9. FIDATI DI ME (6.0)
Ci ritrovammo tutti i giorni, ma man mano che i pomeriggi in compagnia aumentavano e meno cose da dirsi c'erano.
Alla fine ci rendemmo tutti conto che qualcosa era cambiato, si era spaccato qualcosa nella compagnia. Il primo a sparire, non venendo più, fu Ale.
Come incolparlo? Ale era l'unico senza una ragazza, solo, tagliato fuori da tutti. In fondo lo era sempre stato, ma quell'estate la sensazione di invadenza doveva risultargli troppo alta.
In fine non andammo più al rifugio nemmeno io e Paolo, stando in piscina per i cavoli nostri, passando la notte staccati, senza più abbracciarci, così che io fossi incapace di addormentarmi bene, ancora con il cuore sofferente, pieno di lacrime da sciogliere.
Ma fuori ormai tutti sapevano che eravamo una coppia di innamorati.
Paolo mancò qualche pomeriggio e una sola sera, sapevo che stava da Giulio e Maria. Di me, se qualcuno avesse chiesto, avrebbe semplicemente risposto che soffrivo un forte mal di pancia.
Il mattino dopo fu lui a propormi di andare in centro: "Ci aspettano tutti Sofia! Ti prego, vedrai che ci divertiamo! Fingeremo di stare insieme, balleremo con gli altri ragazzi del paese, non saremmo sempre con Ale e Michele. Ti serve uscire da questa stanza."
Mi parlava come fossi una malata, una che soffriva per volontà, per scelta, così accettai. Pensai che per un po' nessuno si sarebbe fatto strane domande nei miei confronti, mi bastava sorridere per qualche ora, muovere i piedi a tempo con la musica e mescolarmi tra tante facce tutte uguali.
Paolo era così felice che fece un salto quasi fino al soffitto della camera da letto, balzando sopra il letto.
Fui contenta, gli avevo fatto finalmente un regalo di ringraziamento per tutta la sua disponibilità: povero amico mio, dovevo pensarci io a lui, curarlo portandolo ogni estate con me, allontanandolo dalla solitudine; invece era stato proprio Paolo a salvarmi in quei giorni, era lui che aiutava me, mentre io lo portavo a fondo con la mia anima tormentata, la stessa anima che avevo legato per sempre a Spezzano Albanese.
La sera mi feci bella, con il mio solito trucco leggero – ma che allora mi pareva elaborato ed artificioso – rendendomi conto solo in quel momento che non mi spalmavo una BBcream, o del mascara, dal giorno in cui avevo visto per la prima volta Michele e Tiziana.
Guardandomi allo specchio rividi la ragazza del Nord, un po' arrossata, ma ero di nuovo lei, la ragazzina snob seduta dietro un banco.
Volli struccarmi, mi facevo orrore, ma non avevo tempo, inoltre mi sentivo già abbastanza paranoica.
Indossavo il mio abito più bello, un vestitino a righe orizzontali blu e bianco: perché il blu era già il mio colore preferito, il colore più elegante del mondo. Il colore della notte.
Misi le mie converse basse e nere ed aspettai Paolo scendere; attesi così tanto che alla fine urlai: "Ci metti più di una signorina!"
Ecco, era arrivato il giorno in cui mi sarei autodefinita 'signorina', e mi feci male, tanto male da sola.
Sentii i passi di qualcuno scendere, ma non era certo Paolo a calpestare il suolo con tanta prepotenza: era mia madre che mi indicava di seguirla di sopra.
Entrammo insieme in bagno, dove Paolo era disteso a terra, con la testa dentro la vasca in ceramica con le zampe di leone.
Piangeva, tenendosi le braccia sopra la nuca, mi avvicinai a lui e chiesi: "Che succede Paolo?"
Solo standogli vicina mi accorsi della tinta che gocciolava dai suoi capelli, un tempo bianchi, ma ora grigi come quelli di un vecchio.
Non sapendo che fare, in quel silenzio spezzato dal suo solo singhiozzare, mi appoggiai alla sua schiena per confortarlo.
Mia madre ci lasciò soli, e lui prese a parlare: "Ho provato a farli normali, li volevo neri e basta. Però il colore ... maledizione! Il colore non attacca sulla mia testa del cazzo!"
Lanciò la scatola della tinta per capelli contro il bidè. Io lo alzai con forza dalla vasca e lo guardai dritto negli occhi: "Sì. Sei proprio una testa di cazzo! Io non ti voglio diverso capito? Non devi esserlo per nessuno. Non è così il Paolo che conosco. Il Paolo che conosco se ne infischia del pensiero degli altri!"
Presi un asciugamano ed iniziai a strofinarglielo in testa, il colore non smetteva di venir via, lasciandolo con delle ciocche grigie e altre bianche.
