9. FIDATI DI ME (2.0)







Tornai da Londra, più contenta del previsto, felice di aver viaggiato e visitato una città così moderna. Assurdo, la stessa modernità che rinnegavo a casa, per qualche motivo, a Londra veniva da me vissuta come positiva, interessante e di ispirazione.
Probabilmente era la natura bizzarra, classica e contemporanea allo stesso tempo, che si respirava in ogni strada della capitale Britannica.

Per una ragazza intenta a frequentare il Liceo Artistico si trattava di un luogo da memorizzare bene, pieno di stimoli e persone aperte, con caratteri forti e sinceri.

Ma la mia inarrestabile voglia di Spezzano Albanese non si era affievolita, mamma lo comprese solamente il giorno della partenza, notando il mio sorriso stampato in faccia per tutto il viaggio.
Per la prima volta montavo davanti in macchina, papà non scendeva in Sud, restava a casa per lavoro con Lollo, mentre Paolo veniva con noi: sedeva dietro con i bagagli.
La nonna come ogni anno era partita a Luglio, prima di tutti, questa volta di un mese rispetto a noi.

Tenevo tra le braccia una borsa, capiente, nuova anche quella, presa a Londra. La mia prima borsa da 'signorina', che per qualche strana ragione mi piaceva portare, nonostante la ritenessi un oggetto per adulti.
In qualche modo stavo accettando la mia crescita, era inevitabile, ma ci tenevo a distinguermi, rimanendo in qualche modo legata al passato che già dimenticavo in fretta, senza accorgermene, scordando i giochi, i compiti in classe o le ore di disegno libero delle Elementari.

Tutto improvvisamente nel 2011 appariva distante, ma per fortuna c'era il contenuto della borsa, ciò che vi avevo messo dentro, mi riportava alla mia dolce età, ed erano tutte cose importanti: la mia tessera della biblioteca, fatta quando avevo dieci anni, poi il libro della nonna 'Peter Pan', che speravo di iniziare quell'estate; infine il più stupido ma allo stesso importante oggetto, ovvero Bobo, un orsacchiotto grande quanto la mia mano, che avevo sin da piccola.
Era distrutto, la notte lo stringevo, ci dormivo sopra o gli mordevo le orecchie per rilassarmi, una sorta di ciuccio da cui non potevo proprio staccarmi.
Lo avevo sempre dietro, senza che nessuno lo sapesse, dentro lo zaino di scuola, nascosto tra i libri, ed ora nella mia borsa.

Però stava morendo Bobo, consumato negli anni, con il tessuto che si decomponeva facendo uscire tutta l'imbottitura di gommapiuma.
Volevo seppellirlo lì, a Spezzano, in quella casetta abbandonata. Non sapevo bene il motivo, non me lo chiedevo, ma se ci penso oggi lo so per certo: quello era il funerale della mia infanzia, incosciente di aver ucciso quella bambina che mi portavo dentro, accettando quella insana modernità, un'epoca in cui non puoi veramente essere bambino, devi subito trasformarti in un piccolo adulto. Io ero stata più fortunata di altri, per quanto breve mi fosse sembrata, una età giovane l'avevo avuta e non sentivo ancora il peso del mondo dei grandi.

Dopotutto Bobo era ancora con me in borsa quel giorno, vicino, pronto a proteggermi da ogni male.

Ma non sentivo più il dolore di niente, la stanchezza per il viaggio, la fatica per gli esami, la scuola, le mestruazioni, erano tutte cose dimenticate non appena ero montata in auto, sapendo dove sarei andata: finalmente da lui, dai suoi occhi verdi che tanto mi mancavano.

Arrivammo verso le tre del pomeriggio, svegliai Paolo che questa volta aveva dormito per quasi tutto il tempo, mentre io, oltre che sveglia, ero sudata da testa a piedi nonostante l'aria condizionata in macchina – ero tesa, nervosa.

Andai prima di tutto a farmi un bagno, cercando di darmi una sistemata per rendermi presentabile. Dopo essermi vestita mi appropinquai ad applicare del mascara sulle mie lunghe ciglia, ma ci pensai bene: "Non mi ha mai vista truccata."

Trovai che fosse interessante mostrare a Michele quanto ero cresciuta e forse divenuta anche più carina – nonostante gli orridi brufoli – così misi il mascara, mi accarezzai il volto con le mani sporche di una BBcream, e completai il trucco con un po' di blush.

