6. PANE, OLIO E VINO (3/3)






Volevano passare direttamente alla seconda fase dell'esame, quando la voce di un uomo adulto intervenne da fuori. Chiamava Ale urlando, ma non era scontroso o arrabbiato, sentivo una potente quiete in quel grido, che ancora oggi non saprei spiegare.

Era Giulio, il padre di Ale, un uomo alto, gigante, di stazza grossa, spalle larghe, gambe fini.
Lo vidi una volta che entrò in cucina, dove stavamo tutti. I suoi occhi azzurri, non seppi subito collegarli a quelli di Ale, che erano uguali eppure solamente in Giulio riuscivo a scoprirne la purezza assoluta.
Ale era altissimo come il padre, ma gracile, lungo e magro come un grissino con la punta bruciata – i suoi capelli nero ebano.
Quei ragazzi dagli occhi chiari, sfumature del mare, Michele e Ale, due fratelli ma non di sangue.
Me lo disse Giulio dopo essersi presentato. Sapeva benissimo chi fossi, mentre io di lui non conoscevo niente.

Abitavano dall'altra parte del bosco, in una villetta più bassa ma simile a quella della nonna.
Giulio era un uomo spaventoso, terrorizzava il suo buonismo, la sua eccelsa gentilezza, un carattere così premuroso da apparire finto alle volte.

Eppure mi lasciai coccolare dalla sua generosità, mangiando i panini con la marmellata fatta da lui, di albicocche, dolcissima con i pezzetti non tritati.

Accettai tutte le sue carezze, che ci dava ad uno a uno, con la faccia sollevata e felice.
Pareva un angelo, pensai.

Mentre addentavo la merenda disse: "La nonna come sta Sofia?"
La conosceva? Allora perché la nonna non mi aveva spiegato che i 'bambini sperduti' altro non erano che dei vicini, un po' imboscati, della sua dimora?
Forse fu quel pensiero a non lasciarmi credere del tutto alla bontà di Giulio, qualcosa di oscuro mi tirava indietro, come se una voce nella mia testa dicesse in continuazione 'non fidarti, torna a casa, dimentica tutto'.
Sarebbe stato meglio, ad oggi ne sono certa, avrei vissuto meglio senza conoscere quei personaggi del bosco di Spezzano Albanese.

Giulio ci propose una gita, ma solo se avessimo ottenuto il consenso dai nostri genitori: volle portarci al mare di Sibari, insieme a sua moglie Maria.

Corsi insieme a Paolo all'uliveto del nonno, non perdendoci più per la strada, ci parve di aver già memorizzato ogni parte di quella boscaglia, come Michele e Ale che sembravano una parte stessa di quel posto.

Una volta superata la recinzione in legno, trovammo mia madre a bordo piscina intenta a leggere: "Mamma! Mamma!"

Lei mi rimproverò, vedendoci sbucare dagli alberi, zona a noi proibita da sempre.
Ma quando le dissi di Giulio parve calmarsi, come se lo conoscesse anche lei.
Riflettendoci bene trovai che fosse normale, lei sicuramente era al corrente dei pochi abitanti di Spezzano meglio di me.
Acconsentì a farci andare al mare, a patto che tornassimo la sera presto.
"Possiamo venire dopo cena? Ormai è pomeriggio fatto!" La scongiurai.
Annuì, chiudendo gli occhi afferrando le mie mani con le sue, calmando immediatamente il mio batticuore dovuto alla corsa appena fatta. Era il potere di mia madre quello.

Tornammo sempre a tutta velocità nel rifugio dei Mangiaterra, dopo aver raccolto i costumi, ma non c'era più nessuno.

Stemmo lì quindici minuti prima che Giulio, Michele e Ale sbucassero fuori dal fogliame.
In quel lasso di tempo, io e Paolo, girovagammo per la casetta, disperdendoci per le varie stanze.
Giunsi in una camera da letto del primo piano, c'era un armadio ancora intatto, come il tavolo della cucina.
Mi avvicinai alla finestra – senza vetri – e scrutai dall'alto quel luogo.

