𝗿𝗮𝘀
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– Allora, Daichi, qual è il piano? –
– C'è un piano? –
– Non c'è? –
Si sposta sul prato verso di me, la sua spalla sbatte contro la mia. È pesante, il bastardo. Non è che mi faccia male, per carità, ma certo non è esattamente piacevole.
– Non avevamo detto "come ai vecchi tempi", Iwa? Ti ricordi una volta in cui abbiamo avuto un piano "ai vecchi tempi"? –
– Beh, una sì. –
– Sì, una che non sia lo Sterminio. –
Rispondo con lo stesso gesto che ha riservato a me un attimo fa, spalla su spalla, pendendo col peso del mio corpo dalla sua parte.
– Eravamo scemi e giovani, Daichi. –
– Siamo ancora scemi e giovani. No, in realtà tu sei scemo e giovane, io sono solo giovane. –
Alzo le sopracciglia.
– Solo io sono scemo? –
– Certo che solo tu sei scemo. Io sono sempre stato quello sveglio dei due. –
– Io sono quello sveglio dei due. –
– No, tu sei quello forte. Tu braccio, io cervello. –
– Io braccio e cervello e tu un cazzo di niente. –
– Stai zitto, cretino. –
Ridacchio, ridacchia anche lui.
L'aria vuota attorno a noi assorbe il rumore delle nostre voci e lo inghiotte in un attimo.
– Quindi stiamo andando alla cieca? –
– No, non alla cieca. Ma con un po' di libertà al caso. Se non fosse così non sarebbe divertente, no? –
– Mi dici che sono vecchio se ti dico che l'idea ora come ora mi spaventa? –
– No, in realtà spaventa anche me. –
– Yggdrasill, eravamo davvero due folli. –
Il suo corpo si avvicina al mio, il mio al suo, torniamo vicini. I nostri passi affondano fra le foglie pacatamente, con calma, il panorama non fa rumore.
Lo spazio è aperto, ampio, libero. Da quando siamo usciti dal Bosco degli Gnomi qualche ora fa le distese di campi coltivati di fronte a me sono interminabili, le piccole casette dei contadini, i quadretti tipicamente rurali.
È strano.
Molto strano.
Conosco questi posti, più cammino più me ne ricordo, e mi nasce nel petto un'impressione strana, quella di non appartenervi più quando per tanto tempo sono stata l'unica cosa che avevo.
– Forse è il caso che ci fermiamo per la notte ed elaboriamo un piano. – mi viene spontaneo dire, mentre il mio sguardo si adagia di edificio in edificio, fino a puntare un agglomerato di casette in lontananza che ricordo essere un piccolo villaggio qualsiasi.
– Vuoi accamparti? –
– Una locanda ti sembra un'idea così malvagia? –
Mi guarda, socchiude gli occhi, piega la testa.
– Magari una dove si può anche... che so, bere qualcosa? –
– Sì, una dove si può bere qualcosa. –
– Ok, allora per me è un sì. –
– Perfetto. –
Entrambi i nostri visi si rivolgono dalla stessa parte, verso il villaggio, e il passo si velocizza quasi inavvertitamente verso di esso.
È...
Strano.
È strano.
Lo è stato partire.
Lo è stato lasciare Tooru.
Lo è fare qualcosa che era quotidianità per me venticinque anni fa e che ora mi sembra più un ricordo che riprende vita.
Abbiamo camminato la maggior parte della strada, oggi, in silenzio. Qualche battuta, come quelle appena volate fra noi, ma niente di serio, niente di profondo.
È strano per me e immagino lo sia per lui.
È surreale.
Sono vent'anni che non lo vedo. Sono dieci che vivo completamente da solo.
È...
Da una parte mi sembra di essere troppo felice. Così tanto che temo di rovinare tutto parlando o dicendo qualcosa di sbagliato, che preferisco godermi la sensazione di essere qui senza scalfirla di un millimetro.
Dall'altra, però, è un po' freddo.
Non voglio che sia freddo.
Non sono abbastanza bravo da capire come si faccia a risolvere la situazione.
Non so cosa fare e non faccio niente, imprigionato dal non sapere che risultato avranno le mie stupide, misere, immediate azioni.
Daichi cammina un po' più veloce di me.
Lo vedo portarsi un po' più avanti.
Ci sono tante, tante cose che vorrei dirgli. Tante davvero. Vorrei chiedergli che fine ha fatto Michimiya, la donna che doveva sposare prima che partissimo per lo Sterminio e di cui non pare esserci nemmeno l'ombra al momento, vorrei sapere come è arrivato nel Bosco degli Gnomi, come è andato il suo matrimonio, cosa spera di fare in futuro.
Ma... rimango fermo.
Bloccato.
Legato dalle mie emozioni che ora conosco, sì, ma che non riesco a dire a qualcuno che non sia uno stupido Elfo di merda con le gambe lunghe che mi fa sentire cose che prima non avevo mai provato.
Ho così voglia di fare qualcosa che l'idea di fare qualcosa mi terrorizza. Sembra stupido, idiota, so che lo è. Prima di Tooru, prima di tutto, avrei semplicemente fatto quel che mi veniva di fare senza pensare alle conseguenze, senza ragionarci troppo su.
Però adesso...
Avere cura di qualcuno ti rende più consapevole, perché impari e cerchi di imparare a relazionarti con te stesso e in quel modo a traslare i tuoi atteggiamenti sugli altri.
Sono diventato più riflessivo.