Paolo era già corso alla piscina, non per tuffarsi, ma per rivedere tutto, gli uliveti, il giardino, la fontana, le palme, la selva.
Quando lo raggiunsi notai il suo sguardo lucido, mentre io mi trattenni dal piangere di fianco a lui, per non rovinarmi la base appena fatta sul mio viso. Dentro di me però volevo disperatamente lacrimargli sulla spalla, abbracciandolo come qualche giorno prima di Londra, dimostrandogli che anch'io, come lui, ero morta di gioia per essere di nuovo a Spezzano Albanese.

Volevamo correre dentro il bosco, ma preferimmo fare i bravi almeno per qualche ora, stando con la nonna a giocare  a carte – rigorosamente briscola.
Stavo per terminare la partita, raccogliendo ormai tutte le carte della nonna, e Paolo, che aveva perso subito, ci fissava. In quel momento la nonna iniziò uno strano discorso: "Sono venuti qui Sofia, li ho visti sai?"

"Chi?" Chiesi, ma immaginavo parlasse dei Mangiaterra.
"I bimbi sperduti, quelli dell'isola che non c'è. Penso vi stessero cercando per portarvi via da me ... ma voi dovevate ancora arrivare."

Non capivo bene le sue parole, né di che isola stesse parlando, ma capii che Michele era venuto a cercarmi, questo mi fece sorridere illuminandomi il volto.
"Ci hai parlato? Con i bimbi sperduti dico."
Domandò Paolo, con gli occhi sgranati e la faccia stupita.
"Oh no" – ammise la nonna – "Era notte fonda, lanciavano sassi sopra il terrazzo, suppongo per parlarvi. Ma nessuno rispondeva, nemmeno io che sentivo il picchiettare dei sassolini sopra la testa, sdraiata a letto."
"Li hai cacciati quindi ..." – sospettai.
"No cara, ho appena detto che non ci ho parlato" – non la stavo ascoltando attentamente in realtà – "Ma nel silenzio sentivo ogni loro parola, la prima notte sussurrarono persino i vostri nomi" – mi venne da piangere – "e nessuno rispondeva, giustamente."

Volevano rivederci, avevano probabilmente chiesto a Giulio in che periodo saremmo scesi al Sud, e ci erano venuti a bussare in casa, magari in modo disperato, preoccupati ci fossimo dimenticati di loro.
In quel momento sarei uscita dalla cucina della nonna, raggiungendo in un attimo il mio rifugio, ma dovetti trattenermi.

Poi la nonna aggiunse: "Li ho visti bene solamente la quinta notte, perché ero andata a fare quattro passi tra gli uliveti, non riuscendo a prendere sonno per l'afa.
Tornavano verso il bosco, un po' abbattuti, non trovandovi in casa. Me li ricordavo così piccoli, alti come lo ero io a otto anni quando li conobbi per la prima volta."
Pensai che stesse un po' delirando, oppure che stesse romanzando il suo racconto per renderlo più interessante, fatto sta che la lasciai continuare, pietrificata da ogni sua parola, solamente perché riguardava Michele.

"Erano usciti a cercare voi, usciti dall'isola che non c'è, correndo così quel rischio, quel tremendo pericolo che tanto ripudiavano ... diventare grandi, scoprendo il mondo fuori dal loro habitat.
Proprio così, i bimbi sperduti sono diventati dei ragazzi, forti, alti ma soprattutto tristi. Erano infelici quella notte, in particolare quello con i capelli chiari, come li aveva tuo nonno.
Strano non trovi Sofia? Il nonno è di origine Albanese, eppure sembra un principino tedesco, biondo e con gli occhi verdi, come quel ragazzo lì."

Stava forse intendendo qualcosa? Aveva capito che mi fossi infatuata di Michele? Come ci era riuscita? Ci somigliavamo davvero troppo, o almeno fu questa l'unica spiegazione che seppi darmi quel pomeriggio.

"Quel ragazzo, perdendo la sua innocenza, in cerca di una Wendy ed i suoi fratelli, era stato colpito dalla tristezza, lo capisci Sofia?"

Detestavo quando si rivolgeva solamente a me nonostante la presenza di Paolo, pareva rimproverarmi persino nella sua storiella.

Annuii e lei proseguì con lo spiegare: "Perciò il ragazzo dagli occhi verdi ha cercato  quello di cui aveva bisogno: la felicità. Penso l'abbia trovata sai? Però piccola mia, non avventurarti più nell'isola che non c'è ... altrimenti questa volta, quella che sarà triste, ho il timore che sarai tu."

Mi alzai di scatto, lasciando scoperte le mie carte sul tavolo, guardandola con sguardo infuriato, mentre Paolo abbassava il suo, osservandosi i piedi.
"Che intendi?! Parla chiaro!!" Gridai come una pazza.

"Piccola mia ... quel ragazzo si è innamorato."

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