7. ESTATE 2010







7. ESTATE 2010 (1/2)


Il giorno dopo non potemmo uscire. Mia madre ci aveva obbligati ad aiutarla con le faccende di casa, ancora arrabbiatissima per la sera scorsa.
Sapevo che avevo ragione, eppure ci misi poco a disubbidirle di nuovo: "Non uscite di casa sta sera. Guai a voi, capito?"
Questo mi aveva detto, mentre io e Paolo salivamo in camera nostra dalla cucina della nonna, ma quando sentii le loro voci, soffuse, a mezzanotte inoltrata, non resistetti.

Paolo dormiva, io no, non riuscivo, avevo quegli occhi verdi che mi giravano nella testa, facendola roteare, muovendo le pareti, allontanandole dal mio corpo, trasformandomi in una pedina nella mia stessa casa, mossa dalle emozioni e non dal buon senso.

Seguii quelle voci, uscendo di nascosto con le chiavi che mia madre scioccamente non mi aveva ritirato.

Avevo indosso soltanto una maglietta, come sempre, ma ormai la mia nudità non mi preoccupava. Ero stata svestita di tutto, degli abiti, della coscienza, del pudore, della paura, rimaneva solo quel mal di testa irrefrenabile, che mi faceva camminare verso la piscina tutta sola, senza rendermene conto.
Man mano che mi avvicinavo le voci sparivano, si erano dissolti nell'aria, così mi ritrovai lì sola, a guardare la mia ombra che galleggiava sull'acqua.

Mi sedetti a bordo della piscina, mettendo i piedi a stagnare, sospirando, liberando finalmente la mente. Strano, non so spiegare perché quel posto era divenuto così importante, lo avevo da sempre detestato, con la mia paura di affogare, eppure ora più che mai riusciva a tranquillizzarmi, dandomi pace ai tormenti che abitavano la mia mente.
Spesso mi ripetevo in quei giorni: 'Sofia hai tredici anni. Perché pensi a queste cose? Datti tempo, datti serenità, tranquillizzati.'
Quando poi finalmente mi davo ascolto arrivavano gli estrogeni a confondere le mie idee peggio di prima.
Mi buttai con la schiena sul terreno sabbioso del contorno piscina, tenendo i piedi immersi, vedendolo arrivare, tutto sottosopra per via della mia posizione.

Era Michele, che si avvicinava da dietro di me, con una camminata più timida del solito, con il volto che il chiaro di luna mostrava bene: un volto spaesato, probabilmente si chiedeva che facessi lì, ma non volli domandargli il perché di quell'espressione.

Mi alzai con il busto, aiutata da una sua mano, infine si sedette al mio fianco, con le gambe incrociate e la testa in alto, verso il cielo, come facevo io sul mio terrazzo. Ma lì, in quel pezzo di terra, si vedevano solo gli alberi che coprivano le stelle.
"Sono contento che sei venuta" – disse sottovoce – "Oggi siamo stati qui tutto il giorno, sperando compariste prima o poi. Ma, ogni tanto, c'era solo una signora che passava, fissando verso il bosco con sguardo cattivo. Per fortuna ci sappiamo nascondere bene."
Era sicuramente mia madre, glielo dissi e lui si mise a ridere, poi mi avvicinai strisciando con il sedere per terra, non sapendo bene cosa volessi comportandomi così.

Poi lo disse, spezzandomi il cuore: "Non dovremmo più vederci ho paura..."

Perché? Perché quelle parole? Perché usava così tanto parlarmi quella sera, rovinando il silenzio che era divenuto quasi sacro tra di noi. Ma soprattutto, perché voleva eliminarmi dalla sua vita?

"In fondo rimani ancora poco. Lo ha detto Giulio, a breve voi partirete tornando alla vostra quotidianità."
"Appunto perché resto poco, meglio passarlo insieme il tempo. No?" – lo dissi con la voce spezzata, frettolosamente, sperando di non perdere il fiato mentre il respiro mi aumentava.
"Io non sono una persona che i tuoi genitori si augurerebbero frequentassi."
"Quanti anni hai?" – sviai subito il suo discorso, quasi fossi non interessata ed in vero non capivo affatto il suo modo di parlare, volubile e spensierata com'ero a quell'età.

"Quattordici a Ottobre. E tu?"
"Tredici."

Rimasi stupita, pareva molto più grande di me all'epoca.
Chiusi gli occhi, e vidi la nostra crescita, mia e sua, nelle varie estati dove ci si sarebbe rivisti, sempre più grandi e forse anche innamorati un giorno.

Lo capii con quella visione, ero cotta di Michele, infatuata dalla testa ai piedi di lui, dei suoi capelli color cenere, i suoi occhi luccicanti dal colore dei prati, le sue braccia fini e venose, il suo petto sempre in fuori, le sue spalle spigolose ma ampie, le gambe robuste sulle cosce e secche sulle caviglie, con i piedi grandi e le unghie da tagliare, il suo pelo, il suo splendido pelo che aveva sul pube, come la chioma degli alberi lì intorno, scuri e aggrovigliati.

Era natura Michele, lo avevo compreso quando lo perdevo nella selva, mentre si mimetizzava perfettamente con la boscaglia o quando riusciva nella sua oscurità a portarmi fuori in braccio. Michele era semplice ed era ciò che mi aveva rapita di lui, diverso e lontano dai ragazzi della mia classe, di scuola, così improntati verso il mondo, divoratori di cieli, pronti a distruggere le cose belle della vita stessa.

