La stanza in affitto

Novembre, L'Aquila

Sono passati un bel po' di giorni dall'ultima volta che ho visto Corsi, dalla mia prima operazione, come l'ha chiamata lui. Ovviamente non ho avuto il coraggio di parlarne con nessuno. Seguo i telegiornali e leggo vari quotidiani, anche locali, aspettandomi qualche notizia che possa avere a che fare con l'infiltrazione dell'AISI nella rete dell'università tramite il mio account. Ma non trovo niente che possa collegarsi al fatto. Cerco il legame più disparato, seguendo la filosofia per cui il battito di ali di una farfalla in Cina potrebbe scatenare un uragano in America, eppure non vedo niente.

Quel giorno Corsi mi ha spiegato come sarebbero andate le cose, che avrei capito il modo in cui mi avrebbero contattato, così mentre cammino, mentre mangio, mi aspetto di vedere un bigliettino, una persona strana all'angolo di una strada, mi aspetto di essere contattata e invece niente.

Così più passano i giorni e più mi convinco di essermi immaginata tutto, oppure che Corsi fosse veramente un pazzo scappato da Collemaggio e per una qualche strana ragione sapeva molte, molte cose sul mio conto.

Ed è proprio quando sto per rilassarmi, quando ormai do per scontato che mai niente di male potrà succedere a me, alla mia famiglia e alle persone che mi sono intorno, che ricevo una telefonata. La voce all'altro capo del telefono è di una donna: «Salve, ho visto il suo annuncio per una stanza in affitto sulla bacheca della mensa serale. La stanza è ancora libera?»

Sto già per rispondere alla tipa che ha sbagliato numero: noi a casa siamo al completo e non abbiamo messo nessun annuncio, anche perché si occupa il padrone di casa di trovare le ragazze. Ma poi qualcosa mi trattiene dal liquidarla subito: «No, mi spiace, abbiamo risolto.»

La donna sembra delusa: «Ah, d'accordo. Allora vi consiglio di togliere l'annuncio in bacheca. Grazie e buona sera.»

Riattacco e guardo sul display il numero dell'ultima chiamata ricevuta: un normalissimo cellulare Vodafone. Premo i tasti per richiamare il numero selezionato e una cortese quanto composta quanto automatica voce Vodafone mi avverte che il numero chiamato è inesistente.

Al volo, prendo la borsa e mi infilo il giubbotto; è novembre e a L'Aquila fa già un freddo cane. Dal corridoio grido alle ragazze nelle loro stanze che sto andando a cena a mensa e non aspetto risposte di conferma. Corro giù per le scale e corro ancora per strada.

Uno dei punti a favore di questo appartamento è che si trova a meno di dieci minuti dalla mensa, così come da piazza Duomo, a due minuti dalla fermata dell'autobus, insomma, una posizione strategica. Quindi correndo ci metto poco più di cinque minuti per arrivare alla mensa serale.

Vado dritta alla bacheca, sommersa da annunci di tutti i tipi: case intere, singole stanze o semplici posti letto in affitto; ripetizioni in quasi tutte le materie di quasi tutte le facoltà; pubblicità di serate all'insegna del divertimento nell'ultimo locale aperto in centro. Comincio a fare una cernita, ad ignorare quelli che non riguardano le stanze in affitto. A quel punto cerco un solo annuncio, quello che ha come numero di riferimento il mio. Eccolo!

Lo hanno attaccato con un pezzetto di scotch, lo strappo e lo leggo attentamente:

Affittasi stanza singola in appartamento in via Fortebraccio

ai piedi della scalinata della chiesa di San Bernardino.

205,00 € al mese

Segue il mio numero di cellulare.

Non può essere uno scherzo, né un errore. L'annuncio è stato scritto a mano, calligrafia femminile con i vari fronzoli del caso. Storco il naso: io non l'avrei mai scritto in quel modo. In più è un prezzo assurdo: va bè l'ottima posizione, ma quelle cinque euro se le potevano risparmiare.

A meno che... Guardo l'ora: le otto e mezza. E se fosse veramente come penso? Se fosse un appuntamento? Il posto è chiaro, ma l'ora potrebbe essere indicata in questo strano valore? Potrebbe essere alle otto e cinque, ma ho ricevuto la telefonata dieci minuti fa, quindi perché avrebbero dovuto chiamarmi dopo l'ora dell'appuntamento? L'unica soluzione è che sia per le otto e cinquanta e al diavolo gli zeri e le virgole.

Esco da mensa cercando di ignorare il profumo di pasta al forno che ha stuzzicato il mio appetito; potrei anche fare in tempo a tornare prima della chiusura e riuscire a mangiare qualcosa.

Anche se andassi con calma arriverei sicuramente in tempo, dalla mensa ci vuole circa un quarto d'ora per la chiesa di San Bernardino, ma io corro lo stesso e in meno di dieci minuti sono lì, davanti alla basilica. Scendo le scale dalla pedata larga cercando di non rompermi l'osso del collo, arrivo in fondo e mi guardo intorno, ma non vedo nessuno. Mancano ancora cinque minuti all'appuntamento, o a quello che credo sia un appuntamento, così mi tranquillizzo e riprendo il fiato che ho perso per la corsa.

