13. LA PARETE BLU (2/4)




Si ripeté altre volte questo 'mal di stomaco', ed io seppi spiegarmi una cosa sola: mia nonna poteva anche sorridere, ma il suo corpo parlava chiaro, se stava male di testa e cercava di negarlo lei si ammalava.

Per fortuna quel triste inverno io avevo Michele che sapeva rallegrarmi: non ero sola, almeno per due settimane.
Senza Paolo presente pensavo di avere tantissimo tempo da passare con lui, ma come già detto Michele era diverso.

Trascorreva le ore nell'orto di Giulio, proteggendo le piante dal gelo, dimenticandosi ogni tanto che io stavo dietro di lui, con i denti battenti – nonostante mi ostinassi a non indossare il giubbotto al Sud – rimanendo basito quando finalmente distoglieva lo sguardo dalla verdura, e mi guardava in faccia.
Sì. Sono ancora qui. Era questo che avrei dovuto dirgli ma non lo feci mai. L'amore mio non era stupido e passivo, né permissivo o sottomesso, ero semplicemente felice di vederlo felice, e in quel piccolo orto lui lo era più che mai.

Sapeva ancora pensare a me, prendersi cura del mio corpo come con quelle piante, scaldandoci insieme dentro il nostro rifugio, combattendo il freddo con il sudore del sesso.
Ma giunti alla terza volta ci arrendemmo: non si poteva continuare ad avere rapporti in quella casa.
In inverno il clima non ci lasciava pace, improvvisamente provai nostalgia per il caldo afoso e le zanzare schifose.

Eppure sapemmo trovare presto una soluzione: "Vieni di notte in camera mia, sai come arrampicarti no?"

"Mi hai preso per una scimmia?"

"Ti ho preso per Batman!"

Lui si mise a ridere, mi sfiorò i capelli che uscivano dal mio berretto di lana, e mi baciò una guancia: "Va bene, ma domani! Oggi meglio che stia un po' con Giulio e gli altri. Posso chiedergli di farti venire con noi a messa!"

"E' di nuovo Natale?" Risposi io, ironicamente, e lui mi guardò storto, come per rimproverarmi che ero la solita impertinente.
"Scherzavo dai ..." – aggiunsi – "... comunque nemmeno morta ci vengo!"

Lui rise di nuovo, questa volta mostrandomi bene le sue palette staccate dei denti.
Lo amai anche per quello, per quei denti, quel saper prendere tutto con leggerezza, mentre io diventavo sempre più permalosa e arrogante, lui era sincero e gioioso, riuscendo persino a ridere di sé.

Non vidi nemmeno una volta Alessandro in quel periodo, stavo sempre in casa o con Michele, tutto il resto lo ignoravo.
Forse era per colpa della stagione, in qualche modo Spezzano non mi sembrava la stessa senza il caldo.

La notte dopo Michele salì in camera mia di nascosto e per la prima volta ci ritrovammo seduti su di un letto, l'uno fianco all'altra, nella speranza che qualcosa accadesse.

Eppure era tutto così strano, così intimo da farmi tremare: lui, nella mia cameretta da bambina, con i vecchi libri, la scrivania piccolina con la spazzola color pesca in plastica e lo specchio decorato con la colla calda e qualche brillantino.
Il letto di Paolo, ora attaccato al mio, così da crearne uno immenso, con le coperte magenta e il copriletto rosa pallido.
Qualche mio disegno sparso ovunque, anche sotto i mobili, le matite colorate e i fumetti – che lui nemmeno sapeva leggessi.

Tutto in quella stanza urlava in coro 'bambina', quando per la prima volta altro non volevo che il termine 'ragazzina' esplodermi intorno.

La camera non era mai sembrata così piena come all'ora, e tutto quanto mi soffocava, facendomi pentire persino di aver scelto un indirizzo scolastico di tipo artistico; pensai: "Come fa a prendere sul serio una che ha i pennarelli in giro per casa?"

Nessuno prima d'ora era riuscito a farmi ripudiare così tanto me stessa, ma nel silenzio tombale che mi stava uccidendo lui sbuffò un sorriso e poi disse: "Quanto vorrei una camera come questa."





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