𝗺𝗶-𝗮𝗱𝗵𝗮𝗿𝘁𝗮𝗰𝗵
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Lascio che la mia spalla si appoggi contro il muro di mattoni al mio fianco. Stringo gli occhi, pizzico il centro delle sopracciglia fra le dita, sospiro, serro le palpebre nel tentativo di bloccare la luce del Sole che sembra volermi pugnalare le tempie, mi rilasso.
Mi fa male la testa, cazzo.
La birra magica che ho bevuto nella locanda al Branco qualche giorno fa non mi ha fatto quest'effetto.
Che cazzo ci hanno messo dentro a quel vino di merda che mi sono scolato ieri sera? Il disinfettante? L'alcol puro? Sento l'emicrania infilarsi dentro le mie cavità oculari, permeare tutto il mio cervello dall'interno, pungermi addirittura i neuroni, persino i pensieri mi sembra mi facciano male e per quanto riesca a limitare il dolore se sto facendo qualcosa, ora, che aspetto e basta, proprio non riesco a non considerarlo.
Io non devo bere, cazzo.
Ogni volta che bevo lo penso, ogni volta, ogni volta che mi sveglio devastato mi riprometto che sarà l'ultima e ora, ora lo sto facendo di nuovo.
Non berrò mai più.
Mai una goccia, mai neanche un millimetro, mai.
Chissà cosa cazzo mi ha detto il cervello.
Cosa diavolo mi sono messo a fare a...
Una persona mi passa di fianco, chino il capo, tiro meglio il cappuccio sul viso, cerco di scomparire.
Non c'erano già abbastanza problemi, eh, Iwaizumi? Non c'era già il padre del tuo Elfo di merda che cerca di ucciderti perché gli hai rubato il figlio, no, non bastava. Dovevi pure fare una rissa mastodontica in una locanda super frequentata, dovevi anche distruggere tutto e ammazzare tre o quattro cacciatori di taglie al grido di "io sono molto più fico di così".
Cazzo, e alla mia età, poi.
Uno suppone che passati i vent'anni ci si svegli un po', si diventi un po' più oculati, un po' più cauti, e invece no, invece basta un sorso di vino, un amico che non vedevo da una vita, ed eccomi ad atteggiarmi come se fossi un cretino di merda senza uno straccio di problema dalla vita.
Vorrei picchiarmi da solo.
Se non ci fosse già il mal di testa a punirmi per la mia stupidità, giuro che lo farei.
Idiota, scemo, coglione di merda di un Hajime che a quasi sessant'anni non sai ancora come cazzo comportarti. E se fosse andata a finire malissimo e qualcuno t'avesse visto? Se ti avessero arrestato? Se qualcuno t'avesse riconosciuto?
E se qualcuno avesse trovato Tooru perché tu hai deciso di...
Strizzo gli occhi più forte e sbatto piano la fronte contro i mattoni.
No, non è successo, non è andata così, non pensarci. È vero che hai fatto una stronzata ma non crocifiggerti per un'eventualità che non è accaduta, che se inizi a rimuginare su Tooru poi davvero finisci a picchiarti da solo.
Tooru sta bene.
Daichi ha detto che Suga sta bene e se Suga sta bene anche Tooru sta bene.
Tooru è in un posto dove non possono trovarlo.
Tooru è al sicuro.
Tooru sta bene.
Ripetermelo ossessivamente mi calma, e nonostante senta l'ansia formarmisi dentro al petto e fiorire in un rampicante che mi strizza lo stomaco, navigare nell'idea che non sia successo niente mi aiuta.
Alla fine se m'avessero preso avrei trovato un modo per cavarmela, ne sono convinto.
Il panico puro arriva solo quando so che non è la mia, ma la sua vita ad essere in pericolo.
E finché Tooru è al sicuro, allora sono certo che qualsiasi cosa possa succedermi, sarà al sicuro anche tutta quella parte di me che mi rende un essere vivente.
Respiro a pieni polmoni.
Va tutto bene.
Va tutto bene, va tutto...
Di ieri sera non ricordo perfettamente ogni dettaglio, diciamo che alcune parti sono molto confuse, molto rumorose, molto incasinate, però non è nemmeno vuoto totale. So che ad un certo punto Daichi era senza maglietta sopra un tavolo e che qualche secondo dopo si stava lanciando contro qualcuno come se si stesse tuffando in acqua, so che ho rotto una sedia in testa a qualcuno, che la locandiera si è nascosta sotto il bancone per più di metà della serata e che qualcuno ha provato ad accoltellarmi con un pezzo di vetro che per poco non mi cavava un occhio.