Ho iniziato a parlare con me stesso.
Questo, ora come ora mi impedisce di...
– Iwa, posso fartela una domanda? –
Sbatto le palpebre.
Oh, m'ero immerso nei miei pensieri.
– Spara. –
– So che hai detto alla tua Fata che tornare là non ti spaventa, ma... questa cosa, la stai facendo per me o pensi davvero che ne valga la pena? –
– Di tornare nel Regno degli Umani? –
– Esatto. –
Alzo lo sguardo e lo rivolgo dalla sua parte.
La distanza che s'era creata fra noi, dettata dal suo passo lievemente più svelto del mio, si è azzerata senza che neppure me ne rendessi conto.
È di nuovo vicino a me.
– Per te perché voglio che ti fidi. Per nessun altro motivo. –
– E non ti è venuto in mente che volessi fotterti per vendicarmi? –
– Mi sono detto che posso correre il rischio. –
Ha gli occhi castani, del colore del legno, Daichi. Sono solidi, fermi come lui, qualcosa che sa di accoglienza, di quotidianità.
Li china per un attimo.
Prende fiato, il suo intero corpo si muove col suo respiro.
Forse m'ero dimenticato che non sono per forza io a dover iniziare questa cosa, forse m'ero dimenticato che le conversazioni si fanno in due e che non sono l'unico, qui, che ha qualcosa da dire.
Forse m'ero dimenticato che forse io sono importante per lui almeno quanto lui lo è per me.
So che sta per cambiare argomento.
So che sta per farlo e so che non mi piacerà quel che dirà.
So che lo sta dicendo perché è notte e perché siamo da soli, completamente da soli, e perché vuole una risposta onesta da me.
– Perché non ti sei fidato di me quando ti dissi che lo Sterminio non avrebbe portato a niente se non alla distruzione di quello che eravamo? –
– Perché credevo che mi avessero portato via l'unica cosa che avevo. Credevo che avessero ucciso mia madre. E credevo che... –
Chiudo gli occhi.
Sento il mio corpo tornare là, in quel momento, col sangue che goccia dalla mia pelle verso il suolo, inesorabile, lavandomi via di ogni parvenza d'umanità che possedevo.
– Che vendicarmi mi avrebbe fatto sentire meglio. –
– L'ha fatto? –
– No, Daichi. Quel giorno ho perso tutto, e niente di quel che ho fatto è mai riuscito a farmi star meglio un giorno della mia vita dopo. Avevi ragione. Mi sarei dovuto fidare di te. Qualche volta penso che se quel giorno mentre combattevamo tu m'avessi ucciso, forse sarei morto migliore di come vivo adesso. –
Non mi trema la voce.
Forse è il fatto che me l'abbia chiesto lui ad avermi dato coraggio, forse solo questa nuova abitudine di provare ad essere più onesto coi miei pensieri nel tentativo di liberarmi la mente dal loro incombere.
Forse...
– Lo rifaresti? –
– Lo Sterminio? –
– Lo Sterminio. –
Lo guardo dritto negli occhi.
– Sì. Lo rifarei. –
Aggrotta le sopracciglia.
Poi... la confusione sparisce, il suo viso si distende.
– Perché se la Regina non fosse morta, allora... –
– Senza lo Sterminio Tooru non sarebbe qui. Io forse sarei una persona più serena, tante vite sarebbero state risparmiate, ma questo non è niente in confronto all'idea che lui... –
Sento una mano grande, forte, familiare appoggiarmisi sulla spalla.
– Sono passati vent'anni e ancora non hai risolto i problemi con tua madre, Iwa, porca puttana. Ancora a cercare qualcuno da servire e riverire? So che ci sono dei dottori del cervello nel Regno degli Umani che... –
– Stai facendo una battuta su mia madre, Daichi? –
– Scusa, è che eravamo troppo seri. E poi lo sai che amo fare battute su tua madre. –
– Mia madre è morta, Daichi. –
– Anche la mia, sconfiggimi. –
Mi scappa una risata che sembra qualcuno mi stia strappando dal petto a mani nude, si accoda a me, il rumore mi riporta indietro nel tempo, a giorni diversi, più spensierati, più stupidi, quando eravamo solo due cretini con tanti sogni e nessuna ferita sul corpo.
– E comunque tu sei più viscido e schifoso di me, ti sei sposato. Il matrimonio è una cosa da viscidi schifosi. –
– Il matrimonio è una cosa da veri Uomini, ma che cazzo dici. –
– Ti sei messo il vestito elegante per sposarti, Daichi? Il farfallino? Te la sei fatta una doccia prima di metterti le braghe da principessina? –
– 'Fanculo, non ero vestito come una principessina, ero vestito bene. –
– Ti sei fatto mettere il lucidante ai capelli, eh? Il damerino Daichi che si sposa. –
Sbatto le ciglia per prenderlo in giro, lui sbuffa.
– Era Suga che insisteva. Dice che i miei capelli sono di un bel colore e che... –
– Te lo sei messo per davvero? Ma se lanciavamo le pietre a quelli che si vestivano bene fuori dalle feste, Yggdrasill cosa non ti ha fatto un bel paio di chiappe. –
– Ecco, questa cosa delle pietre a Suga è meglio se non gliela dici. –
– Ma era divertente! –
– Lo era, ma non capirebbe. –
L'immagine di me e Daichi nascosti dietro alla palizzata di legno che separava l'ingresso del castello dal resto del cortile mi appare in mente.
