3. IL PATTO (2/2)
Lo avevo evitato per due giorni, come tutti, rimanendo a letto inferocita con l'intero universo, incapace persino di leggere e disegnare.
'Signorina' mi avevano chiamata, ma mai come prima d'allora avevo desiderato così intensamente di rinascere maschio.
Era un pensiero che mi perseguitò per tutta l'estate: ero nata nel corpo sbagliato, dovevo nascere con il pene. Sarei stata più felice, mi ripetevo tassativamente ad ogni nuovo ciclo che si presentava in quei mesi.
Presi la sdraio in cui mia madre sedeva i pomeriggi, prendendo il sole. Lei era l'unica della famiglia ad amare quei raggi caldi, che penetravano la sua pelle regalandole quell'invidiabile color ambrato.
Spostai la sedia pieghevole vicino alla stradina di sassi che avevo sull'erba, aprii l'ombrello giallo, che tenevamo all'entrata di casa, ed aspettai impaziente Paolo, rivolta verso le rose di mia nonna.
Ero svestita a dire il vero, indossavo una maglietta di mio padre, che cadeva giusto poco più in alto delle ginocchia. Ma buttata sulla sdraio probabilmente apparivo più scosciata di quanto non volessi.
Per tale motivo Paolo, quando sbucò davanti alla rete, tenne lo sguardo basso, arrossando come non mai le gote.
Io, impacciata e maschiaccia qual'ero, non ci pensai affatto a questo dettaglio quel mercoledì.
Poco importa, ci misi poco a riparare al danno, alzandomi di scatto salutandolo, correndogli incontro.
Così la maglia poté tornare a coprirmi le gambe.
Aspettai prima di porgli la crema, che avevo lasciato sulla sedia insieme al mio ombrello.
"Perché vieni sempre in questo punto? Mi cerchi forse?" – dissi con un sorriso ammiccante che, ammetto, non pensavo di possedere prima di allora.
Lui si mise a ridere, poi rispose: "Ti ho già detto che mi piacciono le rose di tua nonna."
A dire il vero no. Oppure avevo già scordato questa conversazione.
"Poi qui sotto alle piante sono più protetto. Il sole non mi brucia."
Arricciai le labbra e con gli occhi sorridenti gli feci una domanda, studiata prima in casa: "Vuoi fare un patto con me? Se accetti prometto che non ti obbligherò a fare niente."
Come al solito egli rispose in modo riduttivo, non lasciandomi tempo di spiegare. Scosse la testa dicendo 'no' e poi si lasciò mangiare dalla siepe, scappando.
Allora urlai offesa. Sarà per le mestruazioni, ma una negazione non era ciò che desideravo.
"Sei un codardo!!"
"Non è vero!" – rispose nascosto dalle piante – "Eva è tentatrice!"
Feci un suono trattenendo le chiassose risate che mi risuonavano in testa. Voltai anche io le spalle dalla rete, se era questo ciò che i preti gli avevano messo nel cervello allora non era più affar mio, né lui né le sue idee distorte.
Non ero la professoressa di nessuno, non avevo ne la voglia ne il tempo per quelle baggianate. Poi il sole iniziava a picchiarmi forte sulla nuca. Avevo solo perso i minuti.
Mentre raccoglievo le mie cose per rientrare, sentii lui che mi chiamava.
"Che vuoi?!" – dissi, continuando a prendere l'ombrello da terra, senza girarmi a guardarlo. Ma in segreto, sorrisi, senza che lui potesse saperlo.
"Ti chiedo scusa. Però non vale. Vuoi fare un patto ancora prima di dirlo? Non si fa."
Tornai verso di lui, con le mani sui fianchi, calpestando a piedi nudi l'erba del prato, camminando sulle punte. Non lo facevo per non sporcarmi ma per sentirmi più alta. Mi dava un senso di superiorità.
"Lo stavo per dire. Ma tu non mi hai lasciato il tempo!" – notai Paolo che alzava la testa per guardarmi negli occhi. Tornai con i talloni per terra, così eravamo alti uguali. Che tappo – pensai.
"Mi lasci parlare adesso?" – annuì, spostando di nuovo i capelli dietro le orecchie, sgranando gli occhi sui miei.
"Se verrai a trovarmi, oltre questa rete, ti farò due regali."
Abbassò di nuovo lo sguardo, era un po' triste.
