Capitolo quarto
Christopher e Zoe rimasero fino a dopo cena a casa di Madelyn. Era così assente, ancora, nonostante avesse riposato. Li congedò solo dopo avergli raccontato una balla.
- Si trovava nel corridoi ed era stata una giornata stressante, soprattutto per i mille pensieri riguardanti la famiglia. E quindi aveva provato a farsi male da sola, riuscendoci. Era finita nel bagno dei maschi senza accorgersene, troppo presa mentalmente dalla situazione e poi era rimasta lì, affranta, delusa di sé stessa e spaventata. -
I due ragazzi se la bevvero. Le dissero che era sbagliato quello che aveva provato a fare. Lei non aveva nessuna colpa. Al che Madelyn annuì, abbassò lo sguardo, Tristan e Zoe se ne andarono.
La bella ragazza dai capelli biondi si ritrovò in una casa troppo grande per lei. Sembrava che tutto le puntasse il dito contro, che la insultasse e trattasse male. Si sentiva così stupida, così usata. Perché era fatta così? Perché non si riusciva a ribellare?
Pensò al ragazzo di quelli che presto sarebbero diventati i suoi incubi, non lo avrebbe affrontato, ne fatto altro. E aveva paura, ma voleva solo vedere fino a che punto si sarebbe spinto.
Adam e Phil, li trovavo sempre lì sorridenti e gentili. Ci passavo sempre la mattina.
Mentre la piccola Laura finì in ospedale, per la milionesima volta.
Leucemia linfoblastica acuta.
Non entro mai negli ospedali, mi fanno paura in un certo senso e non mi piacciono. Perché possono trasformarsi nel posto più felice del mondo oppure semplicemente in morte. Una morte che comprende tutti, non solo i pazienti, che crea uno stato di agonia così spesso e pesante, che nessuno riesce ad evitare, lì dentro.
Perciò, cosa successe nell'ospedale, tutte quelle volte, non l'ho mai saputo. Fatto sta, che Laura, tornava sempre a casa; magari dopo una o due settimane, però tornava. Il che voleva dire che le cure andassero bene, e che lei aveva tempo, e che la signora morte, anche se rimanesse costantemente in agguato, aspettava; ancora un po'.
Quel giorno, ero seduta su una panchina nel cortile dell'ospedale e indovinate chi vidi entrare? Jordyn! Si, proprio lui. Era insieme ad un signore grasso e imbronciato: lo zio. Aveva in mano una cartellina trasparente con dentro dei fogli bianchi. I due non si parlavano, né tantomeno erano felici di trovarsi dove erano. Jordyn aveva un'espressione seria in volto, e totalmente disinteressata.
Dopo circa mezz'ora erano già di ritorno. Jordyn teneva un pezzetto d'ovatta appoggiata all'incavo del braccio, mentre pigiava delicatamente. Devo dire che ero stata letteralmente in ansia, il pensiero di entrare lì dentro per capire cosa stesse succedendo a Jordyn mi aveva attraversata non poche volte; eppure si era trattato solo di un prelievo.
Li seguii pregando per Laura. Seguii attentamente i loro discorsi.
"Beh, era un'incapace allora!" esclamò il ragazzo.
"Ma smettila, hai quasi diciotto anni e ti lamenti come se ne avessi dodici: è solo una puntura." Lo zio si dava troppe arie.
"Ne ho quindici, zio. Quindici fottuti anni." Jordyn si girò dalla parte opposta e iniziò a camminare. Io seguivo tutta la scena. Mi feci più vicina allo zio, che d'improvviso era stranamente divertito e di buon umore.
"La macchina è dall'altra parte quindicenne."
"Beh, prendila te e va a casa. Ti ho preparato la stanza degli ospiti. Io ho delle cose da fare."
"Sei sotto la mia sorveglianza lo sai? Se ti succede qual-"
"Basta, okey? Non mi succederà nulla. Non sono un pupo."
"A volte sembri esserti dimenticato di Aileen." Quasi sussurrò lo zio.
Jordyn si girò pallido in volto. Ritornò quello sguardo apatico di sempre e la rabbia svanì. Era da molto che non provava emozioni vere e belle, a parte il costante dolore.
Poi prese fiato. Io rimasi col fiato corto, stavo per scoprire la verità. Invece disse solamente,
"Fa come ti ho detto. Ho delle cose da fare."
Si girò, e attraversò la strada. Lo zio sospirò, un sorriso malinconico gli si dipinse sul viso pieno ed entrò in auto. Poi sparì, mentre io ero già dietro a Jordyn. Camminava veloce, feci quasi fatica a stargli dietro.
Un leggero fiatone si aprì tra me e il mio respiro. Poi ecco un semaforo, riuscii ad affiancarlo e a regolarizzare il mio battito cardiaco. Guardava tutto, ma non vedeva niente. Era così preso dal dolore che lo logorava ma allo stesso tempo non lo sentiva completamente, come se ci fosse abituato.
Una parte di me voleva aiutarlo, ma per quanto io mi facessi vicina a Jordyn, lui indietreggiava. Prima due passi avanti, e poi cinque indietro. Non c'erano progressi nella sua vita, non c'era armonia, né voglia di cambiare le situazioni, di ribaltarle.
Scattò il verde e riprese quella corsa insieme al vento, ai passanti e alle macchine che si muovevano veloci per le strade spaziose e confusionarie. Una parte di me sapeva dove sarebbe andato.
Ci ritrovammo, infatti, nel vicolo. Adam e Phil non c'erano; mi chiesi dove potessero essere.
In un attimo mi ritrovai catapultata nel negozio "Tutto arte, H."
Jordyn era ancora spento, e c'era una giovane commessa alla cassa che arrossì guardandolo. Lui non ci badò.
Rimanevamo fermi, aspettando qualcosa, un semplice segnale da parte di qualcuno.
Poi la vidi. Vidi colei che regna nei sogni di Jordyn, e colei che è stata il tassello dolente per il bel ragazzo. Il problema è che, quando entrammo in quel negozio, lui ancora non lo sapeva.
"Ciao, posso aiutarti?" la sua voce consumata dall'età pronunciò quelle parole. E mi sembra che la vidi sorridere presentandosi al ragazzo, come se avesse già previsto tutto.
Oppure era stato tutto frutto della mia mente.
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