5. LA PISCINA 3.0
Io e Paolo, attirati come mosche, ci sporgemmo sul muretto di mattoni del terrazzo, con gli occhi puntati verso gli uliveti, poi socchiudendoli riuscimmo per un istante a intravedere delle sagome, vicino alla piscina, fuggire nel bosco.
"Sofia! Paolo! Andate a dormire!" – fu l'ordine di mio padre che era sbucato con la testa dalla finestra del piano di sopra, quella del bagno.
Spegnemmo le luci una volta dentro e solo dopo cinque minuti vedemmo il riflesso della lampadina accesa in bagno, da mio padre, spegnersi anch'essa nel buio della notte.
Qualcosa lo aveva sentito anche lui ed era rimasto in guardia.
Quella notte chiusi la finestra mentre Paolo dormiva, avevo il terrore che qualcuno entrasse.
Non riuscii a dormire bene, nella mia testa c'erano solo i mostri, quelli dei racconti di mio padre che riaffioravano con ferocia.
Mi svegliai – una delle tante volte – urlando. Guardai il letto di Paolo, preoccupata di averlo disturbato, ma lui stava in silenzio, impassibile, con gli occhi rossi aperti che mi guardava.
"Che fai sveglio?" – sussurrai.
"Difficile dormire con te che urli e parli nel sonno."
"Mi spiace ..."
"Non è colpa tua. C'è tuo padre di sopra, sento i passi ogni dieci minuti. Poi vedo la luce accendersi."
"Controlla ancora?"
"Fa bene" – disse, mentre a me saliva la pelle d'oca – "sono tornati altre due volte, non capisco chi e quanti siano. Ma le voci provengono sempre da quella parte."
"Smettila" – dissi ormai trattenendo le lacrime per la paura – "Mi vuoi solo spaventare!"
Urlai, non con la voce altissima, ma sentii i passi di mio padre anche io in quel momento, mentre scendeva le scale.
Senza dirci nulla ci coprimmo entrambi con le coperte e fingemmo di dormire.
Mio padre entrò, diede un'occhiata e poi risalì. Non l'avevo mai visto così, forse la presenza di Paolo e l'arrivo delle mie mestruazioni erano due cose che lo tormentavano se messe vicine. Oppure ero solo io a farmi paranoie per nulla.
Tornò in camera sua e quando fummo circondati di nuovo dal silenzio ci scoprimmo, alzando i busti per tornare a parlare.
Non facemmo in tempo ad aprire bocca che risentii quelle voci, se pur lontane e sfocate.
"E' mezzanotte passata Cristo! Chi diavolo sono?" – dissi senza sapere a chi porre la domanda.
"Non ti è mai successo?"
Mi venne spontaneo rispondergli di no, ma poi ci pensai meglio: "Un'estate, due anni fa. A Settembre sarei andata in prima media."
"Avevi così tanta paura?"
"No, pensavo fossero i miei che parlavano fuori, ma ora che ci rifletto bene non erano loro."
"Non ci vogliono fare niente comunque." Disse con fermezza.
"Come fai ad esserne così sicuro?"
"Sono qui da tutta la notte, forse anche gli altri anni erano nei dintorni. Non vi hanno mai fatto nulla, giusto?"
Giusto. Ma io non aggiunsi nient'altro, tornai con la testa sul cuscino, girandomi di spalle contro il muro.
Mi addormentai verso l'una, quando finalmente per una buona mezzora le voci furono del tutto dissolte.
L'indomani io e Paolo andammo a cercare indizi, ma intorno alla piscina non vi era niente, solo mio padre che riparava qualche pezzo del recinto.
Lo sapeva anche lui che quei pezzi di legno non avrebbero allontanato niente e nessuno, eppure ci lavorò per qualche ora.
Ci aveva sgridati il mattino stesso, perché ci aveva scoperti svegli quando dovevamo essere a letto.
Non avevo intenzione di fargli domande, mi avrebbe risposto scocciato, era irrequieto quel giorno.