Non è che fosse colpa nostra, è che erano ridicoli, tutti leccati e laccati pronti per essere messi in mostra come animali da collezione, e tirare loro qualche pietra era... simpatico.
Dopotutto cosa c'è di più antico della rivalità fra i soldati grezzi e rozzi e i principini puliti e pettinati? Era... giusto.
– Te lo ricordi quello che si è beccato la sassata sul ginocchio ed è caduto di faccia sulla dama della Regina? –
– E quello a cui abbiamo tolto il parrucchino? –
Annuisce.
– Quello che ci aveva detto che eravamo due coglioni senza cervello buoni solo a tirare su i pesi? Oh, quello te lo ricordi, dai. –
– Quello che abbiamo incontrato alla locanda poi il giorno dopo. –
– Poverino, chissà se s'è mai ripreso. –
Mi mordo l'interno della bocca.
– Non doveva venire a dar fastidio mentre stavamo bevendo. –
– Già, è tutta, totalmente colpa sua. –
In effetti che non fosse una buona idea intromettersi nei nostri affari penso fosse palese, ma forse quel cretino non c'era arrivato.
Ricordo poco e niente di quella sera.
Solo il sapore dell'alcol, la sua voce petulante e... una classica, buona, meravigliosa rissa da locanda finita con me e Daichi che mettiamo in mostra la nostra forza fisica prima di vomitare anche l'anima dentro la mangiatoia del cavalli del Re dietro le stalle di Palazzo.
– Sai cos'altro mi ricordo? – chiedo, con le memorie che ricompaiono una dopo l'altra nella mia mente a soffocare tutte quelle brutte, scure e negative che tanto mi spaventano.
– Cosa? –
– L'ambasciatore degli Elfi Silvani. Quello a cui hai chiesto insistentemente se poteva far apparire piante nel culo della gente con la sua magia elfica. –
– Quello delle zucchine? –
– Lui! –
Già, Daichi aveva questo incommensurabile dubbio. Era davvero curioso di sapere se fosse possibile evocare randomiche verdure in posti di persone che quelle persone avrebbero voluto tenere private.
Non è che fosse finita poi bene.
Diciamo che c'era stata un'altra rissa da locanda, e che poi ci avevano messo anche dietro le sbarre perché quello era un ambasciatore e a quanto pare non è esattamente educato andare a chiedere ad un ambasciatore se può farsi apparire zucchine nel culo e poi picchiarlo perché non voleva rispondere.
Ma eravamo giovani.
E... sbronzi.
E...
– Ancora me lo chiedo, sai? Se becco un Elfo mi faccio rispondere. Sarebbe la svolta nella storia della masturbazione, non credi? Qualcosa come... "oh, no, non ho niente da usare per darmi piacere, forse dovrei evocare una zucchina e..." –
– Quella delle donne incinte? –
– Quando credevi che se avessi fatto sesso con una avresti preso a botte in testa il bambino? –
– Avevo paura che nascesse con i lividi, che ne so, malato! –
– Che poi chi era la donna incinta, la cugina del Re? –
– L'amica della cugina, quella bionda che mi dava del "gran bel pezzo di manzo" e che mi trattava come uno sguattero. –
– Miseria, cosa non hai fatto per un po' di sesso. –
– Lascia perdere, se lo raccontassi a Tooru probabilmente mi castrerebbe e poi riderebbe di me. –
Daichi ride, rido anch'io, la mano sulla mia spalla si stringe.
– Mi sono perso un sacco di stronzate a star dietro a Yui tutti quegli anni, ora che ci penso. – borbotta, un po' distante, con la mente rivolta probabilmente a quella che è stata la sua compagna per tanto, tanto tempo.
– E pensare che alla fine non state più insieme. –
– Già. –
Alza le spalle, sospira.
– Però non è che ci ho potuto fare niente. Quando Suga è arrivato... insomma... c'era solo Suga. Nient'altro. Mi spiace solo non aver chiuso con lei prima. –
– Sono sicuro che tu abbia fatto la stronzata giusta. –
– Ma sì, alla fine sono sposato, no? –
– Giusto. –
– Giusto. –
I nostri passi risuonano fra le foglie per qualche istante, il silenzio c'interrompe, risuona assordante attorno a noi.
L'ilarità si spegne, mi si assoda dentro il corpo in una forma serena, calma e sottile, mi addolcisce, mi rende più vulnerabile e tranquillo.
Daichi è al mio fianco, ancora la mano sulla mia spalla.
Chino la testa dalla sua parte, i miei capelli e i suoi si toccano, la mia tempia raggiunge la cima di una delle sue guance, chiudo gli occhi per godermi una sensazione che è stata familiare per tanto tempo e che, sorprendentemente, lo è anche adesso.
– È solo un mese che lo conosco, ma Tooru mi ha insegnato un sacco di cose. Come si chiamino i suoi colori di merda, cosa si provi ad amare qualcuno, come... si dicano ad alta voce le cose che hai dentro. –
– Ti ha aiutato ad essere più onesto? –
– L'ha fatto, sì. –
I passi rallentano, inspiro l'odore della sua pelle.
Io e Daichi dormivamo abbracciati, stretti l'uno all'altro, quando eravamo nell'Esercito ed eravamo troppo piccoli per affrontare tutto quel che ci passava attorno. Dormivamo vicini, lividi contro lividi, fratture contro fratture, perché ci volevamo bene e perché eravamo completamente soli all'infuori di noi due.
