13. LA PARETE BLU
13. LA PARETE BLU (parte 1 di 4)
Era l'estate del 2013, io avevo compiuto a Febbraio sedici anni, quelli che tutti dicono siano gli anni più belli della vita, eppure io di bellezza ne vedevo poca.
Il mio corpo si era arrotondato, divenendo paffutello dove non doveva esserlo: seni grandi e pesanti, braccia più tozze, culo pendente e cosce gonfie.
Il mio nuovo taglio di capelli non mi aiutava nemmeno, avevo deciso di farmi un caschetto, ma i miei capelli mossi, trasformavano quel casco di peli in una massa informe, ché appena l'umidità saliva si sparpagliava anche dove non fosse normale, quasi ci fosse una forza elettrica che mi volava sopra la nuca.
Avevo iniziato a mettere persino gli occhiali: la pittura, la lettura e le ore piccole per lo studio, mi avevano portata a sforzare un po' troppo la vista, e questa per rilassarsi richiedeva l'uso di lenti occasionali.
Non ero quasi mai riuscita ad evadere di casa quell'anno e la mia pelle appariva più smorta che mai, color muro, che se osavo vestirmi di bianco apparivo praticamente nuda.
Ciò che davvero mi rendeva felice – e sapevo piacesse a Michele – era il mio cambio di stile, non più sofisticato o ricercato – quindi snob – ma decisamente alternativo, spontaneo e semplice. Frequentando il liceo Artistico mi ero adattata a qualsivoglia stramberia: soggetti molto disomogenei, ognuno con il proprio gusto, unendo un modo di vestire anche ai valori sostenuti.
Io, che mi ero totalmente fatta trascinare dall'amore della natura grazie ai Mangiaterra, mi coprivo di soliti abiti da fricchettona.
Le novità non finivano qui, ero persino entrata in una compagnia di Rasta, iniziando a fumare qualche volta Ganja.
Ecco, queste novità ero certa si sarebbero sposate perfettamente con la mentalità di Michele: così aperto, voglioso di conoscenza, umile e servizievole con tutti.
Spesso mi interrogavo se non agissi per sola condizione sua o per volontà mia.
Ebbi una sorta di conferma quando, giungendo a Spezzano Albanese quell'estate, non lo trovai.
Sparito Michele, evaporato via nel nulla, senza dirmi niente. Eppure eravamo soliti a sentirci ogni tanto tramite Facebook: il cellulare non lo aveva, però i profili di Alessandro sui Social gli era concesso utilizzarli ogni tanto.
Non era un gran contatto, però era quello che mi bastava per essere felice e sperare che prima o poi le cose tra di noi iniziassero a filare normalmente.
Ero persino riuscita a convincere i miei a trascorrere il Natale a Spezzano Albanese.
Già, il Natale 2012, uno dei Natali più di merda della storia.
Eravamo tornati a Spezzano, dopo soli tre mesi di distanza, un sogno che si avvera: rivedere Michele in inverno, una delle mie stagioni preferite.
Lui era così frettoloso, cresceva velocemente, tenendoci sempre tutti indietro: dovevamo correre per stargli anche solamente dietro.
Michele quell'inverno era divenuto un uomo, non saprei dire come, in soli tre mesi la muscolatura era aumentata, i capelli – ormai cortissimi – gli davano un'aria più matura, tenuti in alto con la cera di Giulio.
Un ragazzo lavoratore, di sedici anni appena compiuti in Ottobre: aveva abbandonato le scuole e si era messo all'opera, aiutando Giulio con le sue mansioni.
Sistemava casa, ripuliva i giardini della gente – oltre che quello di Maria – aiutava Teresa e Giuseppe con cui aveva passato tutta la stagione di raccolta delle olive del nonno; loro seduti, lasciando che fosse Michele a farlo.
In cambio da loro riceveva solo le chiavi di casa, la casa della nonna, sfogliando così tutti i suoi libri: oppure Teresa lo lasciava entrare nella sua dimora, mostrandogli la bella biblioteca privata.
Studiava da sé, e anche per questo io lo amavo sempre più, quell'amore strozzato, che non potevo dire, non dovevo ammettere, non ero in grado di urlare.
Un amore che avevo nascosto persino a mio padre, il mio primo confidente al mondo, perché me ne vergognavo. Esatto, di Michele io provavo anche vergogna: un ragazzo che lavora la terra, potevo presentarlo a mio padre? Mai.
Inoltre non mi parve il momento di dare ulteriori pesi ai miei genitori, che in quel periodo ne stavano vivendo a mille di proprio conto.
Il loro rapporto si era incrinato una volta tornate dalle vacanze, come un quadro che proprio non vuole stare appeso dritto.
Per la prima volta, in quindici anni di estati a Spezzano – dove io e la mamma eravamo le ultime a salire al Nord – mio padre non era in casa ad aspettarci.
Io, quel Settembre, avevo osservato gli occhi di mamma, cercavo disperatamente una risposta, almeno nel suo sguardo, perché le parole furono cosa rara di lì in poi.
Io avevo appena vissuto l'estate più incredibile della mia vita, mentre lei con i suoi sorrisi gentili, aveva taciuto dentro tutto il dolore di una separazione.
Ma fu breve, mio padre tornò giusto poco prima di Natale, mentre le parole no, quelle erano come svanite, galleggiavano nell'aria pesante che si era creata in quella casa fatta di tutto, tranne che amore.
Io, distratta da quei cuori infranti, che cercavo con la mia cordialità di tenere uniti, mi ero persino scordata del dono di Michele, il suo diario, chiuso nello zaino dell'estate, insieme al mio Bobo, entrambi dimenticati.
Eppure oggi questi oggetti sono le cose più preziose che ho: non mi possono arricchire, è vero, ma scaldano il cuore, anche nel Natale più freddo.
A Natale speravo che i miei genitori, accettando di portarmi a Spezzano insieme alla nonna, stessero cercando di rimettere i pezzi a posto: mai fui così illusa come all'ora.
Le parole vennero sputate, vomitate, proprio durante la nostra permanenza invernale a Spezzano Albanese.
Io stavo giù, in casa della nonna, lontana da tutto quel male, quel veleno nero, acido puro che scioglieva i miei genitori di tutta l'umanità che li caratterizzava, lasciandoli spogli, coperti solo dall'odio che si tiravano contro: un odio che rimbalzava anche nelle pareti, raggiungendomi, oltrepassando i muri stessi.
A Natale c'eravamo solo io, mia nonna, il suo pranzo – che era comunque ottimo come sempre – e mia madre, che nemmeno ci provava a mangiare.
Mio padre se n'era andato, da quella casa e persino quella nel Nord, e mai più era tornato a viverci.
Quindici anni e capii che dovevo farmi le spalle larghe, prepararle per poter aver cura di me e della mia famiglia, perché la vita è inaspettata quanto stronza.
Ciò che però ricordo perfettamente, in modo cristallino, è che nel giorno di Natale mia nonna accusò un lieve mal di stomaco, nascondendolo anche lei – come mia madre – con il sorriso migliore.
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