «È giunta la mia morte.» si lamentò il mio amico. Capii subito che la sua coinquilina aveva iniziato a suonare il violino.
«Non ti preoccupare. Domani mattina, alla stessa ora, sarò da te e ascolterò ogni lamentela che avrai da dirmi.»
«Emily sei il massimo!»
Lo salutai e andai a sedermi sul divano, accesi la Tv. Subito dopo mi accorsi che stavano parlando di Harry e del suo ritorno a Londra, dopo molto tempo. Poi vennero fatte scorrere sullo schermo immagini di lui che entrava in una jeep completamente nera. Per un attimo avevo paura che qualcuno del bar lo avesse riconosciuto, avesse scattato delle foto e le avesse passate a qualche giornalista, ma per fortuna nessuno aveva visto niente... a parte Fred.
Spensi la Tv e andai a dormire, ma il pensiero costante di aver incontrato l'idolo che nella mia adolescenza significava tutto, non mi lasciava andare.
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