Quel periodo è durato un paio d'anni, poi è scorso via come la pioggia, come l'acqua, un fiume, un torrente.
Eppure...
La prima volta che andammo in guerra dormimmo insieme.
La prima volta che lui uccise un'altra persona dormimmo insieme.
Quando sua madre morì, quando in allenamento tutto sembrava andare male, quando uno dei due soffriva per qualsiasi stronzata.
Daichi è...
– Sei una parte di me, Daichi. So che sei incazzato, so che non posso farmi perdonare, so che ho provocato solo morte e distruzione per te e per un sacco di altre persone. So di fare ribrezzo, ma anche se faccio ribrezzo sono capace, e l'ho scoperto da poco, anche di provare cose belle. Ne provo per te. Sei una parte di me. –
Si ferma.
Non dice niente per un attimo, così mi giro a guardarlo e prima che possa fare qualsiasi cosa lo sento stringermi la faccia con le mani.
Sono confuso, m'irrigidisco, ma non mi sottraggo dal contatto.
– Averti abbandonato quel giorno è il mio più grande rimpianto. Non avrei potuto fare altro e la persona che sei stato mentre uccidevamo quelle persone non eri tu, ma è comunque il mio più grande rimpianto. Averti lasciato morire giorno dopo giorno fino a vederti diventare la parte peggiore di te, è il mio più grande rimpianto. Non so quale magia di Yggdrasil ti abbia riportato da me, ma ho pregato perché avvenisse e sono felice che sia successo. – dice, senza mezze misure, senza distogliere lo sguardo, guardandomi in faccia.
Sento i bordi delle mie labbra sollevarsi un pochino.
– Siamo sempre stati noi due contro il mondo. Ora ci sono anche le Fate che sono belle e Yggdrasil solo sa quanto ci rendano felici, ma rimaniamo sempre noi due contro il mondo. Devi riguadagnarti la mia fiducia, ma il mio affetto l'avrai sempre. –
Mi tira giù, mi lascio trasportare dalle sue mani.
– Faremo finta che questo momento tenero non sia mai successo e non lo racconteremo alle Fate, ok? –
– Ok. – rispondo, ridacchiando, felice e leggero e chissà cos'altro.
Io e Daichi, questo, non l'avevamo mai fatto e mi chiedo ora perché. Perché dimostrarci sempre tutto coi gesti e mai dirlo con le parole? Perché non essere più liberi, perché non essere... onesti?
Qualcosa è cambiato, sì.
In meglio.
Anche se è dovuto scorrere del sangue.
Anche se il mondo ha visto quello che di me stesso odio di più.
È solenne, quando succede, solenne quanto, paradossalmente, rapido e casuale. Daichi si china, io chiudo gli occhi, e le sue labbra si stampano sulla mia fronte.
Dura un secondo che pare non finire mai.
È liberatorio.
È...
Quando rialzo la testa lui ha già chinato la sua. Richiudo gli occhi, lo fa lui, lo prendo per tenerlo fermo e ricambio il gesto.
Non so perché non l'avessimo mai fatto prima.
So che avremmo dovuto.
Voler bene a qualcuno non ti rende più debole, ti rende solo più felice, e inizio a chiedermi perché essere felice mi abbia terrorizzato così tanto tempo.
È vero che la felicità è faticosa, e che navigare nel proprio male è tanto più confortevole, nonostante sofferente, però...
Un Elfo di merda, serviva alla mia vita. Una Fata, quando a demonizzare la mia vita sono state loro, io stesso in funzione di loro.
Sei sarcastico, Yggdrasil, non credi?
Sei proprio un bastardo.
Ma ti ringrazio lo stesso.
– Ora andiamo a bere. –
– Andiamo. –
E sento le mie gambe ricominciare a camminare su una superficie che ora, mi sembra essere a tre metri da quella che credevo fosse la terra.
Qualche momento dopo, forse un'ora, forse mezza, forse solo quindici minuti, il calore e la luce calda di una locanda m'immergono la pelle in una tinta oleosa, giallastra, che mi ricorda l'odore e il sapore di quello che naviga nel bicchiere che ho in mano.
La mia testa è leggera, il rumore delle persone che vivono e ridono vico a me piacevole, l'atmosfera rassicurante.
Appoggio il bordo di vetro al labbro, mando giù un sorso e osservo Daichi fare lo stesso, contento del posto in cui sono e ancor di più della compagnia.
– Vacci piano, tigre, sei vecchio per le sbronze e non vogliamo casini. – mi dice, quando finisce di deglutire, lo sguardo che scintilla di una luce ilare, contenta.
Sorrido.
– Non sarà una birra ad uccidermi, Daichi. –
– Non hai detto che te ne sono bastate tre al Branco delle Lande per sfoderare la battuta delle mutande? –
– Quella era una birra strana, questa va giù che è un piacere. –
– Se lo dici tu. –
Annuisco, sorrido solo con un angolo della bocca,
È vero, non dico stronzate, lo giuro. Quella era a tutti gli effetti una birra strana, questa... non sembra egualmente strana. Certo, so che effetto ha l'alcol su di me, ma...
– Magari la prendiamo qualche precauzione prima di ubriacarci come due coglioni? –
Alzo lo sguardo verso il mio amico.
