1. L'ETA' FALLIMENTARE






1. L'ETÀ FALLIMENTARE

L'età fallimentare andrebbe chiamata.
Per meglio intenderci, gli anni in cui il mondo ti crolla addosso, il cielo ti divora, affamato della terra.

Come noi uomini, che non siamo mai sazi, creiamo quelle illusioni di civiltà, costruendo cose l'una sopra l'altra.
Noi forse siamo ingordi di cieli.
Osservavo il cielo quella notte di fine Gennaio. Stavo sul davanzale di casa, sospirando estati che mai avevo trovato nostalgiche.

Perché io il caldo lo odio.
Un po' come i ragazzi però, più sono fastidiosi più mi era difficile togliermeli. Anche quell'afa estivo che i miei respiri chiamavano, veniva desiderato.
Lo volevo mio. Chissà perché, non m'era mai capitato.
Forse perché in estate il cielo è diverso, è limpido, aperto. Anche in città.

La città che avevo sempre desiderato, ora mi soffocava.
Evidentemente ciò che bramavo in vero era solo tornare a galla e prendere aria. Ossigeno puro, distante dalla metropoli, in quei mari che non sognavo da tempo.

Questo, il mio decadimento, quello dell'età adulta, la vivevo come una piccola morte.

Datemi le montagne allora, mi dicevo, mentre ne intravedevo le punte tra le ombre notturne.
Stavano proprio lì, davanti a me, quei monti. Seppur vicini erano irraggiungibili.
La città mi voleva per sé ancora.
Come la più gelosa delle persone, mi teneva stretta a sé, facendomi mancare il respiro.

La notte di Gennaio era fredda, il fumo della sigaretta caldo, le gambe mi tremavano e la luce, dentro casa, non si decideva a tornare.
Intorno a me solo il blu più oscuro.
Ai miei piedi, sotto al balcone, la strada più deserta di tutta Brescia. Un uomo, con il suo cane, che puntualmente passeggiava alle tre di notte.
Lo vidi solo quando la luce di un lampione lo colpì. Poi venne di nuovo inghiottito dal blu.
Ciao, avrei voluto dire a volte, perché è sveglio?
Ma in fondo le anime notturne non chiedono, non rispondono, osservano. Come facevo io.
Osservavo con gli occhi socchiusi per il gelo, guardando il cielo, cercando una stella.
Quella notte mi sentii fortunata, era pieno di piccole macchie bianche.

La città mi stava facendo un regalo, nel suo essere tremendamente possessiva, come qualsiasi individuo geloso, si dimostrava ogni tanto gentile, spegnendo tutte le luci e lasciandomi scoprire l'orizzonte come di rado capitava.
Fanno così le persone cattive, ti tolgono tutto e poi ti danno poco, il giusto perché tu torna a sentirti viva.
Brescia mi stava facendo questo in quei giorni.
Finalmente mi porgeva il suo dono: il blu della notte, con le sue stelle che l'inquinamento luminoso nascondeva spesso.

Accesi una seconda sigaretta, per non lasciar scappare quel momento. Volevo restare così per sempre, assorta dalla bellezza dell'infinito.

In qualche modo mette ordine scoprire l'universo, per quanto piccola e misera potesse farmi sentire, mi appagava.
Perché dovevo essere infelice? Non conta la mia tristezza in questa vita, come vale poco l'esistenza stessa in questo spazio senza fine.
Se posso fare qualcosa è cerca di essere felice della mia vita, perché è vivendo che mi sono posta davanti a questo scenario.
Per me non esiste verità più grande, nella vita, se non la bellezza stessa. Sono in questo mondo per osservarlo, studiarlo, perché solo io posso farlo, come essere umano.
Che triste.
Le stelle non possono osservare la loro stessa bellezza.
Volevo anche questo nella mia vita, sapermi guardare dicendo: sono così bella.
Mi bastava questo, sarei tornata ad assaporare l'aria come una volta, con lunghe boccate di ossigeno, mentre il mio corpo si risollevava.
Non quella notte.

Quella notte sarei rimasta ancora qualche minuto, in piedi, poggiata sul cornicione del balcone, con il collo allungato e gli occhi verso il cielo.
Mi tornò in mente il mio detestare l'estate.
La odiavo anche per la luce. Non sopportavo il sole, era più forte di me. Aveva un che di volgare, mentre la sera, la luna che si alza e il freddo delle ore tarde, mi parevano poesia pura.
Ero confusione in tutto: bramare o meno l'estate, non lo sapevo nemmeno io.
Mi rassicurò un pensiero.
Se è nella notte blu che io trovo pace, se pur pensierosa ed angosciante, allora anche quando sarà giorno mi basterà chiudere gli occhi.

Se chiudo gli occhi è tutto buio.

Quando chiusi la porta finestra, lasciando l'oscurità dietro le mie spalle, la corrente tornò e fu subito luce.
Mi diede fastidio non vedere più il mondo per le sue ombre, ma con tutti i suoi dettagli.
Tornai a studiare, avevo solo quello, i libri e la scuola.
Non soffrivo la routine, affatto, mi dava stabilità nel mio caos di pensieri. Caos che avevano creato quelle persone, quelle che avevo lasciato da sei mesi, trasferendomi a Brescia per gli studi.
Più di tutte, quando chiudevo gli occhi per dormire, era una persona a tornarmi alla mente.
Il suo volto proprio non riuscivo a scordarlo.
Mi rigiravo nel letto, soffrivo il sonno, le lenzuola mi affaticavano, aggrovigliandosi su di me come lo faceva il casino nella mia testa.
Tutta colpa di quella persona.
Colpa sua, Michele.
Se chiudevo gli occhi, dov'è tutto buio, il suo viso non lo dimenticavo. Per questo nemmeno nella notte più scura, che somiglia quasi al nero, riuscivo ad aver pace.

Avevo tanta fame, mi sarei nutrita di lui anche allora se avessi potuto, ma in quella età fallimentare non c'era spazio per l'amore.
Eravamo una generazione di fuggitivi.
Scappavamo dal nostro paese, i nostri cieli, affamati di nuove terre. Di un futuro stabile.
Ero nata nel nuovo medioevo, quello delle più grandi scoperte tecnologiche, che sfociavano nella decadenza tramite il mondo social, quell'esperimento umano che ci stava uccidendo negli anni.
Che merda di epoca.

Michele riusciva a distrarmi da questo pessimismo, portandone altri, emozioni che maledicevo ogni giorno.
Maledetto lui, maledetti i miei vent'anni. Sputare veleno sull'età fallimentare era ormai una ninna nanna, il ritornello che mi ripetevo prima di ogni sonno.

Prima che finalmente, oltre i miei occhi chiusi, ci fosse il buio e basta.

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