Prologo


Se non fosse per te
Bugie

un racconto di Carla Volturi

1


Sono nata dopo venticinque anni di matrimonio. Venticinque anni lunghi, intensi, pieni di attesa. Venticinque anni durante i quali una donna si chiede cosa c'è che non vada, cosa manchi. Quale parte del suo corpo non funzioni, cosa concretamente le impedisce di avere un figlio. Venticinque anni di tristezza, probabilmente di litigi e pianti disperati. Poi il miracolo. Io, sono venuta al mondo.

Ho sempre amato prendermi cura di me stessa. Un modo evidente per manifestare quel po' di amore che provo per il mio corpo e per la mia anima. Ma lo smalto ultimamente non è a posto. Un'unghia smaltata, l'altra no. Una rotta, l'altra mangiucchiata. Lo smalto non è il mio forte. Non ultimamente. E a pensare che ne ho spesi di soldi per il semipermanente. Qualcuno dice che le unghie non curate a dovere siano l'anticamera di una vita di merda. In effetti, è vero.

Fa piuttosto caldo ed asciugo il sudore sul viso con un fazzoletto di cotone. Quelli di carta sono detestabili, graffiano la pelle. La mia specialità è fissare un punto. Uno qualsiasi. Non importa che sia nero, grigio, bianco. Basta che sia un punto. E mi incanto. Passo le ore a contemplarlo. Probabilmente crederanno che io sia strana, che non abbia altro da fare che starmene seduta con la testa sotto il sole.

Si vede il Vesuvio. Calmo e silenzioso se ne sta lì, un po' come me, a fissare la vita altrui, ricordando bene il suo compito. Ma non è ora che deve eruttare. Non come me, che ho la lava che bolle in bocca, all'estremità della sua apertura. Io si, io sto per eruttare. Dopo sei mesi.

Non ho versato una lacrima, né mi sono disperata. Ho lasciato che gli eventi mi investissero completamente, senza proferire parola. Forse perché poi tanto in mano la mia vita non l'ho mai presa. Non da sola, almeno. C'è sempre stata una voce consigliera, quel suggerimento che, nel bene e nel male, ha fatto la differenza. Ed ora che non ho altri a cui chiedere, sono scappata perché non ce la facevo più. Tutto mi stava stretto. Tutto mi toglieva fiato. E sul punto di morire soffocata, ho preferito fare le valigie e andare via. Per sempre, almeno credo. Almeno fin quando non mi salverò.

Un sorso d'acqua gelida. Mi attacco al collo della bottiglia pagata un euro dal carretto qui vicino. Bagno le mani e le passo prima sulle guance poi tra i capelli. Avverto ancora la puzza dell'ammoniaca, usata dal parrucchiere per la permanente. In compenso ho dei fantastici ricci, decisamente più comodi da disciplinare rispetto ai miei naturali capelli lisci e sottilissimi. La Panda rossa è posteggiata non molto lontano da me, su questa piazzola ricavata tra una curva ed un'altra. Fa caldo, sì, ma il vento leggero da un gradevole ristoro.

Non sapendo dove andare, che fare, ho guidato sin qui, in Costiera Amalfitana, luogo d'origine dei miei genitori. Non ci tornavo da tempo. Forse dovevo attendere qualcosa di grande per ritornarci.

Chissà se il bene che mia madre provava per me era senza fine come questo burrone tra le montagne. I genitori muoiono per i figli. Come si dice? Cento figli non fanno una mamma. È la verità.

Un motorino blu metallizzato si ferma esattamente vicino la panchina dove sono seduta. Un giovane uomo toglie il casco e lo appoggia sulla sella. Si accomoda al mio fianco, visibilmente preoccupato. Afferra le mie mani ed io non posso far altro che guardarlo, iniziando a versare tutte le lacrime che ho in corpo. Sto eruttando. E la mia lava non si ferma.

"Michele, mia madre è morta".

È così che sono andate le cose. Mia madre è morta. Deceduta. Sparita. Andata via. È nell'oltretomba. In paradiso possibilmente, perché era una donna buona. Leggermente rompiballe, ma buona. Come tutte le mamme. Solo che lei era la mia. Solo la mia. Magari non speciale per gli altri, una persona anonima, comune, ma non per me. È stata la mia spalla, la mia voce. Quella favola che leggeva? Il grillo parlante. Si, ecco, eravamo così: io Pinocchio dai mille guai e lei la voce della mia coscienza.