– In che senso precauzione? –
– Qualcosa che non ci faccia uscire di testa. Non so te, ma quando bevo parecchio mi pare di tornare a quando avevamo vent'anni, quindi... sai, non vorrei che la mia testa facesse brutti scherzi a Suga. –
– Ah, credevo capitasse solo a me. –
– Di fare brutti scherzi? –
– Di credere di avere vent'anni, scemo. –
Ridacchia, annuisce e alza le spalle. Poi, quando acconsento al suo fumoso, scemo, ma stranamente calzante piano, tira fuori un coltello dalla cintura, sposta il bicchiere e guarda la superficie di legno di fronte a sé.
– Dici che s'incazzano se gl'intaglio il tavolo? –
– Dico che lo scopriremo. –
– Giusto. –
Appoggia la punta sul legno e il rumore del coltello che scava giunge rigido alle mie orecchie. Studio i suoi movimenti, noto che compone chiaramente delle lettere, aspetto che abbia finito prima di provare a leggere.
Ha scritto...
"Sei sposato, non fare stronzate."
Mi viene da ridere, lo faccio.
Poi allungo il braccio per farmi passare il coltello, mi guardo attorno per cercare di capire se qualcuno ha notato che stiamo componendo una tale opera d'arte e quando mi rendo conto di avere via libera, lo imito.
Potrei scrivere...
Non lo so.
Non ne ho idea.
Magari...
Ok, ok, ha senso. Questo ha senso.
Appoggio il gomito sul tavolo e inizio a scavare.
I trucioli di legno volano da tutte le parti, rido mentre intaglio il tavolo di un locandiere che probabilmente domani vorrà uccidermi, osservo le parole comporsi sotto la pressione del mio polso.
È un modo carino per fare qualcosa di inutile, lo so.
Non credo che nemmeno obnubilato dall'alcol il mio cervello possa allontanarsi di un centimetro dall'ideale perfetto che ho di Tooru, però...
È divertente.
Voglio divertirmi.
Voglio...
"Hai un Elfo a casa, tienilo nelle mutande" appare scritto dalla mia parte del tavolo. Scivolo con la mano sopra il lavoro finito e lo osservo, espresso nelle sue lettere storte, soddisfatto del mio personale capolavoro.
– Ora possiamo bere? –
– Ora possiamo bere. –
Alzo il boccale e lo sbatto contro quello di Daichi, poi separo le labbra e il sorso che prendo è decisamente più generoso del precedente.
Mando giù senza fermarmi, perché non tutto è una competizione ma potenzialmente tutto potrebbe esserlo, e osservo con la coda dell'occhio il mio amico fare lo stesso, nessuno dei due si ferma e nessuno dei due vuole perdere e...
Finisce.
La birra finisce.
Io mando giù, sbatto il fondo di vetro sul tavolo e mi alzo.
– Ho finito prima io! –
Daichi mi imita.
– Stocazzo prima tu, prima io, faccia di culo. –
– Prima io, ho messo giù prima il bicchiere. –
– Non era quella la regola, io ho finito di bere prima. –
– Ma che cazzo dici? –
– Sei un perdente, non sai manco bere, sei proprio un... –
Si gira verso il bancone.
Si sbraccia verso la povera persona che ci lavora dietro, le guance che si arrossano, io ridacchio.
– Altre due birre, qui, altre due! –
– Che fai, vuoi la rivincita perché hai perso? –
– Voglio farti vedere che sei una mezza sega e che vincerò sempre io. –
– Sì, certo, come no. –
Si sporge dalla mia parte e mi prende il colletto della camicia con una mano, mi tira verso di sé, stringe lo sguardo e piuttosto che sembrare serio, a me sembra solo scemo.
– Ti distruggo, bastardo. –
– Provaci. –
– Ti faccio rimpiangere di essere nato. I tuoi traumi mi possono baciare il culo, uscirai da qui in lacrime, Iwa. –
– Tu piangerai, io ballerò perché avrò vinto. –
– Non sai ballare. –
– Questo lo dici tu. –
Si fa più indietro, lentamente torna seduto.
– Hai imparato a ballare in questi anni che non ci siamo visti? Qualcuno ti ha tirato via il palo dal culo? –
– Guarda che sono sempre stato un ottimo ballerino. Sei tu che non apprezzi la mia arte, io sono leggiadro come una goccia di rugiada. –
– Sì, più come una pozzanghera piena di fango. –
Rido e batto la mano sul tavolo, anch'io mi calo di nuovo sulla sedia.
– Dammi altre due birre e vediamo chi è la pozzanghera. Posso batterti anche in quello. –
– Vuoi fare una gara di ballo? –
– Qualsiasi cosa tu voglia, tanto vinco io. –
– Allora... –
I passi traballanti del cameriere si fanno più nitidi sul retro della mia testa, quando mi rendo conto di quanto vicino sia mi alzo, prendo i boccali dal vassoio senza dire niente, li spiaccico sul tavolo e alzo la mano ad indicarne altri due.
– Bevi e poi ci pensiamo. –
– A chi la finisce prima? –
– Ovvio. Anche se vinco io. –
– Vedremo. –
Afferro il manico, inclino la testa e apro le labbra.
Forse andrò incontro al coma etilico, forse farò cose che non dovrei fare.
Non me ne frega un cazzo.
L'unica cosa che m'interessa al momento, l'unica, è decisamente vincere.
Non so quante birre siano passate quando mi ritrovo con la testa che gira come una trottola, la schiena appoggiata contro lo schienale della sedia e le luci delle candele accese dentro la locanda che ballano ai lati della mia visuale.