So poi che mi sono svegliato a pancia sotto, sdraiato a pelle d'orso su un campo a pochi metri dal villaggio in cui siamo ora e che, a parte l'essere diventati due ricercati di volto ignoto per la distruzione della locanda, nient'altro è cambiato.
Daichi sembra essere messo un po' meglio di me, comunque. O almeno lo sembrava stamattina mentre cercava disperatamente la maglia che, ovviamente, non ha ritrovato. Diciamo che si reggeva in piedi meglio di me, ecco, e che è lui che ha trascinato me verso il fiumiciattolo vicino per cacciarmi la testa dentro l'acqua gelida e cercare di farmi rinsavire.
È per questo che ora ho mandato lui.
È per questo che ora lo sto aspettando.
Solo che nonostante la mia stima del tempo solitamente sia pressoché perfetta, al momento, devastato dall'emicrania, ogni secondo sembra infinito e mi sembra di averlo visto entrare nella bottega su cui sono tanto educatamente spaparanzato almeno dodici anni fa.
Dio, devo davvero smettere di bere.
Non è possibile che io non abbia creato nemmeno un briciolo di tolleranza in sessant'anni che sono al mondo.
Non è davvero umano.
Ho combattuto battaglie praticamente aperto in due dalle ferite dei nemici e comunque, nonostante tutto, il mio più grande nemico rimane un cazzo di frutto fermentato dentro una botte.
È pur onesto che io debba avere delle debolezze, ok, lo comprendo, ma per Yggdrasill, mi bastava l'Elfo scemo autodistruttivo che attira l'attenzione come miele per le api, anche questo è davvero meschino.
Forse dovrei diventare astemio.
Dovrei appendere il boccale al chiodo e smettere per sempre.
Non fa per me, non dovrei.
Però...
Sento la porta cigolare e il campanellino attaccato all'entrata tintinna a comunicare che qualcuno sta uscendo, prendo fiato a pieni polmoni e mi tiro su, lasciando perdere le mie tendenze alcoliste in favore di pensieri che, di sicuro, sembreranno meno pesanti al mio povero cervello devastato.
Vedo prima del viso le spalle del mio migliore amico, girato indietro, che ringrazia verso l'interno del locale, poi si gira, esce e sospira dalla mia parte.
Non è che lui sembri poi tanto più fresco di me, eh. Ha le ombre sotto gli occhi e i capelli spettinati, le mani un po' gli tremano quando si tira su il cappuccio sul viso, forse non è che fosse poi messo molto meglio.
Sospira di nuovo.
Mi guarda.
Prende fiato per parlare.
– Mi hanno raccontato un sacco di cose interessanti, sai. A quanto pare è cambiato davvero tutto da quando noi ce ne siamo andati. –
Alzo un sopracciglio.
– Li hai convinti a raccontarti vita morte e miracoli del Regno negli ultimi vent'anni? –
– Oh già. –
– Come hai fatto? –
Gli Umani sono di certo un popolo più affabile degli Elfi, sicuramente più degli Gnomi e dei Mutaforma, ma da qui a dire che racconterebbero ad un forestiero che pare non esser vissuto da queste parti da decenni, ecco...
– Col mio charme, ovviamente. –
Lo guardo negli occhi.
– Daichi, fai letteralmente cagare oggi. –
Capitola ridacchiando.
– Ho pagato. –
– Ah, ecco, così mi sembra più probabile. –
Ridacchio con lui, mi stiracchio la schiena, aspetto che si muova per arrivare al mio fianco e non appena ricominciamo a camminare, lo ascolto raccontarmi cos'ha scoperto.
– Il Re, il nostro, è morto sei anni fa. Ora ce n'è un altro. –
Sposto il viso verso di lui.
– Davvero? Il bastardo è andato? –
– È andato, si è ammalato ed è morto nel giro di un paio di mesi. Yggdrasill, mi sono sentito davvero un alieno a sentirlo dire così. Non ne avevo idea. –
– Neanche io, zero. –
Un po' devo persino dire che mi dispiace.
Ho sempre saputo che non sarebbe mai successo, ma la prospettiva di poter essere io a concludere la vita della persona che ha fatto uccidere mia madre ha sempre fatto parte dei miei più intimi desideri.
Tanto vale.
Spero almeno che abbia sofferto come un cane.
