3. IL PATTO






3.  IL PATTO (parte 1 di 2)

           
Rividi Paolo due giorni dopo, al solito posto, tra le foglie lisce della siepe della parrocchia.
Gli chiesi dov'era stato, questa volta contenta di riaverlo vicino: "Ho messo i fiori in un vasetto. In realtà è un bicchiere, ma stavano bene. Grazie."
Mi guardò imbarazzato, poi si passò i capelli lisci dietro l'orecchio.
Quel giorno il sole colpiva le sue ciglia bianche, illuminandole, nascondendo in qualche modo quello sguardo terrificante che lo caratterizzava.
"Grazie del disegno! Non ricordo il nome scusa ..." – pensai che fosse normale. Nessun prete mi menzionava di certo, io ero quella eretica che non si faceva mai vedere in chiesa, ne a catechismo.
Mentre io di Paolo avevo sia mio padre che mia nonna a ricordarmelo, lui, i suoi occhi, la sua bontà ed il suo nome.
"Sono Sofia." – poi spalancando la bocca in modo divertito aggiunsi – "Vedi di non dimenticarlo ancora!"
Mi prese alla sprovvista: "Devo rientrare. Scusa."
L'avevo intimorito? Forse non aveva capito l'ironia della mia frase. Non volli trattenerlo, mi aveva tolto le parole, lasciandomi lì sola a guardarlo fuggire via, dietro le piante.

"Buono ma anche strano!" – dissi con la voce alta a mio padre. Lui, come sempre, ribatté: "È albino Sofia. Non può stare tanto in giardino."
"Che si metta una crema!" Dissi scocciata, puntando di nuovo uno sguardo di sfida verso papà.
Se ne andò in camera, stanco – era appena rientrato da lavoro – ed io sbuffai.

Mia madre venne in mio soccorso, con parole dolci e meno rimproveranti.
Nonostante il caldo aveva sempre le mani fredde, anche quel giorno. Le sentii quando afferrò le mie. Saranno stati i vari anelli che ricoprivano le sue dita, magari mantenevano il freddo, io ricordo solo che mi dava un senso di quiete quel gelo. Mi ricordava sempre il vento autunnale, che si porta via l'estate.

Mia madre era proprio così. Un vento capace di compensare tutto, riequilibrare il sistema.
La sua dote migliore era la perseveranza, la capacità di trovare ordine nel caos lavorando sodo.
Anita, mia mamma, era la calma assoluta quando ero piccola, mentre io negli anni mi agitavo sempre più.
Anzi, che dico, in quei giorni il mio desiderio di spaccare qualcosa era irrefrenabile.
"Potresti dargli una crema solare. Così potrete stare fuori insieme almeno un po'. Che dici?"
La trovai un'idea geniale. In fondo ogni insegnante deve essere sempre provvisto di creatività, di cui mia madre – maestra della materna – era colma.

La sera però, nonostante il venticello leggero e le tende che volavano nella mia camera, non stetti bene.
Mi venne un mal di stomaco incontenibile.
Bevvi una tisana, che portò di nuovo il caldo dentro di me. Non potei assaporare quell'unica sera di pace estiva, che toglieva l'umidità.

Maledetta pubertà. Scoprii soltanto il mattino dopo ciò che era successo, dentro di me, mentre gli indizi chiari che quei giorni di impazienza e nervi a fior di pelle mi stavano indicando.
Mi svegliai con la pancia ancora più indolenzita, nel basso ventre.
Quando mi alzai, scoprendo le gambe dalle lenzuola leggere che avevo, vidi solo rosso.
Un rosso disgustoso, diverso da quello del karkadè di mia nonna o dagli occhi di Paolo.
Era un bordeaux che odorava di marcio, di morte. Sì di morte, quella della mia infanzia.
Ero tarda ad avere le mestruazioni, ma come tutte le altre cose che le ragazze in classe mia rincorrevano disperatamente, per sfiorare il prima possibile il mondo dei grandi, io le mestruazioni non le desideravo.
Nessuno aveva chiesto loro di arrivare e portarmi a sei giorni strazianti ogni mese, fatti di irascibilità, dolore, pianti e risate isteriche.

Quel giorno non potetti proprio portare a Paolo la crema solare.
Tutte in famiglia mi festeggiarono, mentre io affondavo la testa sul cuscino.Volevo solo scomparire.

'Sei una signorina finalmente!' – pareva un rito più che una frase ormai, me la rivolse mia madre appena la chiamai urlando. La ripeté mia zia, al telefono, o mia nonna – quella paterna – quando passò per portarci dei pomodori dall'orto di mio nonno.

L'unica che non mi disse nulla fu mia nonna materna, la vicina di casa, quella in cui trovai rifugio per metà giornata, giocando a carte e con il mio primo assorbente incollato sugli slip.
Odiavo quel pezzo di cotone morbido nel mio intimo, continuavo a cambiare posizione per stare comoda, ma niente da fare. Più mi muovevo e maggiormente il sangue defluiva dal mio corpo.

Mia madre soltanto la sera mi avvertì che andava cambiato, ridendo dei miei jeans sporchi.

Il terzo giorno di ciclo fu il migliore, finalmente i crampi diminuivano e la tranquillità tornava dentro di me.

Era un mercoledì. Ora o mai più – pensai – era il momento di portare la crema da sole a Paolo.

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