2. EDEN




2. EDEN (parte 1 di 3)

Era iniziato tutto l'estate dei miei tredici anni. Nel 2010, in una delle tanto detestate estati.
Ero una bambina e una ragazzina allo stesso tempo, eppure a scuola tutti si comportavano da grandi.
Uscivano i primi cellulari a schermo intero, giravano le macchine a Diesel sempre più spesso, apparivano i social network di successo.
Tutti frenetici, vogliosi di più denaro, avari di appropriarsi di qualsiasi cosa, oggettivando il mondo intero.

Poi c'ero io, che nella mia cameretta leggevo, disegnavo e mi annoiavo, contando i peli che aumentavano di mese in mese sul mio corpo.

Depilati – diceva mia madre, ma io di quell'arnese chiamato lametta non volevo saperne.
Forse perché mio padre, che era medico, mi aveva raccontato una volta di una ragazza trovata morta in bagno dai suoi genitori.
Si era tolta la vita, tagliandosi le vene con una lametta. Immagino non si trattasse di un rasoio, ma al tempo fu la prima cosa che identificai nel mio immaginario.
Mi sentivo sciocca, anche, perché la natura con me era stata grata, donandomi dei peli miseri e biondi, nonostante i miei capelli castani. Perché levarli subito? Li stavo appena scoprendo.
Mi sembrava come se mia madre dicesse: 'Devi coprirti!'
Ella era la prima a giudicare le donne con il velo, quelle che – secondo lei –non avevano un carattere proprio. Schiave di una cultura.
Rasandomi quei piccoli peli mi sembrava un po' di fare lo stesso.

Era la fine del mio secondo anno di medie, scuola elementare di secondo grado. Tre mesi  dopo avrei iniziato la terza media.
Un'estate in cui potevo ancora rilassarmi, senza l'ansia di dover per forza uscire con i compagni di scuola, con quelle scuse patetiche che avremmo tutti adottato l'anno dopo – alle superiori non ci sarà più modo di vedersi. Meglio approfittarne. – Per poi dimenticarsi, partendo per nuove avventure scolastiche.
Ma non in quei giorni. No, quell'estate potevo oziare sul letto, contando i peli, soffiando la noia sui miei cuscini color avorio, dormendo, leggendo e disegnando.
Non serviva altro. Così potevo resistere al caldo, dimenticandolo grazie al vecchio ventilatore di mia nonna che mio padre aveva tirato giù dalla soffitta.

Un pomeriggio, stanca di restare sdraiata, decisi di giocare con il mio cagnolino. Si chiamava Lollo.
Lollo era un cane di appena sei anni, ma aveva già perso la voglia di giocare. Nato albino, debolissimo, con il suo pelo candido e gli occhi strani.

Sempre occhi strani vidi sbucare fuori dalla siepe, vicino alla rete che divideva il mio giardino da quello della parrocchia.
Erano quelli di un bambino, il bambino dagli occhi rossi. Mi faceva sentire a disagio quello sguardo addosso, mi studiava o mi desiderava. Non lo sapevo, ma sentivo tutta l'angoscia penetrarmi le ossa.
Si copriva tra le foglie, mentre le manine bianche come la neve sbucavano fuori, afferrando lentamente la rete.
Non si accorse che l'avevo scoperto.
Pensava di essere al riparo, tra la siepe e le rose di mia nonna, che s'innalzavano proprio davanti al suo muso curioso.
Se con forza mi fossi buttata su di lui, avrei spinto i gambi delle rose oltre la rete, sperando di pungere con le spine quei maledettissimi occhi rossi.
Non avevo paura, non finché ero con le spalle attaccate alle mura di casa.
Un urlo e mio padre sarebbe corso fuori, gonfiandolo di botte.

"Perché mi fissi?"
Chiesi, con tutta l'arroganza che avevo in corpo.

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