– A quanto pare poi c'è stata una guerra civile fra i quattro figli del Re. Se la sono vista brutta tutti, mi hanno detto che il popolo è quasi morto di fame durante quel periodo. –
– Chi ha vinto alla fine? –
– Nessuno dei quattro. Almeno, teoricamente il più piccolo ha fatto uccidere gli altri e si è seduto sul trono, ma l'hanno fatto secco in una rivolta civile poco prima dell'incoronazione, quindi alla fine non è mai stato effettivamente Re. –
– E allora chi è il Re ora? –
– Questa è la cosa più strana di tutte. –
Sento la curiosità inerpicarmisi sulle spalle, è un posto che non frequento da anni e nel quale non ho intenzione di ritornare, ma è stato la mia vita per tanto tempo e sapere che così tanto è cambiato mentre giocavo a fare il padre single eremita nel Bosco Proibito è comunque inaspettato.
– A quanto ho capito si è presentato dal nulla un figlio illegittimo e l'hanno fatto salire al trono. –
– E sarebbe strano? A me sembra logi... –
– Fammi finire, cazzone, non è questa la parte strana. –
Alzo le mani e lascio perdere, gli faccio cenno di continuare.
– È un mezzosangue. È per metà un Elfo Silvano. Questi stronzi hanno veramente fatto salire sul trono un mezzosangue. –
Ok, questo mi stupisce. Daichi aveva ragione, questo è davvero assurdo.
Gli Umani?
Con un mezzosangue?
Loro che odiano chi ha anche solo una goccia di sangue magico perché non possono far altro che invidiarne tutte le qualità?
– Stai scherzando? –
– No, assolutamente no. Ci sono rimasto anch'io quando me l'hanno detto, ma è così, il Re del Regno degli Umani ora è un mezzosangue. –
– E il Concilio Ristretto non ha detto niente? Questo è arrivato così, ha detto "mio padre era il Re", l'hanno preso e messo sul trono e via così? –
– Il Concilio Ristretto è stato destituito dalla rivolta che ha ammazzato l'ultimo erede legittimo. Sono stati i cittadini ad averlo messo là. –
– Nel senso che l'hanno... –
– Eletto, sì. So quanto sembri fuori di testa, ma l'hanno eletto. Nel giro degli anni che noi abbiamo passato a riprenderci da quello che ci ha fatto questo posto pare che alla fine le cose siano veramente andate come dovevano andare. Alla fine i bastardi sono stati tutti fatti fuori. –
Mi guardo le mani dall'alto, le cicatrici e le ferite rimarginate sulla mia pelle che vivere in quel posto mi ha procurato, lascio che i ricordi fluiscano nella mia mente per un istante.
Capisco cosa intende Daichi, nessuno meglio di me potrebbe farlo.
Alla fine tutti i nodi vengono al pettine, no?
Chissà proprio perché dopo che me ne sono andato, chissà se fosse andata così qualche anno prima, chissà se i problemi fossero stati risolti prima che quei vermi mi rendessero il genocida della mia stessa razza, chissà...
No, questa speculazione non ha senso.
Se avessero provato a ribellarsi prima che me ne andassi, la loro ribellione sarebbe durata poche ore.
La mia assenza era indispensabile perché questo posto andasse avanti.
Non potevano farlo, quando io ancora c'ero, perché nonostante i dissidi interiori che mi hanno martoriato ogni giorno nella mia vita da soldato, io non ho mai disobbedito ad un ordine.
Li avrei uccisi tutti.
Ero parte del problema, se non il suo fulcro vitale, anche io.
Lascio perdere cercando di respirare e pensare che comunque sono contento che alla fine tutto si sia risolto per il meglio.
– E come ti sono sembrati ora? Come vivono? Sono più contenti? –
– Contenti non lo so, ma mi sembrano in pace. Guardati attorno, quando c'eravamo noi c'era molta più gente che crepava di fame. –
Mi guardo attorno, come m'ha detto.
Ha ragione.
I medicanti ci sono, e il popolo è sempre il popolo, però non ci sono le stesse facce emaciate e sfinite dalla fame, le stesse orde di bambini con i polsi ossuti che ti guardano come se anche solo vivere fosse uno sforzo enorme. Non c'è più il terrore negli occhi delle persone che mi guardano passare, ma credo che quello non sia perché ora c'è un Re più magnanimo, credo sia perché nessuno sa più chi sono.
Non mi manca quella sensazione.
È strano, pensarci.
