43. Connor e i burrito
Giunto alla mensa cercai ovunque con lo sguardo per trovare Judith, ma a prima vista non la vidi. Preoccupato, non potei fare altro che sedermi accanto a Peter e sperare che nulla fosse andato storto. Il rosso era ancora emozionato per il fatto che quel giorno sarebbe uscito con Amanda.
«Hai visto?» domandò d'un tratto, indicando qualcosa ad un tavolo. «Amanda mi ha appena fatto l'occhiolino!» poi sospirò felice, lasciandosi cadere sulla sedia. «Ah, sono il ragazzo più fortunato della terra.»
Era bello vedere Peter felice, ma avevo altri pensieri per la mente.
«Mh, bello.» Dissi distrattamente, giocherellando con la forchetta nel mio piatto di lasagne.
Erano diventate così mollicce che non le avrei toccate neanche non la punta della lingua. Peter si accorse del mio poco entusiasmo e mi guardò negli occhi.
«Che succede?» domandò diventando serio.
Sospirai e lo guardai. «Anche tu hai ricevuto dei disegni dentro l'armadietto?»
«Sì, perché?»
«Erano di Judith. Bethany le ha rubato il quaderno, ha fotocopiato tutto e infine ha mandato le fotocopie a tutta la scuola. Per fortuna sono riuscito a farmi ridare il quaderno, ma non penso che Judith sia contenta.»
Peter abbassò lo sguardo, tristemente. «Che cosa orribile, dobbiamo fare qualcosa.»
«Ci ho provato, ma non trovo Judith da nessuna parte.»
Insieme sospirammo, ma fummo interrotti dall'arrivo di Vanessa, che si sedette preoccupata nel nostro tavolo.
«Ragazzi, avete ricevuto anche voi le fotocopie?»
Io e Peter annuimmo in silenzio, e la ragazza sospirò.
«Oh, no. Sono molto preoccupata per Judith...»
«Le hai parlato?» domandai interessato.
«Ci ho provato, ma non mi ha degnata neanche di una sguardo» fece una piccola pausa. «È completamente persa.»
«Adesso dov'è?» domandai.
Vanessa si girò e me la indicò con un dito. Seguì il suo sguardo e finalmente la vidi; Judith che mangiava silenziosamente la sua pasta, seduta in un tavolo completamente vuoto. Potevo immaginare il suo senso di solitudine, e non potei non fare qualcosa.
«Io vado a parlarle» dissi con fermezza. «Devo almeno tentare.»
Vanessa annuì e mi lasciò andare. Afferrai il mio vassoio e lentamente mi avvicinai alla ragazza, che teneva un gomito appoggiato al tavolo e che era intenta a giocherellare con la forchetta nella sua pasta. Mi sedetti di fronte a lei, ma Judith non mosse lo sguardo dal suo piatto di pasta.
«Hey...» dissi tristemente, cercando di attirare la sua attenzione. «Tutto bene?»
La ragazza non mi rispose. Era come immobile, paralizzata, con gli occhi rossi dalle lacrime che aveva versato; mi accorsi anche che una di queste stava scivolando lentamente sulla sua guancia sinistra. Vederla così mi preoccupava.
«A me piacciono, i tuoi disegni. Sei molto brava.»
Ancora una volta non ricevetti una risposta, nemmeno uno sguardo. Vanessa aveva ragione, parlare con lei era quasi impossibile. Ma io non mi arresi.
«Judith, io sono qui se vuoi parlare.»
Silenzio, la ragazza sembrava quasi mummificata. Cominciava a farmi paura. Avvicinai la testa cercando di guardarla meglio negli occhi.
«Sono qui.» Ripetei con un volume più basso.
Niente di niente.
«Judith, ti prego. Mi dispiace tanto, ma se solo tu volessi sfogarti e parlare apertamente con me, vedrai che...» D'improvviso mi bloccai, quando la sua lacrima toccò il suo piatto di pasta.
Judith voleva essere lasciata in pace. Era quella la verità.
Ormai rassegnato, presi il quadernino dalla tasca della mia felpa e glielo misi accanto a se. «L'ho preso da Bethany» mormorai senza alcuna emozione nel mio volto. «Cerca di tornare serena, okay?»
Ancora nessuna risposta. Tristemente mi alzai dalla sedia e prendendo il mio vassoio tornai al mio tavolo. Pur essendo di spalle, sapevo perfettamente che in quel momento Judith aveva cominciato a fissarmi. Non ero riuscito a parlarle, ma sperai che si sarebbe rimessa presto. Non appena mi sedetti al mio posto, i due che avevo di fianco mi riempirono di domande.
«Allora?» iniziò Peter.
«Le hai parlato?» finì Vanessa, interessata.
Sospirai e scossi la testa. «Niente da fare, ragazzi. Judith ha solo bisogno di un momento per stare sola.»
I due sospirarono e si guardarono, tristi. Erano delusi, probabilmente non era la risposta che volevano sentirsi dire.