Sono ancora in me, all'incirca. Credo di essere ancora in me, non sono ancora passato oltre il baratro del non ritorno oltre il quale credo di aver vent'anni e dico battute che non dovrei nemmeno pensare, però l'alcol mi scorre abbondantemente nelle vene, il mio corpo è caldo, bollente, la mia testa offuscata.
Daichi non è messo tanto meglio.
Sorride, dall'altra parte del tavolo, di quel sorriso ebete e scemo che fa quando è sbronzo, agita la mano in aria mentre parlo.
– Entriamo di notte. Ci infiliamo nel laboratorio, distruggiamo tutto e andiamo via dalla finestra. Che dici, ti sembra un buon piano? –
– Tu te lo ricordi dov'è il laboratorio? –
– No. Tu? –
– Nemmeno io. –
Si accascia in avanti, i gomiti sul tavolo e le mani a reggergli la testa.
– Ma sì, dai, lo cerchiamo. –
– Di notte? –
– Dici che al buio non ce la facciamo? –
Piego la testa all'indietro, guardo il soffitto.
Non so quando abbiamo iniziato a parlare del piano e non so come si sia cementata nella nostra mente l'idea che fosse saggio farlo ora, da sbronzi, ma questo non importa.
Importa che...
– Lo troviamo di giorno. Poi andiamo di notte e tu mi butti dentro dalla finestra, io distruggo tutto e poi scappiamo. –
– Perché io butto dentro te? Tu butti dentro me, sono più leggero. –
– Non sei più leggero. –
– Questo non sei nessuno per dirlo. –
Tiro su il capo, stringo lo sguardo.
– Tu mi butti dentro e io ti aiuto a venire su. –
– Guarda che lo so che mi lasci di sotto. –
– Quando mai ti ho lasciato di sotto? –
Daichi si prende il mento con una mano, aggrotta le sopracciglia, pensa e ripensa ai momenti passati assieme alla ricerca di qualcosa che dia adito alla sua teoria.
Poi prende fiato.
– Quella volta che ci hanno mandato a casa del Troll, oltre il Bosco di Rovi a est del Regno degli Umani. Tu avevi detto che saresti salito e mi avresti tirato su e poi mi hai lasciato di sotto. –
– Ti ho lasciato di sotto perché serviva che facessi di guardia. –
– Sì, ma mi avevi detto che l'avresti fatto e non l'hai fatto. E ti sei divertito solo tu. –
Alzo gli occhi al cielo.
– Non mi sono divertito, ho trovato la signora moglie del Troll senza vestaglia e ti assicuro che nulla di quel che ho visto è stato divertente. Traumatico, anzi. Non credevo che si potesse avere la... amica al piano di sotto di quel colore. –
– Di che colore era? –
– Un colore strano, Daichi, un colore che non è normale. –
Ridacchia, la sua risata è sfiatata, un po' stanca, io lo seguo a ruota.
– Questo è quello che succede quando non mi porti con te. Uccidi il tuo popolo, vedi vagine di Troll. È per questo che mi devi portare. –
– Per vedere le vagine insieme? –
– Per condividere i momenti di merda. –
Rispondo mugugnando un verso affermativo sottovoce, torno con lo sguardo al soffitto, sospiro.
– Non voglio vedere una vagina mai più, comunque. Voglio vedere solo Tooru. Il mio bel Tooru e la sua assolutamente non-vagina. Nient'altro. –
– Solo la Fata, eh? –
– Mh-mh, solo lei. So che su di me la magia non funziona ma cazzo se non è vero quel che dicono. Dà la dipendenza. –
Sento il mio migliore amico esprimersi in assenso.
– Vuoi dirlo a me? Siamo sposati da vent'anni e ogni volta che lo vedo nudo è come se fosse la prima volta. Hanno qualcosa di strano, non so. È tipo... –
– Che non puoi farne a meno. –
– Esatto. Quello. E poi l'odore di fiori. E anche... il modo di fare, credo. Tutto elegante e delicato che sembra perfetto e che... –
– Ti va venire voglia di dar loro un motivo per farli camminare storti e meno educati di prima. –
Alzo le mie labbra in un sorriso, credo che quelle di Daichi facciano lo stesso, mi ripeto in mente le immagini della mia Fata che incespica nei suoi passi la mattina dopo i Riti di Luna al Branco delle Lande, la soddisfazione m'invade il petto.
– Cazzo, mi sto eccitando. –
– Anche io, prendiamo ancora da bere? –
– Mmh, sì, chiama la cameriera. –
– Arrivo, arri... –
Cerco di trovare una qualche forma di equilibrio per alzarmi, ma non ci riesco, il baricentro del mio corpo mi pare tentare di spostarsi in ogni secondo, rimango a ballonzolare sulla seduta della mia sedia per qualche minuto.
È abbastanza perché veda qualcuno entrare dalla porta della locanda.
Non so chi sia, so che indossa vestiti scuri e che pare guardar tutti male, me ne dimentico l'attimo dopo che l'ho visto, lascio perdere.
Schiaffo le mani sul tavolo, guardo sorridendo la scritta che ho scavato un po' di tempo fa, riesco ad usare le mie stupide ginocchia per tirarmi su e mi metto in piedi.
Posso camminare?
Certo che posso.
Sono ancora nei primi stadi della mia ubriacatura.
Dopo, sarà il problema.
– Birra? –
– Qualcosa di più forte. Che dici? –
– Mmh, sì. Voglio pensare di essere una sedia. –
– Una sedia? –
– Lascia perdere, te lo spiego dopo. –
Daichi annuisce, si accascia di nuovo e io m'impegno seriamente per cercare di camminare dritto verso il bancone.