All'epoca era l'unica cosa che volevo. Ho impiegato sangue, sudore, fatica e tempo solo per poter avere quell'unica cosa. Era tutto ciò che m'importava. Poter camminare fra le persone e non essere più il mezzosangue che le Fate trovavano aberrante ma essere rispettato, persino temuto, era l'unico obiettivo che avevo.
Mi faceva sentire forte, vederli tremare alla mia sola vista. Mi faceva sentire importante quella deferenza spaventata di chi nemmeno osava avvicinarmi, perché aveva paura di me, perché sapeva che niente e nessuno avrebbe potuto fermarmi.
Mi rendo conto solo ora di quanto in realtà fossero tutte stronzate.
Non è la paura nei volti di povere persone che muoiono di fame, a renderti forte.
Quello ti rende solo.
Essere forte è guardare gli occhi scuri di un Elfo che non è un Elfo brillare quando sorride e sapere che il motivo per cui sta sorridendo sei tu.
– Sono cambiate tante cose, in effetti. Quasi non sembra più lo stesso posto. – commento, dopo un attimo.
Vedo Daichi sorridere con la coda dell'occhio.
Mi sa che stava pensando qualcosa di molto simile a quello che stavo pensando io.
– È un sollievo. – risponde.
– Davvero. –
Sbatte la spalla contro la mia, perdo un attimo l'equilibrio così difficilmente riacquistato dopo la serata di ieri e mi aggrappo al suo braccio per non cadere, m'insulta, io lo insulto, ricominciamo a camminare ridendo.
Forse c'è anche qualcosa che non è cambiato.
Sono genuinamente contento di constatare che è l'unica cosa che ho sempre sperato non cambiasse.
Stiamo camminando da un'ora e mezza quando, col Sole che piano piano si ritira dando accesso al pomeriggio più inoltrato, le suole dei miei stivali calpestano la ghiaia di un posto che ancora più del villaggio in cui eravamo poco fa mi ricorda un'esistenza che pare essere quasi un'altra vita.
Le guglie di pietra del Palazzo Reale si stagliano all'orizzonte, le grandi vetrate riflettono i colori sui tetti delle case di fronte, lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli si mescola con le voci delle persone che stanno ritirando le loro bancarelle del mercato in vista della sera.
Mi sembra davvero di ritornare indietro nel tempo, in quest'istante.
Mi sembra di sentire il peso delle spade sulla schiena e la sensazione della divisa di pelle sul corpo, di avere meno anni di quelli che ho, molti meno problemi. Mi sembra d'averne venti, trenta, e di aver appena finito di discutere con Daichi se sia più carina la figlia dell'ambasciatore degli Elfi della Luna o lo stalliere nuovo che hanno assunto una settimana fa.
Di sicuro era un'altra vita.
Di sicuro ero un'altra persona.
Non so se mi sento più nostalgico, sollevato o semplicemente stranito.
Tante cose non sono più le stesse, anche lo sfarzo del palazzo pare ora molto più attenuato, però il modo in cui le strade s'incontrano, il colore dei mattoni, anche solo l'odore sono esattamente gli stessi.
Sono identici la disposizione delle botteghe, la forma delle case, la guardia reale che...
Prendo Daichi per la manica della camicia, getto me e lui di lato verso una delle traverse, mi risistemo il cappuccio sulla testa.
– La guardia? – mi chiede.
– Già. –
– Dici che ci riconoscono anche così? –
– Dico che è meglio non rischiare, visto che siamo anche ricercati per il casino di ieri. –
– Ah, vero, me n'ero dimenticato. –
– Ecco, non dimenticartene. –
C'infiliamo più in fondo nella stradina.
È più stretta, più buia di quella in cui eravamo prima. Si dirama in altre viuzze che riconosco istintivamente, che percorro come se non fosse passata un'ora dall'ultima volta che le ho attraversate.
– Perché stiamo andando verso l'ala est? –
– Perché pensavo che potremmo arrampicarci su uno dei torrioni. –
– E dici che nessuno si accorgerebbe che ci stiamo arrampicando? –
– Se passiamo dall'interno no. –
Abbassa il tono della voce quando una persona ci passa accanto, lo sento respirare, meditare sulla mia proposta.
– E se invece ci infilassimo dal campo di addestramento? È quasi ora di cena, se evitiamo la vedetta possiamo infilarci nello spogliatoio, rubare le divise e passare di là. –
Stringo le labbra.