«Non capisco perché tutti ce l'abbiano con lei» commentò Vanessa, cominciando a mangiare il suo piatto di insalata. «Insomma... non ha fatto niente.»
«È una preda facile.» Dissi, bevendo un bicchiere d'acqua.
Lo rimisi sul tavolo e guardai attentamente i due.
«Se vogliamo capire perché fanno così vi servirà entrare nella testa del bullo, e si dà il caso che io sia un ex-bullo riuscito a liberarmi da quelle catene.» Dissi con voce teatrale guardando l'orizzonte.
Peter corrugò la fronte. «Parla, prima che mi salga la voglia di darti un pugno.»
Tornai a guardarli riprendendo la faccia seria che avevo perso poco prima.
«Credo di aver capito perché tutti prendano di mira Judith» invitai i due a guardarla, seduta sola nel suo tavolo. «È troppo timida e insicura, e ogni insulto che riceve è come un'ancora che si aggrappa al suo piede e la porta giù negli abissi. Dobbiamo solo aiutarla a distruggere quella corazza, e magari i bulli smetteranno di divertirsi.»
Mi sembrava un ottimo piano, ma Vanessa complicò le cose. «E come facciamo?»
Io la guardai non sapendo cosa dire. «Beh... sei la sua migliore amica, no? Ora è il tuo turno.»
La ragazza sospirò e cominciò a parlare. «Io dico di trovarle un fidanzato.»
A quella parola spalancai gli occhi.
«Fidanzato?»
«Sì! Una persona con la quale possa ridere e scherzare, e magari che le faccia vedere che lei vale molto di più di quello che dicono i bulli.»
Peter annuì. «Mi sembra un'idea carina.»
Tra i tre, io ero l'unico contrariato. «Ma dai, ragazzi. Adesso dobbiamo metterci a fare i casting per trovarle un fidanzato?» sbuffai, nervoso. «Lasciamo che il tempo faccia il suo lavoro e che se lo trovi da sola.»
«Chris, Judith non ha mai avuto un fidanzato in tutta la sua vita» ribatté l'amica. «Non ha mai dato un bacio a nessuno! L'unica persona a cui faceva le coccole era il suo gatto Coco» poi alzò gli occhi al cielo. «Riposa in pace, piccoletto.»
Io sospirai. «Volete trovarle un fidanzato? Ottimo, ma lo farete senza di me.»
Vanessa e Peter si scambiarono un'occhiata d'intesa, e io rivolsi ai due un'occhiata interrogativa. Loro decisero di non andare oltre e mi guardarono.
«Bene, allora da oggi cominceranno le ricerche.» Disse Vanessa a Peter.
Quei due non me la raccontavano giusta, ma decisi di non infierire con i loro piani e di continuare a giocare con la mia lasagna andata a male. Clary mi avrebbe insultato, vedendo che stavo trattando così le sue amate lasagne. Sospirai e guardai i due ragazzi di fianco a me parlare di piani e tattiche per trovare a Judith un fidanzato. Non capivo perché lo stessero facendo, Judith non aveva bisogno di un ragazzo per aiutarla con il suo problema. Ci sarei riuscito io.
«Geloso?» domandò Ed.
Sbuffai e scossi la testa. Non ero affatto geloso, sapevo perfettamente che una volta andato via Judith avrebbe vissuto la sua vita, con suo marito e la sua famiglia. Volevo semplicemente aiutarla, il mio compito da quando ero sulla terra. Lasciai il mio piatto velocemente e salutai i miei amici.
«Dove stai andando?» domandò Peter vedendomi alzare dalla sedia.
Quella domanda mi lasciò in sospeso. «Il bagno mi chiama.»
I due ragazzi mi guardarono in tralice, e decisi di interrompere quel contatto uscendo velocemente dalla mensa. La verità era che dovevo riprendere il cellulare di Bethany come promesso, se non volevo che Miles mi facesse girare la testa con un bel pugno. Raggiunsi il corridoio della scuola, che a quell'ora si trovava vuoto. La missione si era rivelata più facile del previsto, dovevo semplicemente prendere quel cellulare. Non ci sarebbe stato nessuno che mi avesse messo le ruote tra i piedi. All'improvviso sentii un rumore provenire dalla mia sinistra, e subito mi missi all'allerta. Sgattaiolai dietro ad un muro e diedi un'occhiata; si trattava di un ragazzo che stava frugando dentro il suo armadietto. Feci un'espressione confusa, che ci faceva lì?
«Chris, ciao!» a quella voce feci uno scatto dallo spavento. «Per caso mi stavi spiando?»
Uscii dal muretto e lo vidi.
«Connor? Non dovresti essere in mensa?»
Era strano trovare un ragazzo nel bel mezzo del corridoio a quell'orario, a meno che non volesse rubare un cellulare.
Lui rise. «Oh, io non vado mai a mensa.»
Aggrottai la fronte. «Allora come fai a...»
