Matrici e caffè
Oggi pomeriggio ho deciso di rimanere in biblioteca, tanto a casa non farei niente, col casino che c'è: gente che entra e che esce, radio a palla, col cavolo che combino qualcosa.
La biblioteca mi piace, anche se non vedo tutti gli scaffali ricolmi di libri; ce ne sono pochi a questo piano, il più è al piano di sotto e se ti serve un libro, vai dall'addetto con una scheda precompilata in cui fai regolare richiesta. Lui inserisce i dati nel computer e poi magicamente un montacarichi ti porta su il libro che volevi. A questo piano invece ci sono molte più scrivanie che libri, è più una sala studio, con postazioni separate da pannelli e luci al neon per aiutarti a concentrarti. Il silenzio regna sovrano, tanto che aprire la zip di un portapenne equivale allo squillo di trombe che annunciano l'ingresso del re in sala, e lo sfogliare delle pagine dei libri produce rumori della stessa intensità del vento tra i rami degli alberi in una tempesta.
È per questo che mentre sono qui, china sulle fotocopie del libro di geometria, perché l'originale costa troppo, a cercare di capire cosa siano le matrici, sentire il suono di un colpo di tosse, anche se dato con discrezione, attira la mia attenzione distogliendola dallo studio. Così alzo lo sguardo e mi accorgo che lo scopo era proprio quello: attirare la mia attenzione. In piedi alla mia destra c'è il-tizio, col cappello in mano. Non so se quello che traspare dal mio viso sia stupore, irritazione o curiosità, ma lui non sembra farci caso: «Giulia De Santis?»
Sa il mio nome. Chi è quest'uomo? Sono tesa, non rispondo.
«Giulia Mirella De Santis?» continua a chiedermi sottovoce.
Sa tutti e due i miei nomi. E il secondo lo occulto sempre perché è orrendo. Ora potrei anche essere spaventata. «Perché chiedere se sa già la risposta?»
Credo che l'incazzatura abbia preso il sopravvento sulla paura. Chi è e che cosa vuole da me? Me lo chiedo, ma non lo chiedo a lui. È ovvio che gli sto ponendo queste domande, visto come ci siamo incrociati in questa strana giornata.
«Avrei bisogno di parlarle, potrebbe dedicarmi qualche minuto?»
Ok, ora comando io. Sta a me la scelta, se ascoltarlo o meno, no? Chiudo il libro, mi metto comoda sulla sedia per guardarlo meglio in faccia e mi sembra ancora più alto, ovviamente perché lui è ancora in piedi. Incrocio le braccia al petto e lo sfido: «Sono tutta orecchi.»
I suoi occhi guizzano da una parte all'altra della sala studio, si inchina impercettibilmente verso di me e sussurra: «Non qui.»
Io sollevo le sopracciglia; se pensa che lo seguirò da qualche parte sperduta se lo può scordare: «O qui o niente.»
Stringe le labbra in un gesto che credo serva per reprimere irritazione: «Capisco. Andrebbe bene anche il bar della facoltà?»
Guardo l'ora: le tre e mezza. Il bar non sarà ancora affollato per la tipica pausa del pomeriggio, ma sarà comunque un luogo pubblico e con almeno un testimone, il barista. Rimetto la matita e la gomma da cancellare nel borsellino, ma lascio tutto sul tavolo: uno, perché non voglio perdere il posto in biblioteca e due, perché voglio dargli l'impressione che non ho molto tempo da dedicargli. In fondo, non ho ancora capito che cavolo sono 'ste matrici.
Mi alzo e gli indico l'uscita. Lui tituba un momento, come se gli avessi rubato un gesto che sarebbe dovuto essere suo, ma io non cedo. Il-tizio si incammina e io lo seguo: voglio tenerlo sotto controllo, a due passi di distanza, osservare la sua schiena. Che potrebbe fare? Tirare fuori una pistola e minacciarmi? In mezzo a tanta gente? Per cosa? Magari è un pazzo. Magari è un maniaco che ha scoperto, non so come, come mi chiamo. In ogni caso i miei dubbi saranno presto fugati, o almeno spero che non se ne aggiungeranno altri.
Attraversiamo le porte di Coppito Uno ed entriamo nel bar. Come immaginavo non c'è molta gente, ma quei quattro gatti per ora mi bastano, mi fanno sentire comunque al sicuro.
Sono un'incosciente, non c'è dubbio.
Davanti al bancone il-tizio si volta verso di me e mi chiede se voglio prendere qualcosa. Rifiuto con fermezza: non ho nessuna intenzione di farmi drogare o avvelenare. Per tutta risposta lui fa una scrollata di spalle e ordina un caffè. Poi va a sedersi a un tavolino, questa volta senza neanche provare a fingere un gesto di educato invito. Così mi siedo anche io di fronte a lui e aspetto. Aspetto che il barista gli porti il caffè, aspetto anche quando gli vedo comparire per la prima volta una specie di sorriso sulle labbra. E così, visto che io non lo investo di domande su chi è, cosa vuole da me, come fa a conoscermi, eccetera, è lui che comincia a parlare.
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