Pareva distante da Spezzano stessa, uno spazio di terra lontano da tutto, un sogno tutto mio, nostro, dei Mangiaterra. Fu in quel momento che mi convinsi a proseguire le varie prove che Michele ed Ale ci avrebbero imposto, volevo disperatamente entrare a far parte di quel gruppo.
Dimenticai per tutto il giorno, insieme a loro, che a breve me ne sarei andata, lasciandomi alle spalle tutta quella meraviglia. Non m'importava, volevo assaporare l'estate come un tempo indefinito, fatto di scoperte e rinascita, liberandomi da ogni catena del Nord. Che dico, anche del Sud stesso, perché in quel bosco non c'era appartenenza, eravamo noi la foresta stessa.

Inspirai con prepotenza l'ossigeno e mi voltai, pronta a continuare quel percorso senza domande ma solo risposte.
Prima di tornare al piano di sotto, dove sentivo i passi di Paolo percorrere il salone, volli aprire un'anta dell'armadio.

Vi trovai un diario dentro e non seppi resistere alla tentazione di sfogliarlo.
'Di Michele' citava la prima pagina, poi un susseguirsi di ricerche scoordinate tra di loro, alcuni passi della bibbia, descrizioni di piante, informazioni sulla coltivazione di
olive, uva, ecc.
Mi annoiò parecchio, quando finalmente non vidi qualcosa di interessante: una lista dei suoi libri preferiti. Erano solo due i titoli trascritti, ma già mi stupì il fatto che leggesse.

C'era un titolo a me familiare, 'Peter Pan', come la nonna – ed io ricordai di averlo nuovamente scordato sulla libreria in camera mia al Nord.
Il secondo libro invece era 'l'eleganza del riccio', che già conoscevo e detestavo. Era un racconto noioso, retorico, che non mi aveva insegnato nulla di nuovo né mi aveva catturato.
Non vedevo un nesso tra Michele e quel testo, sospettai li avesse letti per caso o per obbligo, magari a scuola, trovandoli più interessanti dei giornalini da quattro soldi.
Riposi il diario dove stava e scesi, sentendo le voci degli altri farsi vicine.

Partimmo pochi minuti dopo per Sibari, nella Cinquecento blu di Giulio, che ancora oggi non saprei dire come potesse starci lui dentro.
I finestrini davanti abbassati, scuotendo i miei capelli che colpivano Michele e Paolo ai miei lati, nei sedili posteriori.
Me li raccolse Michele, mettendomeli bene dietro la nuca, con un gesto delicato e caldo, perché sì, le sue mani erano bollenti. Diverse da quelle di mia madre, eppure, mi rilassò nello stesso modo quel contatto quando sfiorò il mio viso.

Lo guardai intensamente e lui ricambiò copiando la mia faccia, poi ci mettemmo a ridere, forse perché imbarazzati.

Maria, la moglie di Giulio, stava già in spiaggia con delle amiche e la figlia, la piccola Adele, sorella minore di Ale.
Quando venne a salutarci, Maria, sentendo il mio nome per intero – salve, sono Sofia B. – si congedò sul telo da spiaggia in modo freddo.

Non mi parlò per tutto il resto della giornata.
Ecco il nervoso che tornava, quello che avevo provato i primi giorni di ovulazione, così dentro di me dissi 'Che stronza'.
Eppure Giulio l'amava tanto, si vedeva chiaramente, scrutavo con i miei occhi da bambina quell'amore che già conoscevo, quello degli adulti, dei miei genitori, che si stanno vicini in silenzio ma pacifici.

Pensandoci bene, ora, non saprei dire quanto veri fossero quei sentimenti che studiavo da ragazzina, perché una cosa che ho scoperto, nel silenzio dei grandi, è che nascondono sotto al tappeto tutte le cose tristi, la rabbia e il risentimento.

La giornata a Sibari fu splendida, giocammo tanto tutti insieme, con dei costumi addosso, tenendo per noi segreto il fatto di conoscere già i nostri corpi nudi sotto quel poliestere cucito.
Michele mi afferrò molte volte quel pomeriggio, buttandomi in acqua con lui, come quella volta in piscina: quel giorno a Sibari, però, non mi arrabbiai mai, anzi, a volte ero io a cercarlo, sperando nel profondo del mio cuore che i costumi svanissero per magia, non appena mi toccava.