Al resto ci pensò mia madre, completando il suo look con un cappello di mio padre: "Domani sistemeremo il danno Paolo. Per oggi tieni questo."
Eravamo pronti a partire finalmente, ma solo finché io tenevo stretta la mano di Paolo. Sentivo che se l'avessi mollata, quella sua fragilità, sarebbe riemersa, con tutta la sua malinconia struggente a cui non sapevo proprio resistere.
Arrivammo in centro senza sapere dove girarci, mia madre fu subito assillante inviandomi un messaggio con su scritto 'Scrivimi quando arrivate', ma io le risposi com'era giusto fare, permettendomi un commento a voce alta, lontana sicuramente dalle sue orecchie: "Che sbatti."
Paolo mi strinse la mano, spingendomi dietro di lui: "Eccoli li vedo!"
Indicò Michele e Ale, seduti sulle sedie fuori, in un bar, sotto gli ombrelloni aperti, con il logo di chissà che gelato, ormai sbiadito dal tempo.
Ci sono ancora, incredibile come nonostante il tempo passi le cose restano sempre le stesse. All'epoca li trovai ripugnanti, con quelle balze sui bordi, il giallo che divorava il bianco del telo, eppure oggi sono un punto focale, un ricordo, la bellissima memoria di quella serata piena di emozioni.
Fui fredda inizialmente, quando ci sedemmo con loro, disgustata dalla nube di fumo che ci circondava. Non sapevo avessero iniziato a fumare, mi chiedevo se Giulio fosse d'accordo con questa loro scelta o se come molti si nascondessero dallo sguardo dei loro tutori.
Avevano le facce perplesse, Ale ancora con gli occhiali da sole nonostante il sole fosse calato da mezz'ora, eppure la sua bocca serrata e seria parlava più di mille parole.
"Tutto bene?" – chiesi, perché mi venne spontaneo.
"Non si fanno domande tra i Mangiaterra." – rispose lui sforzandosi di sorridere.
Attaccò Michele: "Come se valessero le regole ormai."
Ci fu silenzio per un minuto buono, mentre io giocherellavo con il telefono, pur di non osservare quei musi lunghi ancora, imbarazzata dall'aria gelida che avevano creato, in opposizione al caldo di fine estate.
"Che sigarette sono?" – chiese Paolo, e gli fu concessa una risposta, senza zittire il suo semplice domandare, a differenza mia. Mi sentii un'estrania, la sedia di plastica su cui stavo seduta mi sembrava allontanarsi da loro, con me sopra, portandomi via al centro della piazza, guardandoli distante, senza riuscire a capirli.
Infine si misero a fumare tutti e tre, Paolo compreso, tossendo al primo tiro, passandomi la sigaretta in mano – senza darmi il tempo di rifiutare – scappando in bagno per bere dal lavandino.
Fu in quel momento che Michele mi assalì, perché evidentemente, non aspettava altro che fossi sola, senza più la mia spalla fidata vicino, così allungò il busto verso di me, spingendo di poco anche il tavolino che ci separava: "Quando pensavi di dircelo? Te e Paolo, bello. Peccato che non vi siate dichiarati prima di questa estate."
"Che vuoi?" – chiesi sbuffando – "Vuoi litigare? Qual è il problema tra me e Paolo?! Non mi sembra ci siano complicazioni nell'avere qualcuno vicino. Tu hai Tiziana! Nessuno si è mai lamentato."
"Tiziana non sei tu!" Urlò, ritirandosi con le braccia conserte e la bocca incrociata.
Non riuscii a dire più nulla, le sue parole furono un colpo al cuore e non seppi decifrarle. Mi alzai, passando la sigaretta di Paolo ad Ale, ed entrai nel bar.
Volevo andarmene subito, il prima possibile, recuperare il mio amico e tornarmene in casa.
Paolo stava ordinando da bere al bancone, io la raggiunsi con le lacrime che mi patinavano gli occhi, ma non mi volle ascoltare. C'era tanto rumore dentro, lo schiamazzare della gente, i bicchieri che battevano, la televisione accesa, e le mie parole che erano deboli, soffocate, uccise da quella frase di Michele.
"Che hai detto Sofia? Vuoi una Pepsi? Una pepsi per favore!" – ordinò al barista.
Dovetti tornare fuori con la mia bevanda gassata tra le mani, con la testa bassa e il cuore a mille.
Ci risedemmo al tavolo, Michele non c'era più, ed io mi sentii improvvisamente sollevata e per qualche strana ragione in colpa.
Paolo subito si irrigidì, continuando a guardarsi intorno, Ale lo seppe calmare: "E' andato a prendere altre sigarette. Ci raggiunge dopo al White."