Magari era questo ciò che intendeva, il fatto di non poterci frequentare, perché io nel suo immaginario dovevo apparire molto snob, distante anni dalla sua persona, pronta a rovinare la sua bellezza, la sua naturalezza sconfinata e inverosimile, perché per quanto rinnegassi i coetanei del mio paese al Nord, di fatto, lo ero anche io.
Una schifosa tronca alberi, una non credente, una con la puzza sotto il naso per il diverso, una respira smog, una macchina mangia sogni, non di certo una Mangiaterra.

Eppure io non volevo fare a meno della sua compagnia, ormai mi era quasi impossibile. Era stata quella cotta pre-adolescenziale a condurmi lì a mezzanotte passata, a dimenticare i patti e le regole della mia famiglia, a farmi sfidare me stessa riscoprendomi velocemente.
Michele era divenuto tutto e niente, un effimero momento importantissimo della mia vita, o per lo meno, di quell'estate.

Estate 2010, ripetevo nella mia mente, estate 2010 – non dimenticarla mai Sofia.
"Tutto bene? Se vuoi me ne vado già. Così mi dimentichi prima" – mi risvegliò dal mio sogno Michele, pronunciando questa frase.

"Non andartene. Né oggi né domani. Siamo amici adesso, no?" – mi guardò basito, poi vidi l'aprirsi della sua bocca per controbattere, ma fui più veloce di lui – "Anzi, nessuna domanda. E' la nostra regola. Siamo amici, qui lo dico e qui lo confermo."
Una bugiarda ero, davvero molto brava, perché sapevo bene di desiderare ben altro da lui, un bacio, una carezza, una estate infinita fatta solo di noi.

Annuì con la testa e mi sorrise, io ricambiai scoprendo i denti, poi mi avvinghiai al suo braccio come una stupida, appoggiando la testa sulla sua rigida spalla, pregando che mi stringesse a sé, ma non lo fece, rimase fermo come un sasso. Eppure, fissandogli il volto, lui manteneva sempre quel sorriso con le fossette.
"Però parlavo seriamente io ..." – volle continuare – "... tua madre forse non mi odia, ma tuo padre posso metterci la mano sul fuoco."

Mi staccai, insicura di non volerlo fare, da lui: "Non è vero. Non hai motivo per pensarlo, Cristo!"
"Invece sì." Rispose tornando serio e guardandomi con le sopracciglia arricciate, che erano scure come i suoi peli segreti, e folte.
"Ti dico di no. Non sai niente dei miei genitori! Potrei dire benissimo anche io allora che i tuoi parenti mi detestano."
Tirai fuori i piedi dall'acqua e raccolsi le gambe tra le mie braccia, restando seduta di fianco a Michele.
"Questo è impossibile. A mia mamma e mio papà non frega niente di quello che faccio e con chi sto." - mi disse scocciato, ed io sospettai di aver toccato un tasto dolente, in fondo non mi ero mai troppo domandata come mai dormisse molte notti da Ale, dove fossero i suoi famigliari, dove vivesse lui; io di Michele non sapevo nulla.
Ritrassi il volto rivolgendomi alla piscina, con l'atteggiamento di chi viene sgridato.
"Tuo padre ci ha inseguiti quella notte sai? Quella dove vi abbiamo conosciuto la prima volta. Ci ha corso dietro per il bosco, afferrando un bastone da terra per ammazzarci di botte!"
Stava alzando la voce, e lo feci pure io, offesa dal suo racconto e dal tono: "Menti. Mio padre è un medico, non farebbe male a una mosca! Sei un racconta balle!"
"Tu ascolti ma non capisci. Tuo padre mi vuole morto ti dico, solo perché ci avrà scoperti mentre stavamo a giocare nudi."

Ecco, quelle parole, parole che non andavano dette: ammettendolo aveva reso una cosa reale la nostra nudità, che fino a prima era apparsa come un'esperienza mistica, ora invece crollava nella sconcezza, con tutto il pentimento che non avevo saputo avere per essermi spogliata dinanzi a degli sconosciuti.
"Non ci ha visti ti dico! Sei solo un falso, racconta frottole. Ma poi, voglio dire, eravate voi in torto. Voi stavate nella nostra casa a fare gli affari vostri. Venite qui, nudi, senza vergogna, fate il bagno e ve la spassate in casa sua ... di mia nonna, ma dove vive anche lui. Dovreste ringraziare che non vi abbia davvero pestati il giorno dopo. Pensi che non sappia dove abitate? State qui dietro, Cristo!"
Mi ero di nuovo girata con la testa, rivolta verso di lui, alzandomi in piedi per sentirmi grande, con la voce inferocita e gli occhi in piena combustione. I miei occhi color ebano che parevano neri e vuoti quando mi imbestialivo.

Si alzò, mi mise una mano dietro la testa avvicinandola a lui, poi mi diede un bacio sulla fronte: "Buonanotte Sofia."
Se ne andò così, ed io rimasi lì per un'altra ora, sperando tornasse indietro chiedendomi scusa.

In quel lasso di tempo seppi trovare da sola le risposte: Michele era stato denigrato, incolpato di un gioco che avevo accettato e seguito con malizia pure io, ma ora gli avevo riposto tutto il carico sulle spalle, dandogli del falso, del maiale, del ladro e persino sfruttatore.

Ora restavo solo io con il risentimento e la solitudine di chi sbaglia.

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