Sono qui, ai piedi della scalinata, come dice l'annuncio, eppure non si vede nessuno. Però forse non deve arrivare nessuno e io dovrei accorgermi di qualcosa da qualche parte. Comincio a guardare per terra, ma non vedo niente dove non ci sono i lampioni ad illuminare l'asfalto. Allora guardo in su, sulle facciate dei palazzi, alle finestre accese e a quelle spente, cerco addirittura un sistema in quell'alternarsi di luci e ombre, ma ormai tendo al delirio.

Sobbalzo quando sento squillare un telefono alla mia sinistra: il suono viene da una cabina telefonica, una di quelle cose che non pensavo funzionassero ancora e soprattutto che qualcuno usasse ancora. Gli squilli si susseguono, ma sono abituata a comporre i numeri non a ricevere chiamate. Cose di questo genere si vedono solo nei film. L'orologio mi conferma che sono le venti e cinquanta e il telefono della cabina continua a suonare. Possibile che stia squillando proprio per me? Sorrido perché mi pongo un'altra domanda dettata dai miei strani collegamenti mentali: per chi suona la campana? Mi avvicino, afferro la cornetta e la porto all'orecchio, senza nascondere una smorfia di disgusto: questi aggeggi mi fanno un po' schifo, chissà quanti li hanno maneggiati.

«Pronto?»

«Due cinque sette uno. Papà torna a casa.»

La comunicazione viene interrotta e torno a sentire il segnale libero.

Cerco di registrare quante più informazioni sono capace: la voce dall'altra parte era di un uomo, non di un ragazzo, non di un anziano; due-cinque-sette-uno, una successione di numeri che questa volta non possono indicare un orario. Due-cinque-sette-uno, devo ricordarmeli, sono tutti numeri primi, ma non sono in ordine crescente o decrescente, inoltre la somma dei primi due dà come risultato il terzo, ma il quarto non saprei proprio come collegarlo. Due-cinque-sette-uno, pensa Giulia, pensa, potrebbero essere delle coordinate? Mi serve un computer, devo avere accesso al mio amico Google Maps e verificare. E poi quell'ultima frase "Papà torna a casa" che voleva dire? Era indirizzata a me? Devo tornare a casa? Oppure si tratta di qualcun altro?

Ok, è inutile che resti qui, tanto non ne vengo a capo e non riesco a trovare altri indizi, se mai ce ne sono. E poi mi sono fissata con quei numeri, due-cinque-sette-uno, e voglio andare a verificare l'idea delle coordinate GPS. Riaggancio la cornetta e già non vedo l'ora di andarmi a lavare la mano con tanto sapone.

Sto risalendo le scale di San Bernardino quando un ragazzo mi viene in contro a braccia aperte; non viene solo nella mia direzione, viene proprio verso di me. «Giulia! Tesoro, scusa il ritardo.» Mi abbraccia e mi stampa un bacio sulle labbra. Spalanco gli occhi per la meraviglia mentre il mio ginocchio sta già puntando il suo inguine, quando mi rendo conto che mi ha chiamato per nome. Lo intravedo nella luce dei lampioni: è alto, snello, coi capelli castani corti, la barba incolta e due occhi marroni che brillano nel buio. Non è affatto male! Bè, poteva andarmi peggio.

Il belloccio mi stringe ancora una volta a sé e io ne approfitto per fare l'unica domanda per cui so già che non avrò risposta: «Chi sei?»

«Matteo.»

Un nome vale un altro, ma il fatto che me ne abbia fornito uno, invece di comunicarmi il suo livello di sicurezza, mi fa capire che esiste davvero una squadra, che si compiono davvero operazioni, che Corsi non è un pazzo visionario, e che ci sia la altissima probabilità che quello che mi ha detto sia vero. Comincio a credere che la sicurezza nazionale dipenda davvero dai miei movimenti e forse Matteo, o qualunque sia il suo vero nome, sarà il mio nuovo contatto, o forse andrà ad aggiungersi a Corsi. Ma nonostante tutti questi forse affollino la mia mente, Matteo continua a stringermi, come farebbe un ragazzo che coccoli la sua ragazza, per farsi perdonare del ritardo. E io mi lascio coccolare, perché le sue braccia sono grandi e forti, e perché è una bella sensazione essere abbracciati, e perché è per la prima volta da un mese a questa parte che non ho paura di tutto questo, finché lui non mi sussurra all'orecchio: «Qual è il messaggio?»

Allora la realtà riprende il sopravvento, io mi ricordo che lui non è il mio ragazzo, anche se mi ha appena baciato, e mi ricordo i numeri e li ripeto come un automa insieme al resto del messaggio.

«Bene.» Mi sorride, mi prende il viso tra le mani grandi e mi bacia ancora. «Vieni, ti riaccompagno a casa.»

Chi è questo ragazzo? Cos'è questa sensazione di sicurezza che mi trasmette? Non ha niente a che vedere con il tono di voce di Corsi, sembra innato in lui, forse autentico. Devo fare davvero fatica a ricordarmi perché siamo qui insieme e quello che lui vuole veramente da me, cosa che d'altra parte ha già ottenuto. E per la prima volta mi sorge un dubbio: e se Matteo fosse un nemico? Se qualcuno avesse intercettato i vari segnali? Ma come faccio a discriminare io se non so nemmeno chi potrebbe essere il nemico? Cosa è davvero giusto, e cosa è davvero sbagliato?

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