– Sì, anche, non è una brutta idea. Così magari me ne prendo anche una nuova, di divise. –
– Hai perso quella che avevi? –
– Me l'hai maciullata l'ultima volta che ci siamo visti, cretino. –
– Ah, vero. –
Lascio vagare lo sguardo attorno a noi, non c'è quasi nessuno a quest'ora qui, il mio istinto ha fatto bene a portarmi da questa parte.
– E non l'hai mai fatta riparare? La divisa, dico. –
– Ho chiesto all'Elfo di farlo. –
– E non c'è riuscito? –
Sospiro, il ricordo mi fa ridere.
– Me l'ha ricamata di fiori rosa. –
– Eh? –
– Giuro. Quando l'ho rimessa a posto e l'ho vista non sapevo se ridere o piangere. –
– Non ti sei neanche incazzato? –
Alzo le spalle.
– Ma l'hai visto? Come fai ad incazzarti con lui? È impossibile, fidati. –
– A me sembra possibilissimo. –
– Sì, perché sei cretino. Ti assicuro che se fossi normale saresti d'accordo con me. –
Mi colpisce piano col gomito, ride palesemente di me.
– Ti tiene proprio per le palle, il ragazzino, eh? –
Alzo gli occhi al cielo.
– Vorrei negare ma detesto mentire. –
– Ecco, almeno lo ammetti. –
Non è colpa mia, ok? Non è nemmeno una colpa, a dirla tutta. Ci ho combattuto tutta la vita con l'idea che legarsi era esporsi e amare era essere vulnerabile, ora che sto finalmente vincendo questa battaglia mi rifiuto di cedere alle sue prese per il culo.
Sì, ok, l'Elfo mi tiene per le palle.
Fossero solo quelle, poi.
No, no, l'Elfo mi tiene tutto intero sul palmo della sua bella mano affusolata e se volesse fare di me una polpetta e calpestarmi senza pietà a me andrebbe comunque bene.
A questo punto non m'imbarazza nemmeno dirlo.
Sento la mano di Daichi avvolgersi sul mio braccio e spostarmi, mi lascio trascinare, giriamo l'angolo e sento qualcuno passarci dietro, non mi giro a guardare, mi fido del suo giudizio.
– Guardie? –
– Non sono sicuro, ma meglio troppo cauti che impiccati in piazza. –
– Sono d'accordo. –
Ricominciamo a camminare.
La porta laterale sulla Caserma, l'edificio sull'ala est del Palazzo, spunta dal fondo del viottolo in cui siamo infilati.
Aguzzo lo sguardo per cercare la familiare presenza delle guardie a lato dell'entrata.
Sono là, come al solito, come ricordavo, due persone fra il ferro della cancellata d'ingresso, in divisa e bardate a far di vedetta.
Questo posto è cambiato, ma è anche prevedibilmente uguale.
Ci fermiamo poco prima che la strada finisca. Ci sono una decina di metri di terra battuta, tra il termine della via e la Caserma, che percorrere ci esporrebbe, quindi, giusto perché con l'età non dico arrivi la saggezza ma quantomeno la paura di rimetterci la pelle, pare ad entrambi una buona idea fare mente locale.
Sia io che Daichi ci guardiamo per bene attorno.
Il Sole sta sparendo, il cielo si è tinto del blu scuro della sera, si sente casino provenire dall'interno e quel genere di casino è uno che entrambi conosciamo bene. È il casino di ventenni cretini che dopo aver passato la giornata a sudare nella polvere mangiano tutti assieme raccontandosi le peggio porcate che la mente umana possa produrre.
Aveva ragione, siamo arrivati giusto per ora di cena.
– Non c'è l'ombra di un cretino, solo i due di vedetta. – constato, dando adito a quello che il mio migliore amico aveva detto prima.
– Io l'ho sempre detto che era da incoscienti andare tutti a cena e lasciare solo due persone fuori, comunque. Avranno anche eletto il Re ma sono rimasti tutti coglioni. –
– Ma stai zitto, che eri sempre il primo a prendere da mangiare. T'avrebbero potuto invadere casa e tu saresti rimasto là a sfondarti di cibo. –
– E io mica ho detto che ci dovevo essere io a far di vedetta, solo che dovevamo metterci più di due persone. –
– Tutti passivi col culo degli altri, eh? –
Mi colpisce un braccio.
– Ah, lascia perdere. Che facciamo, con quei due, li ammazziamo? –
Scuoto la testa.
