9. FIDATI DI ME




8. FIDATI DI ME (parte 1)

Si avvicinò a me: "Spara dai!"

"Ho paura che la prossima estate tornerò e tu" – pensai a ciò che stavo dicendo – "Tu, Ale e la sua famiglia, non ci siate più."

Lui mi mise un braccio intorno alle spalle, lanciando la coppetta del suo gelato verso un cestino, centrandolo al primo colpo.
"Sofia, ci sarò tutte le estati che vorrai. Fidati di me."

Ed io lo feci, mi fidai di lui, delle sue promesse, partendo qualche giorno dopo con Paolo, lasciando i Mangiaterra per nove mesi e mezzo.

I mesi successivi non li rimembro bene, furono totalmente inutili, vuoti, senza il minimo spessore se non l'ansia per l'esame di terza media, che sinceramente, fu più semplice di un'interrogazione comune.
Questo fastidioso dettaglio di fine scuola secondaria di primo grado però ebbe delle conseguenze: i miei genitori come 'regalo', senza chiedermi nulla, vollero portarmi per l'estate del 2011 in viaggio, un biglietto di andata e ritorno per l'Inghilterra - ben due settimane.

L'unica cosa che chiedevo io era di partire subito per Spezzano Albanese, per rivedere quel volto, di Michele, che ormai non riuscivo più a memorizzare da Dicembre.

Persino Paolo era rimasto poco nella mia vita, dopo tutte le promesse che ci eravamo fatti, eppure la scuola mi aveva allontanata anche da lui.
Ma speravo in cuor mio che Paolo ci credesse ancora alle mie parole, per qualsiasi cosa ci sarei stata, gli volevo ancora un bene infinito, un'amicizia che si era finita di costruire con il ritorno da Spezzano Albanese l'anno prima.

Ci ricordavamo a vicenda quei giorni caldi, la piscina, sottolineando che più giorni passavano e minore era la distanza per rivivere quei luoghi.

Conobbi soltanto nei mesi successivi, che terminavano il 2010, quanto profondo fosse stato l'attaccamento di Paolo a quel paese della Calabria.
Provò persino a ricopiare l'accento dei paesani, fin quando la memoria glielo concesse.

Qualche giorno prima del mio volo per Londra gli lasciai una lettera al solito posto, quello vicino alle rose di mia nonna, chiedendogli di trovarci lì alle sei di sera.

A Natale, i miei genitori, mi avevano donato il mio primo cellulare, uno di quelli che ora verrebbe scambiato per preistorico, ma che all'epoca invidiavano tutti, aprendosi di lato con una tastiera minuscola e richiudendosi per lasciare in vista il solo schermo intero, touch, comodo e tascabile.
Oggi viviamo in periodi in cui vige la regola del 'io ce l'ho più grosso', abbiamo lasciato da parte la comodità tecnologica e siamo passati all'ostentazione, e chi rimane indietro di anche solo un anno dall'ultimo modello, di qualsivoglia diavoleria, è uno sfigato.

Paolo nemmeno all'ora possedeva ancora un telefonino, ma lui era sempre stato abituato ad essere fuori dal mondo, mentre io, per quanto riguardava i mesi scolastici, ci convivevo a pieno, mascherandomi in una semplice quattordicenne di terza media.
Cellulare, abbigliamento più curato, ceretta – che avevo iniziato a fare – e mascara sulle ciglia.
Penso proprio che sia stato questo mio netto cambiamento, visivo, a distaccare Paolo da me, ritenendomi forse una come le altre, distante dalla ragazza dei Mangiaterra.
Perché sì, questo era il nomignolo che mi aveva dato lui: la ragazza dei Mangiaterra, oppure ero 'Wendy', un personaggio di un noto libro che io ancora non avevo letto, ovvero Peter Pan.

Già la lettura, cosa futile quell'anno, un anno in cui dopo essermi stretta le meningi su Storia, Matematica e Geografia, non ne potevo più di leggere, ma passavo piuttosto le ore su Facebook, con il mio nuovissimo profilo, giunto in concomitanza del nuovo cellulare.
Se non stavo davanti al pc o al telefonino, allora il mio miglior passatempo era fissarmi allo specchio, spremendo i miliardi di brufoli che avevano deciso di invadere la mia fronte, per poi piangere, perché mi sentivo improvvisamente un cesso.
Nacque persino 'l'ansia da armadio', ovvero quel orrido momento della giornata in cui ti inginocchi davanti al enorme mobile, rigorosamente con le ante aperte, e semplicemente impazzisci, perché non hai la più pallida idea di che indossare.