"Non posso ... se sto sotto il sole tanto poi sto male. Mi spiace ... mi piacerebbe ma proprio non si può!"
Chiusi gli occhi portando una mano sul mento, come se stessi rimuginando a qualcosa. In vero, il mio piano era tutto calcolato e stava andando per il meglio.
Se ne accorse: "Hai già un'idea tu."
Furbo, ma non quanto me. In fondo a me bastava avere ciò che desideravo, ovvero la sua compagnia.
Gli porsi la crema da sole: "Se la metti puoi restare con me?"
La prese superando la rete con le mani. Non aveva la ben che minima idea di cosa fosse.
"Serve per proteggere la pelle dal sole. Non l'hai mai usata?"
Mi guardò sorridendo, come se per la prima volta scartasse un pacco di natale.
"Qui alla parrocchia io non chiedo mai niente. Mi danno il cibo e i vestiti. Altro non mi serve ... circa."
"Quindi?"
"Quindi grazie Sofia."
Ma non era quello il patto. Ripresi velocemente la crema solare, rubandogliela dalle mani: "Non era questo l'accordo. Se la vuoi devi tenermi compagnia!"
"Il secondo regalo?" – chiese, ma tirò subito giù la testa tremando.
"Non chiedi niente ai preti però con me sei un ingordo." – sogghignai – "Tranquillo. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi."
Gli offrii la mia mano: "Non lo svelo il secondo regalo, non finché non accetti il patto."
Allungò il braccio oltre la rete, stringendomi la mano. Era fredda, come quella di mia madre. Stetti bene in quella morsa, serena.
"Affare fatto." – disse.
Il giorno dopo ci trovammo fuori, in strada, dove la mia casa e la parrocchia si toccavano. Lo feci entrare in casa, mangiammo pane e marmellata.
A Paolo piaceva metterci tantissimo burro sulla mollica, per poi spandere un lieve strato di marmellata.
Io lo trovavo rivoltante, ma era così contento che non volli mostrarmi disgustata davanti a lui.
Venne poi il momento di rivelargli il secondo regalo.
Volevo portarlo nel mio Eden, il paradiso in terra che solo io conoscevo. Varcammo insieme la porta che conduceva al giardino di mia nonna.
Quando lo vide ammise che non gli sembrava nulla di che. Ci rimasi male, fui ferita dalle sue parole.
Mia nonna seppe risollevarmi il morale, lasciandomi portare Lollo con noi.
Giocammo tanto, correndo per il giardino, spruzzandoci con la canna dell'acqua, rimbambendo Lollo che cercava di morderla al volo, saltando da tutte le parti.
Poi ci coricammo sotto al tavolo di marmo, che stava fuori, sotto la finestra della nonna.
Spostammo i vasetti del basilico e ci sdraiammo. Mi sembrava di essere tornata bambina.
'Signorina' – mi tornava sempre in mente quel nomignolo, quell'etichetta.
Quel pomeriggio con Paolo non fu l'unico, passammo tutto giugno così. Mi risanava lo spirito Paolo.
Era distante dagli altri ragazzi che avevo a scuola, lui e la sua poca esperienza di tutto, la sua scarsa conoscenza, in qualche modo avevano un che di puro che nessun'altro possedeva.
Non ci facevamo domande, giocavamo e basta, come quando si fa la ricreazione nelle scuole elementari.
Merenda e corsa.
Io non potevo avere più di questo. Erano giorni che mi sarei portata dentro per sempre.
Un pomeriggio finalmente gli rivolsi una domanda, scioccamente non l'avevo mai fatto: "Ma quanti anni hai?"
Dodici, uno in meno di me.
In qualche modo ero legata alle convenzioni sociali, per esempio quelle che trovano normale avere una relazione amorosa con un ragazzo più grande, mai più piccolo della ragazza.
Perciò fui sollevata, era come se chiarendomi la sua età, non si potesse mai porre il problema dell'amore.
C'era solo amicizia tra me e Paolo, una amicizia destinata a durare più di vent'anni.
A metà Luglio, mentre giocavamo a carte insieme alla nonna, lei mi chiese se avevo preparato le valigie.
Paolo sentendola mi guardò con un viso dispiaciuto. Poi lo aveva abbassato, mantenendo un alone di malinconia intorno a sé.
Si doveva essere confusa la nonna. Mancava ancora una settimana alla partenza.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top