14. GLI SCHIFOSI (2/5)
Si era spalancato il portone dell'età difficile, confusa, maledetta, con prepotenza le sue enormi ante si erano spiaccicate sul mio muso lungo, lasciandomi stremata davanti all'entrata, ancora prima di attraversare quel tortuoso percorso.
La morte è un po' questo, anche quando è di chi pensavi ti importasse poco: la fine di una vita toglie un po' di vita a tutti quanti, persino i conoscenti.
Tiziana era sparita, irrecuperabile, in poche tristi parole morta.
Eppure il mio pianto diceva altro, mi urlava – dentro al mio caos – che non tutto, o tutti, erano perduti.
Michele non era morto, era vivo, chissà dove Cristo Santo ma lo era, ed io avrei dovuto cercarlo.
Fu solo un momento, un pensiero non espresso che legai al mio cuore, perché una volta sotto le coperte di casa tornai lucida ripudiando quell'idea.
Mai più avrei corso incontro a lui, era finito quel tempo, se mi voleva sapeva dove stavo.
Eppure quella dura decisione, una decisione con le scarpe da donna più che da ragazza, mi ferì, facendomene pentire per giorni, mesi, anni.
'E' la cosa giusta' mi ripetevo all'infinito, ed era vero, perché mi resi conto che seppur involontariamente, ero stata vittima di Michele per molto tempo.
Per lui, che era la mia religione, mi sarei annullata, sottomessa e chissà cos'altro.
Mi era andata anche troppo bene, mi ero innamorata di un buono, perché nelle mani di qualche altro ragazzo la mia fine sarebbe stata certa, una fine lenta, dolorosa, e il mio piccolo cuore speranzoso non avrebbe resistito di certo.
"Mai più Sofia" – mi dicevo – "Mai più arriverai a questo punto in amore. Con nessuno. Nemmeno un altro ragazzo potrà portarti così a fondo, spegnendoti per lui, per amore. Anche sé buono, penserai prima a te stessa."
Poi presi sonno, osservando la parete blu sopra di me.
La mattina dopo mi alzai stranamente presto, scesi le scale – sperando di trovare la nonna già sveglia fuori – e invece scoprii mia madre, con il corpo dentro casa ma la testa fuori dalla porta di entrata.
Riuscivo a vedere solo due grandi mani, robuste, maschie, che le tenevano la nuca, spingendola fuori.
Corsi gli ultimi gradini ma questi scricchiolarono, ed il rumore rimbombò nelle orecchie della mamma, affrettandola a ricomporsi e chiudere di getto la porta.
"Sofia già sveglia?"
"Chi è?" – dissi scocciata.
"Non so di che parli, vai di sopra, facciamo colazione."
"Ho sedici anni mamma, sono grande ormai" – ogni volta che me lo ricordavo una parte di me urlava di dolore – "dimmi chi è, per favore."
"Ho detto di sopra Sofia, non farmelo ripetere."
Ed io obbedii; di una cosa ero certa... le avevo già viste quelle tozze mani da uomo, solo che, come il nome della sorella di Claudio, proprio non ricordavo di chi fossero.
Andai da Alessandro quel pomeriggio, tutta sola, mentre la nonna insegnava le basi della scuola media a Paolo – di recente gli offriva qualche lezione gratuita, per pietà.
Che buffo soggetto, quindici anni e non sapeva nulla se non matematica – che io invece odiavo – mentre lui la trovava affascinante: "E' così bella Sofia, perché non importa dove tu la faccia. La matematica è uguale in tutto il mondo."
Nella mia testa le cose semplici non erano mai state belle, sfortunatamente.
Mi era difficile capire Paolo quell'estate: per qualche ragione a me sconosciuta era diventato più esuberante, felice, pieno di vitalità, curioso e desideroso di sapere.
Come se la mancanza di Michele lo avesse spinto a prendere il suo posto, trasformarsi in lui e imparare tante, infinite cose su tutto.
Iniziò persino a leggere da solo, senza che nessuno dovesse obbligarlo, e non esclusivamente la bibbia.
Giunta a casa di Giulio salutai velocemente Maria, occupata nell'orto, scorgendole un sorriso amichevole – che teneva di rado.
Poi voltai l'angolo apparendo di fianco a Giulio e Adele, che sostavano all'entrata, caricando dei pacchi sulla piccola 500, blu come la mia parete.
"Ciao Giulio, come stai Adele?"
Giulio si imbarazzò nel vedermi, e solamente dopo essermi specchiata sui vetri dell'automobile mi resi conto che ero al quanto scosciata, sicuramente più di quanto fosse accettato in casa sua.
"Buongiorno Sofia ... caldo?" – a tale sua risposta mi imbarazzai io.
La giovane Adele, che cresceva sempre più velocemente, mi salutò dolcemente.
"Sei qui per Alessandro?" – domandò il padre.
"Sì, a dire il vero ... vorrei parlarti se non ti spiace."
Giulio fece cenno ad Adele di tornare in casa, lei obbedì per metà, correndo nell'orto con sua madre.
"Dimmi cara, c'è qualcosa che non va?"
"Non sono più una bambina Giulio ..." – e di nuovo fu una fitta al cuore – "... lo sai cosa non va. Ma non sono qui per parlarti di Michele."
Così Giulio divenne bianco in volto, perdendo tutta la sua abbronzatura all'improvviso, ed io avrei urlato liberamente che dovevano smetterla tutti quanti di cancellare quel nome o spaventarsi anche solo a udirlo.
Michele, Michele, Michele. Così si chiamava, non 'lui', non l'innominato, ma Michele.
"Quindi le mie supposizioni corrispondevano al vero ..." – ammise – "... vi frequentavate. Così piccoli e innocenti ..."
Lo interruppi: "Me l'hai insegnato tu stesso una volta. Eravamo dentro casa, prima di una delle nostre cene felici ... facesti una predica biblica, che ora mi scuserai ma proprio non rimembro. Bisogna sbagliare a volte, pur pentendosi."
"No, mia cara, non era nulla di biblico ciò che stavo raccontando, ma probabilmente uno dei più antichi proverbi latini: errare humanum est.
Vedi Sofia, siamo fatti per sbagliare, l'importante è apprenderlo l'errore, e migliorare.
Pentirci, certo, è una via che santifica, ci benedice e ci protegge, ma è bene che l'uomo lavori anche su sé stesso per sé stesso. Dio ci può perdonare, è vero, egli è l'immenso, un amore che nessun uomo può portare sulla propria testa. Ma un uomo può imparare, e crescere. Non abbatterti dei tuoi sbagli."
"Oh ma io non ho perso il morale di certo per questo Giulio" – mi resi conto che era da tanto che io e lui non chiacchieravamo così – "lo dicevo solo perché non voglio che tu mi prenda per una vittima. Io e Michele abbiamo avuto il nostro momento ... tutto qui."
Mi accarezzò una guancia: "Ma il tuo viso è triste piccola. Non fare finta di essere più grande di quanto tu non sia."
Mi commossi, ma non piansi, non davanti a lui, dovevo essere forte quel pomeriggio e chiedergli ben altro.
"Ebbene, di cosa volevi parlarmi?"
"Se non ti turba troppo ... volevo chiederti di Tiziana."
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