Un papavero in mezzo a un campo di grano

Ottobre, L'Aquila

Sono scesa dal pullman per andare a lezione. Oggi c'è geometria e poi il laboratorio di fisica uno. Le prime due ore saranno un inferno. Magari non proprio un inferno, ma di sicuro non ci capirò niente, come al solito. Per raggiungere l'aula di geometria nel grigio e cementifico edificio di Coppito Uno devo passare per forza da quello moderno, se così si può definire, di Coppito Due, e come al solito quando mi trovo a passare in spazi aperti solo da un lato, mi cade l'occhio a destra verso l'atrio del palazzo, come se ogni volta dovessi incontrare qualcuno che conosco, qualcuno che potrei o dovrei salutare. Ma sono qui solo da qualche settimana e ancora non conosco così tante persone da poterle incontrare ad ogni angolo del polo universitario.

Ci sono le solite e statiche macchinette del caffè addossate al muro, con alcuni studenti che fanno la fila e aspettano che un'imitazione mal riuscita di caffè venga quasi sputata fuori dallo sportellino. Girare lo zucchero in un bicchiere di plastica con una paletta anch'essa di plastica è un gesto che associo direttamente all'ansia e allo stress. Se avessi tempo e potessi goderti un buon caffè, saresti seduto in un bar o a casa, con una tazzina di coccio tra le mani, poggiata su un piattino coordinato e gireresti lo zucchero con tutta la calma di cui l'uomo è capace, come Dio comanda, perché tu possa assaporare ogni istante della tua pausa ad ogni sorso.

Altri ragazzi e ragazze si aggirano per le scale e per le aule, sicuramente come me in attesa delle lezioni, altri semplicemente perché sono abituati o hanno piacere a bighellonare invece di studiare. Ma chi sono io per giudicare?

Quello che invece mi colpisce in quei pochi secondi che impiego per attraversare quella specie di corridoio, è che a qualche metro dalle macchinette c'è un tizio. Il tipico tizio, nel senso che non sapresti identificarlo con precisione, perché in mezzo a una folla si perderebbe. Ma in mezzo a un'orda di studenti spicca come un papavero in mezzo a un campo di grano.

È alto, di mezz'età, indossa un cappotto nero, ma soprattutto porta un cappello nero con la tesa. Non l'avevo mai visto uno con in testa un cappello con la tesa. Con la coppola sì, col berretto sì, ma un cappello con la tesa... Non dello stile Indiana Jones, piuttosto nell'insieme direi uomo americano che partecipa a un funerale. Se avesse una sigaretta in bocca e fosse in piedi sotto una pioggia torrenziale, sarebbe il perfetto protagonista di una storia noir.

Non credo sia un professore, anche se ovviamente non conosco tutti gli insegnanti dell'ateneo, ma non ne ha proprio l'aria. Inoltre è l'atteggiamento, la postura e la posizione che hanno catturato la mia attenzione: non molto lontano dalle macchinette, ma non in fila e non rivolto verso di esse, ma verso l'ingresso del palazzo; non con le spalle al muro, ma con una sola spalla poggiata, indolente, ma in attesa, le mani nelle tasche del cappotto. E gli occhi. Quegli occhi hanno incrociato i miei per un momento, soffermandosi, non di sfuggita come si potrebbe incontrare lo sguardo di uno sconosciuto per strada.

Ma sono una stupida con una fervida immaginazione, che ha lavorato troppo in questi secondi, tanto da farmi quasi rallentare il passo. Ma che voglio combinare? Che mi interessa di quel tizio? Se ci penso su ancora un po' faccio tardi a lezione.

Spingo il piede destro avanti ancora una volta e accelero il passo.

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