8. Solitudine
Solitudine: scrivi un racconto dove estremizzi la solitudine
Era brutto essere l'ultimo - e l'unico. L'ultimo della sua famiglia, l'ultimo Savara, l'ultima semi-entità, e probabilmente l'ultimo Yieshah.
Era stato solo per anni, strappato da una famiglia e messo in un'altra per ben due volte, ma rimanere solo questa volta era un duro colpo - si era ripromesso diverse volte di non affezionarsi, ma l'aveva fatto comunque -. E tutto per colpa di stupide visioni che gli affollavano la testa, attraverso cui il Padre lo controllava.
L'aveva detto una volta a Merikh: lui non era fatto per comandare, al massimo contestava gli ordini, ma venire manipolato in quella maniera gli faceva bruciare lo stomaco, venire il gusto di bile in bocca.
E poi c'era Neera, ai margini della Galassia insieme ai due figli, di cui percepiva l'odio chiaramente, tanto era intenso. Aveva preso il regno di diritto a suo figlio e ucciso suo marito. Merikh.
Merikh - che era un padre, un amico, un fratello, la persona a cui più voleva bene - che era morto.
Ucciso.
Da lui.
Con la sua Lama.
In uno di quei momenti in cui le visioni prendevano il sopravvento su di lui e lui diventava un altro. Per poi solo pentirsi di quello che aveva fatto.
Si tolse l'elmo in uno scatto di rabbia, scaraventandolo in un angolo della stanza. Le sopracciglie contratte, la mandibola stretta, una voglia di urlare che voleva uscire fuori dalla gola in cui era rimasta incastrata, e che Aeshylus non aveva intenzione di fare uscire tanto facilmente. Nei suoi occhi c'era rabbia, odio verso sé stesso che sembrava voler traboccare fuori di essi, tristezza, e sì, seppur nascosto sotto tutte quelle forti emozioni, pure il dolore. Con la paura. La paura di cadere in quel vuoto sul cui orlo aveva sempre camminato, senza avere avuto timore di caderci dentro. Ma adesso che aveva fatto il passo falso, che era inciampato e aveva quasi perso l'equilibrio, la paura di cadere la provava. Eccome se la provava. Tanto che non era più certo di niente. Non si era mai sentito così bambino ed ignorante come in quel momento, neanche quando era bambino ed ignorante.
Nascose il viso tra le mani appena sentì che gli sarebbe scappato il primo singhiozzo. Piangere? Non ne aveva nessun ricordo. Aveva riso, urlato, imprecato, ucciso, ma non si ricordava di aver pianto.
Le dita che stringevano, le unghie che volevano graffiare la carne, martoriarla, per rendere quel dolore interno anche esterno. A ogni singhiozzo indietreggiava di un passo, barcollante, chiudendosi sempre più in sé stesso. Tanto che quando arrivò al muro dovette solo piegare le ginocchia per sedersi a terra.
Tra le lacrime, tra i singhiozzi che cercava di contenere con ben poco risultato, sperava che Merikh - o anche qualcun altro, ma era in lui che sperava maggiormente - entrasse da quella porta e gli spiegasse quel casino che aveva dentro. Una bestia ferita che ruggiva odio, rabbia, dolore, ma soprattutto diniego. Perché lui stesso non credeva a quello che era successo, non lo credeva possibile, nonostante avesse visto corpi senza vita su ogni campo di battaglia che avesse calpestato - e insanguinato. Ma credere al fatto che Merikh fosse morto, gli creava un così forte senso di solitudine che rigettava quel pensiero come qualcosa di assolutamente dannoso.
Era ironico. Lui, l'uomo dai mille volti, dai mille schieramenti, colui che era l'unico - e il migliore - nel settore di scambio informazioni, che si disperava in quella maniera per una morte - che aveva scombussolato la Galassia, ma era pur sempre solo una morte -, con il viso nascosto tra le braccia, che abbracciavano le ginocchia, in una morsa dolorosa.