La sera arrivò maledettamente presto, due ore che sembrarono due minuti. Ci dovetti fare l'abitudine a questo scorrere del tempo, perché con Michele e Ale andava così, tutto finiva troppo presto e non ero mai sazia della loro compagnia.

Per fortuna c'era Paolo, che dormiva con me in casa, non lasciandomi mai sola.

Forse era questo il motivo di tanta felicità all'epoca: la solitudine non mi sfiorava in nessun momento, nemmeno per un istante, ed io ero immensamente grata alla vita per questo.

Avevo una sacca con me quel pomeriggio, mia madre aveva messo dentro una bottiglia di olio: "Dalla a Giulio, non ti lascio andare via a mani vuote."
Gliela porsi durante il ritorno in macchina. Con quel gesto gli venne una seconda splendida idea: "Facciamo una cena, tutti insieme a casa nostra! Ti va Ale?"
Alessandro annuì senza staccare lo sguardo dal finestrino, era a tutti gli effetti il più provato dalla giornata, tra noi giovani. Si vedeva chiaramente la stanchezza nel suo volto, mentre noi altri del gruppo avevamo energie da vendere.

Giulio iniziò a fare domande mentre viaggiavamo: "Da quanto vi conoscete ragazzi?"
Rispose Michele per primo: "Una settimana quasi."
"Oh così poco? Avrei detto di più, siete così affiatati" – rispose l'omone, trasformando la sua faccia da serena a preoccupata. Un volto che mi mise ansia.
"Quanto resti ancora Sofia?" Aggiunse ritornando spensierato.
"Penso ancora un mese ... forse un po' meno."
A quelle parole, Ale, distolse finalmente lo sguardo dal finestrino, girandosi con aria stupita: "Scherzi?"
No, non scherzavo, ma non volevo più dire niente, non erano queste le regole, non si doveva mai domandare tra di noi, eppure Ale ora lo stava facendo, con gli occhi stanchi e la bocca spalancata, incredula.
Per la prima volta capii quanto male potessero fare le domande, detestai che mi venisse chiesto di spiegare, mettendo pressione al tempo stesso, preoccupando tutti di quanti giorni mancassero al fatidico addio.

Michele forse lo capì, magari mi si leggeva in volto lo sconforto, così mettendomi una mano sulla coscia, accarezzandola, disse: "Pochi giorni ma buoni per divertirci. Dio non creò l'universo in sette giorni? Allora noi in un mese chissà quante cose possiamo fare!"
Ci rimise tutti al nostro posto, Giulio compreso, che sorrise a denti scoperti, smettendo di fare domande.

Strinsi la  mano di Michele, appoggiata sulla mia gamba, lasciando che il suo calore si facesse mio, con la testa poggiata dall'altra parte, sulla spalla di Paolo. Mi addormentai così per tutto il viaggio, coccolata da quei ragazzi, lasciando che tutti i pensieri svanissero.

Ero davvero la persona più felice del mondo, senza dare niente ricevevo tantissimo ed egoisticamente lo accettavo.

La grande curva, quella della via per casa della nonna stava davanti a noi quando Michele mi scosse per svegliarmi, la grande curva prima del vialetto che portava alla villetta con gli uliveti. La superammo, seguendo il bosco dei Mangiaterra di lato, finché non lo superammo poco dopo, girando a destra dove stavano altre piccole casette, tra cui, la più imbucata, quella di Giulio e Maria.

Maria e Adele ci raggiunsero pochi minuti dopo, con la macchina grigia, una Peugeot Duecentosei.
Giulio ci aveva lasciati salire in camera di Ale, mentre preparava la cena.

