2. EDEN (2/3)



Il bambino, in un primo momento, si ritrasse indietro, tra le foglie. Deglutì, strette la rete con le manine e si spinse di nuovo verso il mio giardino con lo sguardo.
Poi mollò la presa, mettendosi le mani dietro le spalle.
Finalmente riuscivo a vederlo bene, per intero. Un bambino sì, come lo ero anche io.
Eppure il suo atteggiamento, dolce e preoccupato, mi sembravano più adatti ad un bambino di otto anni, che ad un mio coetaneo.
Timido, con la schiena sempre curva. I suoi capelli avevano lo stesso colore dei miei peli, chiari, bianchi, come lo era Lollo.

"Di solito mi metto qui ... guardo le rose. Non ci sei tu fuori. C'è il dottore." – rispose – "Lui è buono. Mi parla e se non rispondo mi porta un bicchiere di acqua. Ma io non ne ho bisogno, allora svuoto il bicchiere sulle piante."
Notai un bicchiere di vetro, ai piedi delle rose di mia nonna.
Sospirai. Se conosceva mio padre non era un bambino cattivo.

Era solo strano, colpa di quegl'occhi rossi.
"Come ti chiami?" – domandai.
"Paolo ... e tu?"
"Sofia."

Non gli dissi piacere, avrei mentito, eppure in parte ero contenta della sua presenza. Grazie a lui non mi sentii più estraniata dal mondo, sola in casa, ma avevo qualcuno a pochi passi da me. Mi sarebbe bastato uscire in giardino per avere compagnia.

Si avvicinava l'ora di pranzo, sentii mia madre che spignattava in cucina. Girai la testa e vidi nella finestra dietro di me lei, indaffarata a spremere le arance mentre l'acqua bolliva.
Quando tornai con la faccia verso Paolo, lui, non c'era più. Era sparito nel nulla.
Pensai di averlo immaginato.

Salii in camera e senza accorgermene lo disegnai. In fondo era talmente caratteristico nell'aspetto che era semplice raffigurarlo.
Mio padre si alzò dal divano, salendo rapidamente. Sentii i suoi passi pesanti sul parchè del primo piano. Vivevamo in una grande casa vecchia, ma arredata bene. La vecchia casa di mia nonna. Lei ci stava accanto, con la sua più modesta dimora, ma sicuramente costruita in tempi moderni. Lo si vedeva dai muri che quasi mai perdevano pittura, o dal legno che non scricchiolava come quello dei miei pavimenti.
Il mio vecchio era entrato in bagno, senza chiudere la porta – in casa era abitudine – mentre io, non distratta dal suono della sua urina, continuavo imperterrita a colorare gli occhi rossi di Paolo.
Una volta uscito si avvicinò alla mia camera, che stava alla fine del corridoio stretto. Si affacciò alla porta spalancata della mia stanza e mi disse: "Tra poco è pronto. Scendi?"
Senza togliere gli occhi dal disegno risposi: "Adesso."

Adesso. Era la mia risposta a tutto quando avevo altro da fare, oppure anche solo mentre mi focalizzavo con la mente su un idea. Se tutt'un tratto mi colpiva un pensiero creativo, allora non importa con chi fossi e cosa dovessi fare, dovevo fermare tutto e ripetermi quell'immagine nella mente.
Più e più volte, per memorizzarla sempre.
In tal caso era 'Adesso' la mia risposta. Per essere veloce e togliermi di dosso lo sguardo altrui.

Ma il mio papà, che mi somiglia più di chiunque altro, non poteva lasciar correre quel 'Adesso'.
Si distraeva con poco anche lui, sempre pensieroso come me. Si lasciava incantare da ogni dettaglio.
Sebbene la creatività fosse una dote acquisita da mia madre, il potere della vista lo dovevo al medico di famiglia.
Non se n'era andato dopo il mio 'Adesso', sostava ancora alla porta, pronto a spalancarne un'altra osservando intrepido il mio disegnare.
"E' Paolo?" – chiese chiudendo gli occhi e sorridendo.
Dovetti fare una scelta, mantenere viva la conversazione o chiuderla con una ulteriore frase rapida.
'Si.' – dissi tra me e me: "Tu lo conosci, vero?"
Questo ciò che rivolsi a lui, voltando lo sguardo ed accettando che quella porta fatta di parole, discorsi padre-figlia, si aprisse.

"Certo. Passeggia spesso nel giardino della parrocchia. Lo hai conosciuto pure tu? E' un bambino bellissimo."
Bambino – mi ripetevo nella mente questa parola. Forse gli avevo dato più anni di quanti non ne avesse: "Che età ha?"
Fece una faccia confusa, rimuginando dentro di sé, per poi farmi sapere che nemmeno lui conosceva l'età del bambino albino dei preti.
"Perché sta dai preti?" – chiesi, concedendomi una smorfia di pietà.
"Non ridere di Paolo. Se è lì non penso sia per sua scelta" – mio padre condivideva le mie incertezze nei confronti della chiesa, eravamo due diffidenti. Nonostante lui non sorrise, rimanendo impassibile mentre rispondeva, io riconoscevo nelle sue parole una certa critica. Come lo era stata la mia espressione poco prima.
Non era mai capitato di vedere marmocchi crescere dentro le mura della parrocchia, solo grandi, futuri, sacerdoti.
Avevo sempre provato gran dispiacere per quei giovani, assorbiti dal volere del Signore. Mi era sempre parsa come una sconfitta.
Allora mi misi a ridere, divertita dal sarcasmo pacato di mio padre.
Ma lui seppe farmi tacere: "Non ridere! Non conosciamo la storia di quel bambino. Egli è buono Sofia, piuttosto sii gentile se lo rivedi."
Mi zittì per davvero, arricciai la fronte e per la prima volta, io e mio padre non condividemmo lo stesso pensiero.
Mi sentivo nervosa quel giorno. Era un Giugno davvero fastidioso.

Con la scusa del mangiare non aprii bocca, ingurgitando con furia tutto quello che mi si trovava davanti.
Papà prese la tovaglietta di carta e se la stese sul volto, mangiando con la bocca una parte del foglio.
Lo chiamava 'l'uomo tovaglia', me lo faceva tutte le volte che ero triste.

Non lo fissai, volevo, ma non lo feci. Fu mia madre a farmi cadere la maschera: "Forse è troppo grande per queste cose Carlo."
No, non lo ero. Ma ero una cocciuta, ingrata e permalosa.
"Non si è mai grandi per tornare bambini." – disse lui, con la tovaglietta ancora in faccia. Era una frase che ripeteva spesso.
Forse perché nel suo lavoro di medico, dovendo occuparsi di qualsivoglia caso – che giungesse a un fine positivo o negativo – gli era impossibile essere veramente felice. Perciò quando stava in casa amava tornare piccolo con me, immedesimarsi nella bambina che ero e giocare.
Era uno dei tanti motivi per cui la fretta del mondo esterno, quella dei miei compagni di classe, non mi sfiorava mai.
C'era così tanta amarezza nel voler divenire adulti in poco tempo.
Spostai lo sguardo preoccupato, che avevo rivolto a mia madre dopo la sua affermazione, concedendo una risata a mio padre.

Riuscivo a vedere il suo sorriso oltre la maschera di carta. Renderlo sereno era la più grande gioia della mia vita. Soltanto oggi capisco che anche per lui, farmi felice, doveva essere il massimo.

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