Nei momenti suoi d'intenso amore, o intensa calma, o di intensa stranezza, affermava che il numero venticinque rappresentava tutta la sua vita. Quella buona, s'intende. "La nonna mi ha partorita il 25 Aprile. A venticinque anni mi sono sposata. Dopo venticinque anni sei arrivata tu, il giorno venticinque Agosto". Ed ironia della sorte un pomeriggio di sei mesi fa, di venticinque, l'ho trovata riversa tra le sue amate rose rosse, come addormentata. Stranamente quel giorno non piovve e nessuna nuvola copriva il cielo. Una bella giornata d'inverno. Suppongo lo abbia pensato anche lei, visto il biglietto lasciato sulla porta di casa. "Sono sul retro Gioia, tra le mie rose". E dopo il lavoro, così ho fatto. Mi sono incamminata verso il retro della nostra villetta in periferia. Credevo che si fosse appisolata, per me e per lei non era certo una novità. Ma poi il medico, accorso subito, mi spiegò che era stata colta da infarto. Che non potevamo fare nulla. Che dovevo farmi solo forza.

Ma come posso io farmi forza se non ho più nessuno con me? Se sono un punto fermo e nessuno mi scuote, facendomi vedere un'altra prospettiva? Come faccio, come farò?

Ma ho tenuto tutto per me. Pianto, disperazione, delusione, pensieri, rabbia, desolazione. Sono rimasta quasi impassibile, con una maschera senza alcuna espressione. Tempo del funerale e la mia vita ha ripreso il suo ritmo: sveglia alle sei e mezza, colazione veloce con doccia, corsa in auto verso lo studio medico, lavoro come segretaria, pausa pranzo, di nuovo lavoro come segretaria, ritorno a casa, cena. O meglio cena con i surgelati.

Ma ad un tratto mi sono resa conto che le rose erano morte, proprio come la mamma e non ho retto più.

"Hai fatto bene a venire qui da me. Dovevi farlo prima".

Michele è mio cugino di non so neanche più quale grado. L'unico parente che mi è rimasto in vita. Ci sarebbe mio padre, a pensarci bene, ma sono esattamente sette anni che non lo vedo e sento. Sette anni fa stavamo fuggendo proprio da questo posto, ma mio padre non fu capace di reggere il peso di quanto accaduto. Mia madre sì e da allora ha svolto entrambi i compiti. Ancora oggi mi domando se sono una vigliacca come lui o coraggiosa come lei. Non l'ho capito ancora bene.

Michele mi riporta alla realtà calda ed torrida. Mi versa dell'acqua, ridotta quasi a brodaglia, sulla testa e ripete lo stesso gesto su di sé. Accarezza il mio zigomo con il pollice ed asciuga qualche lacrima. Con quei suoi occhioni scuri cerca di carpire qualcosa dai miei. Ma ben presto li abbassa, forse sconfitto o forse perché non ci ha visto niente.

"Vieni, dai. Qui si crepa!"

Saliamo in auto, la mia. Michele al posto di guida, io al suo fianco. Mette in moto e l'aria condizionata invade l'abitacolo. Lui sospira, scrollando le spalle. Io mi stendo sulla seduta, divaricando le gambe, il che non è il massimo indossando un vestito.

Poi di scatto gli do a parlare, come rimpossessatami del mio corpo.

"E la moto?"

Iniziamo a muoverci. Scruta un possibile guidatore dal senso opposto ed imbocca la strada stretta e zeppa di curve.

"Lascia perdere la moto".

Mi lancia un'occhiata piena di premura e preoccupazione. Il petto compie strani movimenti veloci, quasi impercettibili. Sembra esser affetto da tachicardia, che in realtà è solo chiara agitazione. Dopotutto, quanto tempo è trascorso prima di vederci? Prima di stare così vicini come adesso? E, per giunta, in un posto così angusto. Involontariamente, copro il viso con le mani. Non voglio vedere, non voglio sentire. Non voglio minimamente annusare il profumo acre, che indica la sua presenza. Non voglio, non voglio niente. E non sarei dovuta venire qui. Non avrei dovuto guidare. L'ansia si impossessa di me ed una vocina stizzita mi ripete "stupida, stupida, stupida".

Michele da angosciato assume le vesti di uomo sorpreso. Atteggiamento classico di chi delle donne non capirà giustamente niente. Abbassa il parasole ed abbozza un leggero sorriso.

"Davvero Gioia, lascia perdere".

Annuisco, risoluta. Già, lascio perdere. Starà pensando ancora alla moto.

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