Camminammo tra gli ulivi mentre tornavamo verso casa, la terra era secca e calda, il sole alto e le zanzare sbucavano da tutte le parti, non era l'ora di star fuori.
Volli raccontare a Paolo la storia della casa dei mostri, quella nascosta nel bosco, e lui la trovò avvincente, così tanto che riconobbi nella sua espressione la stessa curiosità che colpì me, quando fu mio padre a dirla a me.
"Dobbiamo andare lì e trovarla. Sicuramente ci sono risposte in quel posto!"
Paolo aveva decisamente più coraggio della sottoscritta; ammisi: "Io ho paura!"
"Avranno più paura loro di me con i miei occhi rossi."
Sorrisi, mi aveva già mezzo convinta.
Volli prima saperne di più nei confronti di quella dimora nascosta, così chiesi all'unica persona che sapevo sarebbe stata zitta con mio padre: la nonna.
Lo promise, non avrebbe detto nulla, ma volle aggiungere una premessa: "Non c'è niente di speciale dietro a questo racconto, ma ve lo consiglio pure io bambini. Lasciate in pace chi si nasconde nel bosco ed il suo mondo. Non vi appartengono."
Lo disse con un sorriso malizioso, provocatorio, come se non credesse nemmeno lei a quello che diceva, ma dovesse per forza fare le sue premesse.
Accettammo senza troppi interludi a voler conoscere la verità.
Nel bosco, secondo la nonna, vivevano i bimbi sperduti, quelli che da piccola leggeva nel libro di Peter Pan – quello che io mai avevo letto – erano i figli di nessuno, non avevano nome, ma erano insieme, uniti nelle loro marachelle giornaliere.
Rubavano l'olio ai contadini, il pane dai fornai, i giornali dalle poste. Poi correvano dentro il bosco e si nascondevano.
Il loro rifugio era quella casa del bosco, alberi che negli anni non hanno mai accennato a diminuire.
Due in particolare la colpirono profondamente: uno era mio nonno, l'altro era un bimbo di colore.
"Una splendida pelle ambrata, impossibile da scambiare con quella di un altro. Era il bambino di carbone, così lo chiamavano. In paese era il più odiato, solo per le sue origini.
Mio padre una sera era riuscito a colpirlo con un sasso, lanciando a caso per l'amor del cielo, ma colpì proprio lui. Non si scusò, il bambino di carbone si era già nascosto tra le tenebre."
"L'hai più rivisto?" – chiese Paolo.
"Certo, la sera dopo, andai nel loro rifugio. Ormai la paura era svanita, non avevamo età troppo diverse, perché temerli?"
La nonna riuscì a chiedere scusa al bambino, da parte di suo padre. Così conobbe mio nonno, che le restituì tutte le cose rubate da loro. Lo trovò un gesto corretto, bilanciato, chi fa bene riceverà bene a sua volta.
Una bella storia, ma non era ciò che volevo sapere: "Ma ora chi ci abita?"
"Sai cosa penso io?" – disse la nonna chiudendo gli occhi in modo felice – "Penso che siano sempre loro, che non sono cambiati mai, rimasti bambini per sempre."
Non ci era stata di alcun aiuto, almeno per me. Paolo invece aveva captato molto più dalle parole sentite.
"Sono i figli."
"Di chi?" Chiesi io mentre salivamo al primo piano.
"Degli amici di tua nonna, o meglio, i figli dei figli."
Non ci avevo pensato, forse la nonna era questo che intendeva: sono solo altre generazioni ma dello stesso sangue.
"Perché vivere lì?"
"Questo lo abbiamo detto noi. Non sappiamo se davvero vivono nel bosco."
Da quel punto di partenza, quella realizzazione, decidemmo di organizzare un piano. Si chiamava 'la fuga', perché consisteva nel uscire la notte e giungere alla piscina senza farci scoprire dagli adulti.
Avremmo potuto solamente così confrontarci con i 'bambini sperduti'.
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