La locanda, che quando siamo arrivati era semi-vuota, si è riempita ed è gremita di persone in ogni sua parte, raggruppate in piccoli gruppi che parlottano fra di loro. È per questo che non ho ordinato urlando dal tavolo, perché con tutto questo vociare, quella poverina non m'avrebbe sentito.
Mi faccio strada fra le persone come riesco.
Arrivo al bancone che mi pare d'aver combattuto una guerra, a me che le guerre le ho combattute per davvero, mi fiondo verso la superficie ruvida del legno e ci appoggio le mani, mi aggrappo per tenermi su in piedi e poter parlare con la cameriera.
Mi ritrovo circondato di gente che tenta di fare la mia stessa cosa e mi rendo conto con non poco fastidio che, probabilmente, dovrò aspettare.
Ma sì, dai, me la caverò.
Appoggio solo un secondo la fronte sulle braccia e...
Spento il senso della vista quando chiudo gli occhi, le mie orecchie si aprono, le mie ottime orecchie da soldato che sente i passi dei nemici mentre dorme, e il mondo intorno a me passa dal fare semplicemente rumore ad dire effettivamente parole che comprendo, che capisco e ascolto.
Un tipo vicino a me parla della sua fidanzata, uno dietro di cosa ha mangiato a cena. Qualcuno parla del raccolto, qualcuno del tempo e qualcuno...
Le parole non le capisco.
Mi fermo ad ascoltare.
Mi rendo conto che è proprio con quella povera ragazza della cameriera che parla.
– Sei sicura che non siano passati di qui? Guarda meglio il disegno. L'Elfo più bello che tu abbia mai visto e un Umano al suo fianco. –
– No, giuro che non ho visto niente di tutto ciò, giuro che... –
– Se mi dai una mano ti do una parte della taglia sulla sua testa. –
Oh.
Sono io ubriaco o questo coglione sta parlando di...
– Giuro che non l'ho visto, non ho nemmeno idea di chi sia. Se l'avessi visto te lo direi, ma davvero, davvero, io... –
– Sei sicura? –
– Sì, sono sicura. –
– Merda. Quanto mai può essere difficile trovare un Elfo di merda, Yggdrasill. Dammi una birra. –
Spalanco gli occhi.
Il fatto che stia parlando del mio Elfo mi pare chiaro. È un cacciatore di taglie che cerca qualcuno su cui è stata messa una taglia e che ce ne fosse una sulla testa di Tooru è palese, ma...
L'ha chiamato "Elfo di merda".
Il mio Elfo di merda lui l'ha chiamato...
Mi tiro su e mi sposto dalla sua parte. È l'uomo vestito di nero di prima, mi rendo conto, ed effettivamente avevo percepito già prima che ci fosse qualcosa di strano in lui, ora mi spiego cosa.
Appoggio i gomiti sul bancone e la spalla contro la sua, mi sposto verso la cameriera.
– Una bottiglia di qualcosa di forte. Ne hai una? –
Lei, che sta versando la birra nel boccale per l'uomo vicino a me, alza lo sguardo, sorride e annuisce.
– Arriva subito. –
– Grazie. –
Rimango un attimo in silenzio a guardarla.
Credo di piacerle un po', o le piace il mio vicino, o ha semplicemente caldo, perché ha la faccia tutta rossa.
Sposto il viso di lato.
Il cacciatore di taglie non ricambia, ma io lo osservo e noto le sue orecchie a punta, il colore della sua pelle, l'espressione accigliata.
Credo sia un Elfo, ma solo per metà. Di solito gli Elfi sono più...
– Segui la taglia sulla testa del Principe degli Elfi del Sole? – chiedo, cercando di non biascicare.
Mi nota.
Sbatte le palpebre.
Si gira verso di me.
Sì, è un mezzosangue. Si nota la linea dell'abbronzatura sul ponte del naso e si sa, che gli Elfi non si abbronzano.
– Anche tu? –
– No, ne ho solo sentito parlare. So che cercano l'Elfo, non avevo mai sentito parlare dell'Umano con lui. –
Mi squadra da testa a piedi, poi scuote la testa esasperato e caccia una mano dentro la sua borsa, ne tira fuori un foglio di pergamena tutto stropicciato, lo sbatte sul tavolo.
– Sì, c'è un Umano con lui, ma anche se sono in due sono praticamente introvabili. È impossibile, davvero impossibile, avrei dovuto capirlo quando ho visto la taglia sulla sua testa. –
Mi sporgo verso il foglio che sta lentamente lisciando sulla superficie di legno.
È un cacciatore di taglie scadente, se posso concedermi un giudizio, lo sanno tutti che la prima regola è non condividere le prede, è una competizione, non un gioco di squadra.
Osservo i disegni prendere forma.
– Chi è l'Umano? –
– Lo Sterminatore di Fate. Il comandante del Grande Sterminio, non so se hai presente. –
– Oh, sì, ho presente. E in che rapporti è con il Principe? –
– Gira voce che siano alleati, ma non so... come. –
Come?
Oh, io lo so, come.
In un modo che comprende l'essere nudi e l'essere vicini e il toccarsi e baciarsi e fare tante cose sporche l'uno in presenza dell'altro, più nello specifico uno dentro l'altro.
Ma questo non te lo dico, ok?
Non...
