9. FIDATI DI ME (3.0)






Lo avevo già capito, ma volevo sentirmelo dire, anche se ora invece desideravo solamente tornare indietro nel tempo, fermando la nonna ancora prima che iniziasse il discorso, quasi fosse colpa sua se Michele aveva trovato l'amore.

Chi diavolo era? Dovevo saperlo, lo meritavo. Era davvero così? In fondo era tutto nella mia testa il nostro rapporto speciale, per lui io non ero altro che una Mangiaterra, una compagna di avventura, non certo una cotta estiva.

Ma io mi ero spogliata dinanzi a lui, avevo sentito il suo corpo sul mio sott'acqua; mi aveva stretto a sé mentre mi salvava dal buio, mi aveva presa per mano trascinandomi in giro per il paese. Perché? Perché Cristo? Perché mai doveva comportarsi così con me se non mi desiderava vicina a lui per sempre?

Maledii la piscina, la odiai, era colpa di quella buca in giardino, piena di acqua, se avevo conosciuto Michele.

Uscii dalla stanza e iniziai a correre, con la mia borsa in mano, verso il bosco, cercandolo, mostrandogli il mio volto scosso per l'amara notizia, pregando ogni Dio che non fosse vero.
Avevo così tanto sognato quella estate, creandomi così tante aspettative, da non considerare i mesi passati lontani ed il mio ritardo.

Se solo fossi arrivata prima, un mese prima, senza quell'inutile viaggio a Londra, ora sarei stata io l'amata di Michele. Mi convinsi di questo e detestai i miei genitori per il loro regalo – di merda.

Giunsi nelle vicinanze della casa abbandonata: la prima cosa che vidi fu un cartello, che scalciai con cattiveria, piangendo e urlandogli contro.
Lo abbattei con un colpo secco di piede, quel cartello del cazzo, con la sua scritta che pungeva, feriva come una lama in petto: 'VENDESI'.
Vendesi, no, non la mia casa, non la mia terra, non quel luogo.

Mi prese qualcuno da dietro, pensai fosse Paolo, e mi dimenai per allontanarlo, infierendo un secondo calcio all'avviso di vendita, lanciandolo verso l'abitazione.
Mi feci più male io, ma in quel momento stavo buttando fuori un altro dolore, il male della perdita: quella di Michele, della mia prima cotta, e di quel posto meraviglioso che avevo ormai rilegato come di mia proprietà.
"Vuoi stare calma Sofia?!" Mi urlò contro una voce adulta, calda, rude, diversa da quella di Paolo.

Era Ale, che mi teneva ancora con le sue braccia, guardandomi con la faccia verso il basso – alto com'era.

Mi voltai verso di lui, schiacciando il naso sul suo petto e piangendogli contro. Ero divenuta una piagnona isterica di prima categoria, così tanto da lasciarmi andare alla stretta di Ale, che tra tutti, era quello a cui l'anno prima non mi interessavo minimamente, né mi sarei mai immaginata di stargli così vicina.

"Non state proteggendo questo posto!! Siete degli stupidi!" Gridai a più non posso.
Ma Ale fu più sveglio di quanto non avessi creduto: "L'hai saputo. Di Michele."
Pareva si stesse parlando di un morto, di una partenza senza ritorno, di un addio non concesso, eppure il dolore che provavo in quel momento ci si avvicinava molto alla sensazione di abbandono.

Mi staccai da lui, fuggendo dentro il rifugio dei Mangiaterra, ignorando il richiamo di Ale.

Stavano uscendo, forse perché scossi dalle mia urla: Michele e la sua ragazza, una ragazza dai capelli neri, la pelle insolitamente chiara per quelli di Spezzano, le sopracciglia finissime ed i canini pronunciati.

Per me era solo una cosa quella ragazza, una ladra, una bastarda che mi aveva rubato il posto.

"Ben ... Bentornata Sofia" – disse, deglutendo, Michele.
Io seppi solo rispondere: "Vaffanculo."
"Chi cazzo sei?" – chiese la ladra – "Chi cazzo è questa stronza?"

Cercai di colpirla con la borsa, ma fui poco agile, mentre ella riuscì con una manata a farmela cadere per terra. Improvvisamente ricordai la bastonata ricevuta da Paolo l'anno prima, probabilmente nello stesso periodo.

Bobo uscì dalla manica dell'accessorio, e mentre io accorrevo per raccogliere tutto, sentii le loro risate, sia della ladra che di Michele. Ridevano di me, della mia stupidità, del mio essere piccola rispetto a loro, del mio Bobo, della mia fragilità.

Così, proprio come una matta, feci l'unica cosa che mi poteva proteggere da quell'insensibilità: scappai via, nascondendomi negli uliveti del nonno, con le lacrime che si tingevano di nero per via del mascara, sporcandomi l'abito bianco a pois rossi che indossavo.

Tenevo stretto tra le mani Bobo, mordendogli forte un orecchio, come quando ero piccola, soffocando i singhiozzi dovuti dal pianto.

Aveva ragione la nonna: "non tornare", questo aveva detto, e dovevo darle retta. Ma io questo ero, un'ingrata, cocciuta, permalosa e stupida. Sì, stupida, perché scioccamente mi ero attaccata a dei sogni, ignorando la realtà, finendo per ferirmi.
Il mondo vero? Il mondo vero era una merda, ove solo la modernità, il correre incontro ai successi, al lavoro, lontano dai sentimenti – come si faceva in Nord – riusciva a farti sopravvivere.
Allora dovevo semplicemente accettare quel tipo di pensiero, così da potermi finalmente integrare con i Settentrionali, congelando per sempre il mio cuore, dimenticando Michele, Spezzano, la mia anima, e tutte quelle promesse che erano state schiacciate, come il cartello 'vendesi' abbattuto poco prima da me.

Avevo intravisto Paolo nel bosco, mentre fuggivo da Michele e tutti gli altri.

Sempre Paolo mi ritrovò, ancora tra gli uliveti, un'ora e mezza dopo, stringendomi forte, nel suo abbraccio calmante, diverso da quello di Ale che non mi aveva regalato alcun riparo.

Attaccata a Paolo, fu come riprendere il respiro dopo un'ora e mezza di apnea.
Stemmo così tanto, talmente tanto da farci avvolgere dal  tramonto di fine Luglio, mentre io macchiavo anche la pelle candida di Paolo con il mio makeup colante.

Mi aiutò ad alzarmi, tutta sporca di terra, avviandoci finalmente per casa.

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