Era stato davvero un anno di merda questo 2011, con i rapporti più effimeri ed insulsi che avessi mai stretto nella mia vita, quell'accozzaglia di inetti nella mia classe, pronti a pugnalarsi alle spalle o dimenticarsi appena terminato l'esame orale.
Ma nonostante questa mia accettazione della modernità, dentro di me ripetevo sempre quella frase: la mia anima a Spezzano Albanese, per sempre.

Per questo dovevo tornarci subito, per risentirmi umana, viva, lontana da tutti quei fronzoli tecnologici che mi avevano rimbambito la mente.

Che strazio non aver passato l'autunno – la mia stagione preferita – con Michele e gli altri, tutti insieme. Chissà di che colore erano divenute le foglie della selva in Ottobre, rosse e arancio, gialle e castane.
Potevo solo sognarle, attaccandomi ai ricordi con Paolo finché anch'egli non sparì.
Eppure, alle 18:00 in punto, era tornato da me, davanti alle rose della nonna. Per raggiungermi alzò la rete tagliata e rovinata, che ci divideva; lo avevamo fatto insieme quel danno, creando un foro per poter scivolare tra un giardino e l'altro con più facilità e soprattutto di nascosto.
I miei genitori non lo sapevano, pensavano fosse stato Lollo, quel cane sfaticato che non voleva fare altro che mangiare e sedermi vicino dolcemente.

In realtà era tutta opera nostra, mia e di Paolo, tagliando e tirando i fili più bassi della rete, creando un piccolo varco in cui lui – meglio di me – riusciva a passare da sotto, piccolo com'era. Era divenuto piuttosto agile, aveva imparato a farlo anche di notte, saltando poi sul muretto dall'altro lato del mio giardino, quello che gli donava una vista dall'alto dell'eden di mia nonna.
Vi camminava sopra, arrampicandosi, poi, sul terrazzo di casa mia che copriva, come un tetto, la cucina al piano terra.

Ci trovavamo sempre lì a Ottobre e Novembre, la notte, guardando le stelle o le nuvole, a volte persino la nebbia, ma ci ricordava di Spezzano Albanese farlo.

Finalmente lo riavevo vicino, il mio caro amico, nel mio giardino, vicino alle rose, ci abbracciammo forte ed io iniziai a piangere.

"Guarda che lo so" – disse – "Lo so che ti mancavo ma sapevo anche che avevi gli esami. Io poi ho orari severi, con le mie lezioni nella parrocchia, mica era semplice!"
Risi schizzando le lacrime su tutta la sua spalla, stringendolo ancora di più: "Che scemo! Piango per altro, non sono una che si fa questi problemi, ti ho fatto una promessa di amicizia e la rispetterò per sempre, che ci si veda o meno."

Si ritrasse indietro di un passo da me, con aria stupita e mezzo sorriso: "Allora perché piangi?"

Gli spiegai ogni cosa, il mio bisogno di Spezzano Albanese, la mia cotta di Michele che ormai era palese anche ai muri, il mio odio per il paese del Nord e la sua scuola, la mia anima lasciata al Sud e il maledettissimo regalo, di fine esami, dei miei genitori: Londra e l'Inghilterra.
"Partiremo a fine Luglio capisci? Potremmo stare solamente un mese a Spezzano!"

Gli stavo urlando contro, conscia che mia madre stesse in casa, ma volevo sentisse, che provasse dispiacere e strappasse i biglietti aerei.

Ma Paolo seppe stupirmi come sempre, con la sua aria nostalgica che no, nemmeno dopo quei mesi e il suo aspetto cresciuto, aveva perso: "Tu parti a fine Luglio. Io non penso sarò ancora vostro ospite. Capisci anche tu che una volta è una gentilezza e la si accetta, poi è sfruttare la gente, no?"

Lo guardai con aria arrabbiata e urlai ancora più forte: "No! Sei pazzo?! Tu verrai con me lì, è anche il nostro rifugio quello in mezzo al bosco! Hai capito?! Nostro!!"
"Calma Sofia, ti prego non urlare ..." – si allontanò di un passo ancora, sempre più vicino alla rete.

Mi prese il panico, lo vidi come un gesto per squagliarsela da me, così gli presi la maglietta, trascinandolo verso il mio corpo, singhiozzando pesantemente: "Non mi abbandonare Paolo!"
Di nuovo un abbraccio ad unirci, con il suo corpo gelido come lo era mia madre, quel freddo che riusciva a rilassarmi: "Se vorrai io starò con te. Ok? Ma ora calmati Sofia!"

Mi ero già tranquillizzata, anche se le lacrime non smettevano di scendere, ma questa volta cadevano per la felicità. In quel momento – ne sono certa – pensai che senza Paolo, nella mia vita, nulla poteva funzionare, ma fortunatamente egli c'era, esisteva, nonostante i mesi passati lontani, era ancora la mia ancora di salvezza in quell'esplosione di ormoni e sentimenti in delirio.

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