Lui mi interruppe subito. «È tutto qui dentro.» Spiegò, indicando il suo armadietto.
Mi invitò ad avvicinarmi, ma dentro vidi solo i suoi libri di scuola.
«Perciò... mangi la carta?» trassi questa conclusione. «Io l'ho assaggiata, una volta. Non è male.»
Connor rise di nuovo. «Ma no, guarda meglio.»
Strizzai gli occhi, e finalmente vidi qualcosa: c'era una botola.
«Questa cos'è?»
Ridacchiò. «Era ora che te n'accorgessi.»
La aprii e ci mise una mano dentro. Stava frugando qualcosa, e per tutto il tempo lo guardai con un sopracciglio alzato. Quel ragazzo era un tipo strano. Subito dopo, la mano di Connor uscii dalla botola con un burrito in mano.
Lui mi sorrise soddisfatto, mentre io ero sbalordito. «Ma come hai...?»
«Macchina per i burrito.»
Connor cominciò ad addentare il suo cibo con gusto. Tutto ciò era assurdo.
«Perciò tu ti cibi solo di burrito?»
Il moro annuì. «Io amo i burrito» bofonchiò con la bocca aperta. «Ne vuoi uno?» chiese poi per non fare lo sgarbato.
Scossi la testa. «No, no. Ho ancora le lasagne sullo stomaco.»
Lui rise e continuò a mangiare golosamente il suo amato burrito. Lo osservai con sorpresa nella mia espressione; non mi sarei mai aspettato che Connor fosse così... così. D'un tratto mi ricordai di quello che aveva fatto in classe; mi aveva difeso davanti a tutti, cosa che in pochi avrebbero avuto il coraggio di fare. Si era rivelato un buon amico, e non ringraziarlo sarebbe stato spregevole.
«Hey, ci tenevo a dirti che ho apprezzato quello che hai fatto per me» sorrisi. «Grazie.»
Il ragazzo tolse la sua bocca dal burrito e ricambiò il sorriso.
«Non preoccuparti. Alle volte si ha bisogno di qualcuno che non rimanga a guardare, no?» annuii. «Sai, ho trovato ammirevole il gesto che hai fatto per quella ragazza. Ci vogliono le palle!»
A quel commento rimasi colpito e ridacchiai. Connor mi stava aiutando ad aumentare l'autostima che ormai sembrava essere svanita in una nuvoletta di fumo.
«Posso farti una domanda? Me la stavo tenendo dentro da un po'.» Disse Connor.
«Certo.»
Il ragazzo si grattò la testa. «Cosa ti ha spinto a cambiare?» rimasi un'istante in silenzio, non sapendo cosa rispondere. «Insomma... prima sapevo che tu eri uno di quei bulletti, e poi da un giorno all'altro sei diventato un'altra persona e ti sei schierato dalla parte delle vittime. Come mai?»
Quella domanda era davvero difficile da spiegare. Non potevo certo dirgli la verità, mi avrebbe rinchiuso in un manicomio con tanto di camicia anti forza. Abbassai la testa dovendo rifletterci un attimo, poi tornai con lo sguardo diretto verso i due occhi neri davanti a me e sospirai.
«Ho avuto un illuminazione. Una notte mi sono svegliato e ho sentito... una voce. Sì, era una voce, e mi diceva che stavo sbagliando. Mi disse che che non dovevo stare a guardare il mondo che si sgretolava attorno a me, ma che dovevo fare qualcosa. È stato come un lampo. Prima ero cieco, ma con il tempo ho imparato ad aprire gli occhi.»
Quello che avevo detto nascondeva la verità. Era proprio una voce che mi aveva fatto accorgere che non potevo continuare così, e come in un fulmine avevo capito come stavano realmente le cose. Che nulla era facile, che le mie azioni avevano delle conseguenze sulla vita di qualcun altro, che se non avessi fatto le cose per bene nessuno mi avrebbe ricompensato.
Connor sorrise. «Questa è una bella storia, amico.»
«Grazie, amico.»
Mi scappò da ridere, e lo feci insieme a lui. Era incredibile di come si facesse amicizia in fretta. Magari senza accorgersene, ma le amicizie nascevano proprio così, all'improvviso.
«Comunque ho notato che la botta che hai preso ieri sta guarendo...» Commentò Connor incrociando le braccia.
«Speriamo il prima possibile, non vorrei andare alla festa di Halloween travestito da pugile dopo un incontro.»
Scoppiammo ancora a ridere, e in quel momento suonò la campanella che segnava la fine della pausa pranzo. Quello mi fece ricordare del patto che avevo stretto con Bethany; i professori e gli alunni sarebbero arrivati in meno di un minuto.
«Oh, no!» esclamai allarmato.
Connor mi rivolse un'occhiata interrogativa. «Che succede?»
«Ehm... no, niente. Devo correre in classe.»
Senza lasciargli aggiungere qualcosa corsi in direzione dell'aula di storia, lasciando Connor e il suo burrito da soli.
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