– Guardalo, dimmi se non è facile ricordarsi uno così. E invece non l'ha visto nessuno, non lo trova mai nessuno. O è scomparso o è diventato brutto nel giro di una notte, se no non si spiega. –
Indica il disegno che raffigura Tooru.
Gli fa quasi onore, trovo. Niente fa onore al mio stupido Elfo quando se stesso, ovviamente, e nessuna descrizione a parole o disegnata potrà mai equiparare la sua bellezza e quanto ti lasci senza fiato quando lo vedi, però...
Ci somiglia.
Ci somiglia parecchio.
Io, invece...
– Mi hanno fatto brutto. Non sono così brutto, cazzo, ti sembro così brutto? –
– Eh? –
Alzo lo sguardo verso il cacciatore di taglie.
– Sono molto più bello di così! Sembro uno schifo, di fianco a Tooru poi sembro proprio una merda. Che stronzi, mi hanno fatto orribile. –
Indico il disegno che dovrebbe raffigurarmi.
– Dai, dimmi che non sono così o mi ammazzo. –
– Tu sei... –
– Bellissimo, lo so. Un figo senza senso, l'uomo più sexy del mondo, spettacolare, meraviglioso. E invece mi hanno fatto brutto. –
– Sei lo Sterminatore di Fate? –
Alzo le sopracciglia.
Ah, forse non dovevo dirlo.
Ma sì, poco male, finché non sanno dov'è la mia bella principessa io so difendermi da solo.
– Sì, sì, anche, ma non stavamo parlando di questo. –
– Quindi tu... –
– Sì, ho ucciso le Fate, sono cattivo, probabilmente ora ti ammazzerò. Ma comunque resta il fatto che non sono così brutto. –
– Vuoi ammazzarmi? –
Sbatto le palpebre.
Sono un po' offuscato.
Però...
– Beh, certo. Hai chiamato il mio Elfo di merda "Elfo di merda", è ovvio che voglio ammazzarti. Chi ti ha dato il permesso? –
– Io ho... –
– La vita è così, un giorno ti va bene, quello dopo ti va male. Prendila con filosofia, potevi morire in un modo stupido, potevi cadere dalla finestra. –
Quello che si dipinge nei suoi occhi è... terrore.
Puro terrore.
Se fossi in grado di provare pietà forse mi farei trascinare da quel terrore.
Ma...
La bottiglia atterra al mio fianco, la cameriera mormora un "ecco a te".
La prendo, tiro via il tappo di sughero coi denti.
– Daichi! – urlo, più forte di tutto il marasma che quando dico quel nome per un attimo si ferma, si arresta.
Sporgo il viso per cercarlo.
È mezzo accasciato sul tavolo, ma tira su la testa.
– Dimmi, idiota. –
– La facciamo una rissa, Daichi? –
La luce nei suoi occhi cambia.
– Ora? –
– No, domani. Ora, certo che ora. –
Stende le braccia in avanti.
Come un gatto, prima si stiracchia e poi si tira su, la testa che ruota sul collo, il mento che si sposta in alto e in basso.
– Ok, ok, arrivo. Chi dobbiamo picchiare? –
– Io meno lui, tu trovati qualcuno. –
– Devo trovarmelo da solo? –
– Certo che te lo trovi da solo, che sono, tua madre? –
Alza le spalle.
– Ok, ok, non ti offendere. Che permaloso. Che hai là? Vino? –
– Non so cosa sia, ne vuoi un po'? –
– Forse. Aspetta che arri... –
Appoggio il collo della bottiglia alle labbra, lo tiro su e sento il liquido spandermisi sulla lingua. Non è vino, o se è vino è un vino Elfico, perché è dolce, dannatamente dolce.
Ne prendo un altro sorso.
La testa inizia a girare più forte e la coscienza sembra sparirmi al fondo del cervello.
– Ne prendiamo un'altra bottiglia. Questa... –
Mi giro verso il cacciatore di taglie che è impietrito, impossibilitato a scappare dal marasma di persone che ci circondano, fermo immobile con il disegno di Tooru ancora aperto sul bancone.
Sorrido.
Mi bacio la punta di una mano e poi l'appoggio sulla pergamena.
– Quanto sei bello, sei così bellino, che carino che sei. Il mio piccolo Elfo scemo che amo tanto. Quanto sei carino, quanto sei... –
– Ti prego non uccidermi. Ti prego, ti pre... –
Oh, mi devo essere distratto.
Dovevo...
Alzo le spalle.
– Scusa, niente di personale. –
Prendo un altro sorso.
Mando giù, sorrido. Dietro di me il rumore di qualcosa che si schianta mi dice che Daichi ha trovato qualcuno che non gli piaceva.
Sospiro.
E poi schianto la bottiglia in testa al povero, sfortunato, infelice, cacciatore di taglie di fronte a me.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
➥✱"ràs" in gaelico significa "sentiero"
OK ALLORA lo so che ogni volta mi scuso duemila volte quindi vi risparmio il pippone però davvero ho avuto dei casini e un momento un po' difficile ma l'importante è che SONO VIVA E VEGETA ECCOMI IM BACK BITCHES
spero che il capitolo vi sia piaciuto !!! vi prego ditemi qualcosa perché è la prima cosa che scrivo dopo il mio momento no con la scrittura e spero davvero che non sia uno schifo D:
cerco fra qualche giorno di mettere anche new americana e di riprendermi totalemente
buon anno nuovo!
un super mega bacio
mel <3
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