La stanza aveva una grande scrivania, un armadio in legno poco lavorato, con le ante fini e scheggiose; un letto a castello e una finestra quadrata ampia parallela alla porta.
Vi erano libri ovunque, in ogni angolo della cameretta, insieme a vestiti ammassati l'uno sopra l'altro. Michele ammise che quella marmaglia di carta era la sua libreria personale, mentre gli abiti sparsi appartenevano ad Ale.
"Come mai sono qui i tuoi libri?" Chiesi mentre ne raccoglievo qualcuno da per terra.
"Niente domande" – ribatté Ale, con tono scocciato, forse perché appostata fuori dalla porta vi era un cartello chiaro, che spiegava 'le donne sono vietate'. Eppure eccomi qui, mentre Michele rispondeva stranamente ad una mia domanda.
"Dormo da Ale molto spesso."
"Ormai è di famiglia." Continuò Alessandro rimanendo sempre gelido con le parole.
Mi sedetti sul letto terreno, cercando approvazione in Ale, ma lui, capendo il mio sguardo, mi indicò con la testa Michele, che subito acconsentì a farmi stare sul 'suo' materasso.

Poi si aggiunse Paolo, mentre io sfogliavo il racconto che tenevo tra le mani: 'L'Odissea'.
"E' un libro pieno di avventure, con un protagonista che si spinge sempre oltre ai suoi limiti" – disse Michele.
Alzai la testa verso occhi verdi: "Magari un giorno sarai come lui."
Scosse la testa alzando le spalle: "Ne dubito. Io sono contento di ciò che ho. Non mi serve cercare altro per ora. Questo mi ha insegnato Giulio, ad apprezzare anche le più piccole cose!"
Non lo ammisi, ma trovavo il tutto un po' riduttivo, come se si dovesse accettare la vita in maniera passiva, sperando che le gioie cadano dal cielo. Non riconoscevo Michele in quelle parole, il ragazzo che si avventurava per i boschi o nelle piscine altrui nudo.

In quella camera il tempo si dilatò, parendo più di quanto non fosse sembrato prima, forse perché dovevo ancora risvegliarmi del tutto dal sonnellino in macchina, mentendo a me stessa di avere forze da vendere.

Giulio ci chiamò quando fu pronto, in fila indiana attendemmo il nostro turno in bagno per lavarci le mani, poi scendemmo a tavola.
Vi era anche la mia bottiglia di olio sopra alla tovaglia, una tovaglia in plastica con dei girasoli stampati sopra: la trovai pacchiana ma non cozzava con il resto della cucina, un po' vecchia come quella di mia nonna.

Ci sedemmo e, prima di poter fiondarci sul cibo, Giulio disse una preghiera insieme alle voci di Michele ed Ale. Tenevano tutti gli occhi chiusi, anche Paolo che ripeteva con il labiale ogni singola parola, mentre io li fissavo annoiata.
Passammo dunque alle pietanze. Vi era pane, olio e vino in quel tavolo, poi ci venne offerta della pasta al sugo, pomodoro speziato con del peperoncino della Calabria.

Non era molto, ci erano state offerte porzioni piccole, ma il pane seppe riempire il resto della fame che avevo. Ne ingurgitai a palate, raccogliendo tutto il condimento dal piatto, lasciandolo bianco come appena lavato.
Maria fu schiettamente crudele quando me lo fece notare: "Morivi di fame cara?"
Dentro di me il solito commento ripetevo: 'stronza'.
"Suvvia, abbiamo il tuo buonissimo olio, oggi abbondiamo con la cena. Guardate ragazzi."
Giulio buttò dell'olio sul suo piatto, spargendovi del sale sopra. Poi prese una fetta di pane e la spezzò, raccogliendo con una parte tutto ciò che aveva versato sul piatto.
"Provate ragazzi. Il mio pane con l'olio di Sofia."

Ripetemmo le sue azioni, deglutendo il boccone tutti insieme. Poi ci guardammo meravigliati, era davvero delizioso, per quanto semplice.
Giulio disse: "Lo chiamano il pasto dei poveri, eppure è così soddisfacente non trovate? Quando la materia è buona, fatta in casa con amore, si riconosce sempre."