Il White, la discoteca di Sibari, in riva al mare, un luogo in cui nessuno di noi, lì presenti, poteva metterci piede, perché minorenni.
Eppure quella notte ci passò a prendere, con la sua macchina, un amico di Ale, uno sconosciuto di vent'anni di nome Claudio.
Claudio venne alle undici di sera, orario in cui io speravo di poter finalmente incamminarmi verso casa, ma l'entusiasmo negli occhi di Paolo non mi diede tregua, trattenendo le mie richieste di rientro e sopportando tutto e tutti.
Claudio era un ragazzo veramente brutto, con le borse sotto gli occhi di un viola-grigio, scavate nonostante la faccia e la corporatura tozza; una barba riccia e i capelli corti, neri e lisci che li pendevano di un lato.
Ma soprattutto, ciò che ricordo bene di Claudio – e di certo non lo aiutava con la bellezza – erano i suoi denti, le palette superiori staccate, che solo per me erano sinonimo di 'carino', perché anche Michele aveva i denti divisi.
Nonostante Claudio non eccellesse in quanto a estetica, nulla si poteva dire dei suoi vestiti: era firmato da testa a piedi, con un orologio al polso e una catena al collo, d'oro entrambi, che brillavano anche al buio.
Non era solo in macchina, c'erano anche due ragazze: una stava sul sedile anteriore, e la riconobbi subito, era Tiziana, vestita come una ragazza di almeno cinque anni più di lei, truccata come una matriosca e con i capelli cotonati. Truccata in quel modo pareva quasi più magra, ma il rossetto risaltava i suoi denti storti e gialli.
Non ci salutammo, ma poco mi importò, fui più concentrata sulla ragazzina che stava seduta dietro, obbligando così Paolo a sdraiarsi nel portabagagli per farci stare tutti.
Sono certa che si presentò mentre le sedevo a fianco, in mezzo ai sedili posteriori, eppure non ricordai per tutta la notte il suo nome: era bellissima, giovane, le avrei dato sedici anni; gli occhi castani, le labbra carnose, la pelle ambrata e abbronzata: peccato solo per i capelli neri, che ormai trovavo ripugnanti dopo aver conosciuto Tiziana ed i suoi peli scuri.
Sedemmo stretti, Ale non si decideva a raccogliere le gambe, costringendo me e la sconosciuta a toccarci e sfiorarci di continuo.
Indossava un vestito corto, ma meno succinto rispetto a quello della 'ladra'. Ma in particolar modo fui contenta nel vederla con delle converse identiche alle mie, in qualche modo quel dettaglio ci univa, diverse dalle zeppe che indossava la mia rivale seduta davanti.
Arrivammo a Sibari più in fretta che mai – di notte le strade erano vuote, se non per qualche motorino qua e là – scendemmo e Claudio ci salutò mentre andava a cercare parcheggio.
"Sofia, amore" – mi prese per un braccio Tiziana, rivolgendomi sfortunatamente la parola – "Così non ti faranno mai entrare. Metti almeno il mio rossetto come ha fatto la sorella di Claudio" – capii così di chi si trattava la bellissima ragazza che avevo avuto vicina tutto il tempo, in silenzio – "Altrimenti ti prenderanno per una ragazzina." – concluse Tiziana senza mai guardarmi in faccia.
Nuovamente accettai, ormai quella notte ero in balia degli altri, completamente assoggetta dal loro volere, pur di rendere piacevole le ore che trascorrevamo.
Quando Claudio fu di ritorno ci spingemmo tutti verso il club, una discoteca all'aperto, con le luci accese in modo che ci si vedesse bene in volto, lasciandomi notare che i più piccoli eravamo di certo io e Paolo.
In vero fu ben altro ciò che mi colpì, ovvero la lingua di Tiziana che si affondava su quella di Claudio.
Non riuscii a trattenere le parole, rivolgendomi ad Ale: "Michele lo sa?"
"Tiziana è fatta così. Lui lo sa."
Ma chi diavolo era questa Tiziana? Stava o non stava insieme a Michele? Il mio Michele, che pensavo mi avesse portato via nel giro di un'estate.
Oppure io, scioccamente, avevo frainteso le parole di Ale, poi le stesse di Michele, immaginando nella mia testa tutto e niente.
Qual'era la realtà? Non mi fidavo più di nessuno, scorgevo lo sguardo perso di Paolo, anch'egli probabilmente in preda alla confusione più totale.
Vi era una sola persona in grado di risolvere ogni dubbio, ovvero Michele, l'unico a non essere ancora presente e che io cercavo disperatamente tra la folla della coda, senza voler domandare nulla agli altri.
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