Aglio e cipolla
Stiamo andando verso casa e io lo sto praticamente seguendo, questo significa, ovviamente, che sa dove abito. Non va bene. Mi tiene per mano, anche la sua è fredda come la mia, perciò non capisco da dove arrivi il calore che sento. Non va bene. Devo riprendere il controllo, anche se non so se ne sarò mai più capace.
«Chi sei?» ripeto ormai come un pappagallo che ha imparato solo queste due parole.
Lui mi guarda e sorride: «Te l'ho detto, mi chiamo Matteo.»
«Non mi serve il tuo nome, un nome vale l'altro. Ho bisogno di sapere cosa sta succedendo, cosa ho fatto.»
«Hai fatto tutto quello che dovevi fare e sei stata bravissima.» Mi stringe la mano come se volesse enfatizzare le sue parole. «Stefano mi aveva avvertito che avresti fatto domande; non sei una che si arrende facilmente, vero?»
«Odio non capire.» confesso.
«È per questo che ti sei iscritta a fisica?»
Mi sorprende: è la prima volta che qualcuno mi fa questa domanda e il fatto che sia lui mi imbarazza. So che è stupido, ma ho l'impressione che questa conversazione stia diventando troppo intima.
«Non c'era scritto nel mio dossier?»
Matteo ride divertito: «No, questo non c'era scritto.»
«Quindi esiste davvero. L'hai letto?»
«Sì e non sono stato l'unico.»
«La cosa non mi tranquillizza.» ammetto. «Questo vuol dire che sai tutto di me.»
«Bè, come ti dicevo, non è che ci sia scritto proprio tutto. Non puoi dire di conoscere una persona solamente perché hai letto un elenco di fatti che sono avvenuti nella sua vita.»
Accidenti! Mi piace sentirlo parlare. Ancora una volta ho la sensazione che il suo modo di fare non sia studiato a tavolino. A meno che non sia un bravissimo attore.
Arriviamo in piazza Duomo e mi accorgo che mi sta portando nella via che costeggia la chiesa di Santa Maria del Suffragio, mentre dovremmo prendere quella accanto al duomo.
«Guarda che per casa facciamo prima di là.» gli faccio notare indicando la strada a destra.
«Lo so, ma volevo offrirti un kebab, visto che non hai fatto cena.»
Alla sola parola kebab il mio stomaco ha fatto i salti mortali. Non credevo di esserne capace, ma mi sono scordata che non ho più mangiato a mensa e non farei mai in tempo a tornarci. Bè, se veramente Matteo lavora per il governo, perché non scroccare una cena? Cena... Per tre euro... Si poteva sprecare a invitarmi in un ristorante o in una pizzeria almeno!
Entriamo dal kebabbaro e faccio uno degli ordini più carichi che mi vengano in mente, infilandoci praticamente tutte le salse, tranne aglio e cipolla: la scusa ufficiale è che non mi piacciono, quella ufficiosa è che spero, e temo, che Matteo mi baci ancora.
Tra un morso e l'altro torno all'attacco: «Quindi tu sai tutto, o quasi, di me, mentre io non so niente di te.» Mi lancia uno sguardo scettico, così mi affretto ad aggiungere: «Certo, tranne il nome.»
Lui ride, si avvicina e sussurra: «Perché? Vorresti dirmi che crederesti a qualsiasi cosa ti dicessi?»
«Nemmeno a una parola.»
Mi siedo su uno sgabello alto davanti ad uno specchio e mi controllo la bocca: sono sempre più convinta che affiggano questi specchi nei posti take-away per aiutarti a rimanere pulito, così non vai in giro per strada con la faccia piena di salsa o con pezzetti di insalata tra i denti. Matteo si siede accanto a me porgendomi una Sprite aperta con una cannuccia infilata nella lattina. Sanno anche questo? Sanno che io sono il tipo da Sprite e non da Coca Cola, sanno che non bevo direttamente dalla lattina, ma solo con la cannuccia. Ormai ogni mio gesto mi costa fatica, prendendo consapevolezza che sia osservato e annotato in un dossier.
Mi sforzo di finire il kebab ed esco all'aria fredda della sera; sento Matteo pagare e venirmi dietro attraverso piazza San Marco. Dovrei ringraziarlo, lo so, ma proprio non ci riesco. Per la prima volta da quando è iniziata questa storia ho voglia di piangere. Forse è stata proprio la premura di Matteo a scatenare tutto questo subbuglio dentro di me, ma proprio non riesco a stare accanto a lui. Ho bisogno di stare sola e affretto il passo e sento che lui mi viene dietro e mi dice di aspettarlo, mi dice che non vuole che giri da sola per strada, che vuole tenermi al sicuro.
«Al sicuro da cosa?» gli urlo. «Al sicuro da chi? È da Corsi che dovrei tenermi al sicuro. È da te che dovrei allontanarmi.» E non riesco più a trattenere le lacrime. Ho i nervi a pezzi e mio malgrado continuano a risuonarmi nel cervello quei maledetti numeri. Perché nonostante sia ridotta a uno straccio, non vedo l'ora di andare a casa e controllare le coordinate.
Per un momento Matteo assiste silenzioso a questo sfogo. Poi si avvicina e mi stringe forte accarezzandomi i capelli, non come ha fatto a San Bernardino, quando stava fingendo che fosse il mio ragazzo. No, lui mi sta consolando sul serio, adesso.
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