Michele chiese a Giulio se poteva bere un bicchiere di vino, così facendo si sarebbe sentito partecipe ad una grande cena, quasi come l'ultima di Gesù Cristo.
Pane, che era il corpo del Messia, e vino, il sangue.
Non capivo perché la religione ultimamente mi circondasse tanto, ma cercai di pensarla diversamente, di vedere il tutto come una recita collettiva, dove insieme interpretavamo i ruoli dei Santi, e Giulio, con la sua aura gentile, avrebbe personificato il figlio del Signore.

Così spezzò nuovamente il pane, lo porse a Michele – consigliandoli di mangiarlo un po' per volta mentre sorseggiava il vino – e gli riempì il bicchiere di rosso.
Un nuovo rosso, un rosso violaceo, intenso, corposo, il cui profumo si espandeva per tutta la cucina.
Sia il pane che il vino erano opera del padre di Ale, un uomo sempre intento a offrire cose buone ai suoi cari e gli ospiti.

"Se lo beve lui, posso assaggiarlo anche io?" – chiese in modo indiscreto Paolo, aprendo finalmente bocca per parlare.
"Bevete ragazzi." Disse Giulio, versando ad ognuno di noi il vino fino a metà bicchiere.
Prendemmo tutti un po' di pane dalla tavola e seguimmo i passaggi, un po' di vino e un po' di mollica.

La bevanda era dolce, lasciava un retrogusto inebriante che sembrava scaldarci l'anima.
Una cena davvero splendida, particolare, interessante e per certi versi da studiare, ripassare nella mente per non scordarla mai.
Era così che Michele ed Ale erano cresciuti, con valori a parer mio dozzinali, ma che improvvisamente riuscivo a scrutarne la bellezza: l'amore, il lavoro, la compagnia, la felicità e Dio.

In qualche modo era forse questo Dio, che io non sentivo o vedevo, che riusciva a portare le altre emozioni citate.
Ma allora io sarei restata infelice per tutta la vita se non fossi mai riuscita davvero a rispondere alle sue chiamate? Forse no, pensai, stando vicina a persone come Paolo, Michele e Ale, probabilmente saprò ricevere anche io la benedizione: una vita piena di armonia e serenità.

Mentre giocavamo a carte, in salotto, Adele dormiva e Maria anche, erano abbracciate rivolte verso la televisione; Giulio si assentò da noi per una chiamata dal telefono fisso.
Si alzò velocemente dal pavimento, come tutti noi con le gambe incrociate, e ci lasciò il suo mazzo sul tavolino davanti.
Poco dopo mi sentii menzionata: "Si si, è qui Sofia. C'è anche il piccolo Paolo, tranquilla."

Capii subito e cercai in un muro del salotto un orologio, per rendermi finalmente conto che fossero le dieci passate.
Avevo promesso a mia madre che sarei tornata presto, ma avevo scordato quelle parole dopo un minuto.

Anche Paolo sembrò intuire la preoccupazione di mia madre, o forse sentiva già i rimproveri e le imminenti punizioni che ci avrebbe assegnato.
Si alzò prima di me, dicendomi di seguirlo, ed io senza pensarci lo feci, salutando in fretta Michele ed Ale.
"Dove andate?" – chiese uno dei due, non saprei dire con certezza chi.
"Niente domande" – rispose Paolo, mentre mi prendeva una mano e mi trascinava fuori casa.
Giulio ci vedette con la coda dell'occhio, ancora con la cornetta in mano, mentre ci aprivamo la porta di casa sua e scappavamo fuori. In quel momento ci sembrava la cosa migliore da fare, correre a gambe levate da mia mamma e chiederle scusa.
"Se passiamo per il bosco dei Mangiaterra faremo presto!"
Urlai questo a Paolo, citando per la prima volta quel nome: il bosco dei Mangiaterra, da lì in poi è così che lo chiamammo.
Sentimmo Giulio seguirci ma era troppo tardi, era troppo distante e noi molto vicini alla selva ormai.