Il dolore era mutato in rabbia. L'idea di essere solo si era fatta più concreta e l'odio per sé stesso era mutato anch'esso in rabbia - per aver permesso che succedesse, per aver permesso che cadesse nel vuoto, nella solitudine.
Notò l'elmo lì vicino a sé. Con gli occhi rossi, le ultime lacrime che scendevano nel percorso già marcato dalle lacrime, i lunghi capelli bianchi scompigliati come non mai, allungò una mano, afferrò l'elmo - blu e dorato, come l'armatura che indossava, tutto regalo di Merikh, e questo gli faceva ancora più male - e se lo pose sopra le ginocchia, osservandolo con un sorriso che aveva tutto fuorché vero divertimento.
«Perché me l'hai lasciato fare?» chiese, con voce roca, rotta dal pianto di poco prima, accompagnato da una risata morta. «Lo sapevi che l'avrei fatto. Ed eri pure in grado di fermarmi.... nato grande, nato potente, nato l'entità più forte che si sia vista fino ad adesso, nato in grado di tenere in pugno l'intera Galassia, e tu ti fai uccidere così, facilmente, da me? Tuo allievo, tuo traditore, tuo assassino?» un sorriso triste - talmente triste che se ci fosse stata Neera lì sarebbe scoppiata a piangere, sensibile com'era - si disegnò sul suo volto. « È ironico. Non ho mai voluto questo tipo di potere - il potere pubblico, il potere dei grandi - ed eccomi qui a dover guidare il Kaangde più grande della storia. Non volente. Cos'è, la tua maledizione per averti ucciso?» Rise. Rise come non aveva mai riso - un riso da pazzi, un riso da persone che hanno dentro il vuoto. Già, perché dentro Aeshylus non c'era più niente. Era caduto nel vuoto - e il vuoto era caduto dentro di lui.
Però poco alla volta stava accettando la cosa. Sì, Merikh era morto. Sì, era stato lui ad ucciderlo - no, non quell'altro lui - cioè, sì, anche l'altro, ma era pur sempre lui, una parte di sé stesso. Sì, non lo avrebbe più rivisto - non sotto forma fisica almeno. Nei suoi ricordi di sicuro gli avrebbe fatto visita. Eh sì, aveva pure accettato la solitudine - la cosa più difficile da accettare di tutte.
Circondato da ufficiali, soldati, ammiragli, solo per il puro fatto che era la creatura vivente conosciuta più potente della Galassia, leccapiedi - che nonostante li trovasse estremamente fastidiosi doveva ammettere a malincuore che erano utili - non avrebbe mai trovato una cura alla sua solitudine. No, mai. Era destinato a rimanere solo, non aveva idea di quanto avrebbe ancora vissuto - la vita delle semi-entità era più corta di quella dei normali abitanti della Galassia - per cui, perché non cercare di ignorare la solitudine - quel vuoto che si sarebbe presentato puntualmente, che già lo stava divorando dall'interno?
Quello che rimase della risata fu un sorriso - sincero. Non uno dei suoi migliori, ma sincero.
Si alzò in piedi, dandosi una sistemata, e calzò l'elmo. Guardò nell'angolo dove aveva gettato l'elmo. Un ricordo gli tornò alla mente, un ricordo in cui aveva parlato con Merikh in quella stessa stanza e lui era proprio lì.
«No, non voglio il tuo Kaangde. Ma neanche lo darò a tuo figlio come l'hai lasciato tu. Mi conosci, no? Prima devo combinare qualche disastro.... Dunque avvisalo. C'è un'altra guerra in arrivo.»
Se le ombre avessero potuto sorridere, quella nell'angolo sorrise quando Aeshylus uscì.
Sono leggermente ossessionato dalla colonna sonora di Cruella. Solo leggermente.
Tranquilli, da qualche parte metterò anche "so this is the famous Suicide Squad"
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