Ci addentrammo per la prima volta di notte tra quei rami, quegli alberi, scoprendo che sotto a quelle chiome spesse non vi passava un filo di luce, nemmeno il blu della notte. No, lì era tutto nero, una oscurità immensa che non permetteva di farmi riconoscere nemmeno i peli bianchi di Paolo.
Eravamo ombre nell'ombra stessa, divorati dalle tenebre.
Ci rendemmo conto dopo più di dieci minuti di corsa, che sì, ci eravamo persi.
Completamente soli e abbandonati in quegli alberi, incapaci persino di tornare indietro da Giulio. Avevamo ufficialmente sbagliato tutto, così facemmo quello che riesce meglio ai bambini quando sbagliano: incolpare l'altro.
Ci riempimmo di parole cattive, puntandoci il dito contro e maledicendoci in mille varianti, finché Paolo non s'infuriò del tutto, prendendo con una mano un ramo da terra.
Pensai il peggio, improvvisamente riuscivo a riconoscere, in quel nero, i suoi occhi di sangue.
Mi colpì forte il braccio con quel ramo, facendomi cadere a terra urlante e sofferente. Sentivo il braccio tremare per la scossa ricevuta, mentre le lacrime mi ricoprivano il viso, sporco ora anche di fango. Cadevano a dirotto, come una pioggia, perché solo piangendo riuscivo a sfogare quella frustrazione: aver disobbedito alla mia buona mamma; essermi persa nel bosco ed aver incolpato Paolo; lui che mi colpiva con mali intenzioni.
Rimase poco fermo a guardarmi, poi corse via, lasciandomi sola. Riconobbi solo il suono del suo pianto mentre la mia voce supplicava che restasse, ma solo nella mia testa, perché in vero non dissi nulla.

Strisciai sull'umida terra del bosco, sporcandomi tutta, arricciando i capelli crespi e mossi tra le foglie. Mi spostavo lenta, facendo una serie ripetitiva di movimenti con le gambe: prima le stendevo e poi le riportavo verso di me, con le ginocchia che mi coprivano la bocca.
Non volevo alzarmi, ormai ero sola nell'oscurità più grande che avessi mai provato. Temevo il buio, mi spaventava come mai prima era riuscito a fare.
Non so come, forse fu per via del mio pianto che soffocava ogni suono, ma non sentii quella persona avvicinarsi a me, raccogliendomi da terra e confortarmi.

Era Michele, che pareva muoversi nel bosco dei Mangiaterra come se fosse giorno, tenendomi in braccio, mentre io mi lasciavo con la testa sulla sua spalla e le braccia circondavano il suo collo.
Capii subito che era lui, appena mi sfiorò, perché aveva le mani più calde del mondo, un calore che mi faceva stare bene.
"Cerca di calmarti Sofia per favore."
Mi diceva mentre io continuavo a bagnare la sua spalla con le mie lacrime.
"Non farti abbattere dalle tenebre, cerca la luce dentro di te Sofia" – continuò – "Non puoi avere paura del buio. Il mondo stesso è nato al buio. E' stato l'uomo a portare la luce quando mancava, prima cosa pensi facessero? Che tutti scappavano in casa appena era notte?"
Sapevo rispondere a quelle domande, informandolo che proprio per via della religione, gli uomini nell'antichità credevano che la notte fosse quasi una punizione divina.
Ma stetti zitta, in qualche modo mi aveva tranquillizzata ed io lo lasciavo dirmi tutto quello che voleva, tanto qualsiasi cosa uscisse dalla sua bocca per me era una carezza, in quel momento.

Dopo un po' mi fece scendere dalla sua morsa e camminammo mano nella mano fino alla piscina di casa mia, dove Ale e Paolo ci aspettavano.
Eccoli lì, tutti di nuovo vicino a me, anche colui che poco prima mi aveva picchiata, eppure gli volevo ancora bene. Loro erano diventati nel giro di una giornata tutto, ogni risposta ai miei sorrisi, i tre ingredienti segreti del mio spirito: pane, olio e vino.

Mentre io, e il bambino dagli occhi rossi, ci dirigevamo di fretta in casa, Ale ci interruppe per un attimo: "Bravissimi. Avete superato la seconda prova, non avere più paura del buio!"

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