– No, no, non ce n'è bisogno. Basta che dormano un po'. –
– Li attiriamo qua o ci avviciniamo noi? –
– Li attiriamo qua. –
– Come? –
Daichi ghigna.
– Facciamo finta di fare sesso nel vicolo e aspettiamo che vengano a dirci che non si può fare in pubblico. –
– No, scordatelo. Non ha mai funzionato. E non ho capito perché sono sempre io quello che si deve abbassare le mutande. –
– Scusa e tu come lo fai, sesso? Vestito? –
– Si ma perché tu ti slacci i pantaloni e basta e io invece devo stare col culo all'aria come un coglione? –
– Beh, ovviamente perché io starei sopra, se facessimo sesso. –
Aggrotto le sopracciglia.
– E perché mai tu dovresti stare sopra? –
– Perché il mio è più grosso e il tuo culo è più bello. –
– Il tuo non è più grosso ma sì, il mio culo è più bello. –
– Lo è, lo sai che lo è. –
– No che non lo è. –
– Ti dico di sì. –
Daichi mi afferra la cintura dei pantaloni e lo vedo stringere e so che sta per cercare di calarmi le braghe quindi d'istinto gli tiro un calcio, cade di lato, metà della sua faccia spunta fuori dalla strada.
Si tira su sulle ginocchia in un attimo.
Si riattacca ai miei pantaloni.
Io lo prendo per i capelli e cerco di tirarlo indietro.
– Smettila, Daichi, che cazzo stai facendo? –
– Voglio vederlo! Io lo so che menti, io voglio vederlo e farti vedere che... –
– E allora abbassateli prima tu, faccia di merda, smetti di... –
Lo tiro più indietro, lui si aggrappa più forte, cerco di calciargli un ginocchio ma a parte un grugnito di dolore non ottengo niente, inizio a vedere i lacci dei pantaloni farsi più tesi, lo colpisco di nuovo.
– Lascia i miei pantaloni, molla! Molla o ti spacco il culo, molla, Daichi! –
– Tirateli giù! Voglio vederlo, ho detto! –
Sto alzando anche l'altra mano per spingerlo definitivamente via dai miei pantaloni quando – nel marasma nessuno dei due se n'era accorto – mi rendo conto che ci sono passi e i passi sono troppo vicini a noi e che...
– Cosa sta succedendo, qui? –
Così, esattamente come sono, coi pantaloni che stanno per cadermi alle caviglie e una mano fra i capelli di Daichi in ginocchio di fronte a me giro la testa di novanta gradi verso destra.
Oh.
Le vedette.
Non mi ero reso conto che...
– Allora, che state facendo? –
Sbatto le palpebre.
A questo punto direi che tanto vale...
Mi schiarisco la voce.
– Sesso nel vicolo. C'è una legge contro il sesso nei vicoli? –
Guardo Daichi con la coda dell'occhio.
Ha la mia stessa identica espressione.
Indecifrabile, ma convinta.
– Ora, se non avete rimostranze noi stavamo per... –
Le guardie ci fissano per un attimo.
Uno dei due, chiaramente più giovane, diventa così rosso che inizio a temere per la sua salute.
L'altro, egualmente imbarazzato ma credo grande abbastanza per dissimularlo, si limita a schiarirsi la voce.
– Mi dispiace dovervi interrompere ma non si può qui. Siete davanti al Palazzo Reale, non vorrete mica che qualcuno passi e vi veda, no? –
Daichi scuote la testa.
– Come no? È proprio per questo che siamo qui, – mi tira una pacca sulla coscia – al ragazzone piace farlo in pubblico. –
Gli tiro più forte i capelli nella speranza di staccarglieli tutti dal cranio.
Sorrido con la guancia stretta fra i denti.
– Già, mi eccita un sacco. –
La guardia si strozza con la saliva. Tossisce un attimo, poi ricomincia a respirare, cerca le parole da dire a fatica.
– Ok, ok, capisco, però dovete pensare che ci sono anche altre persone e che magari a loro non va di vedervi e... –
– A chi non andrebbe di vederci? Si fidi, dopo che avrà tirato fuori le chiappe non la penserete così. Su, Iwa, tira fuori le chiappe, fagli vedere che... –
– Daichi, giuro su Yggdrasill che ti ammazzo. –
– Amore, sei sempre così aggressivo, come devo fare con te? –
– Ti ammazzo e poi ti resuscito e poi ti ammazzo di nuovo. –
Si gira verso le guardie, scuote la testa tutto convinto.
– È proprio un ragazzaccio. –
Sono a tanto così dal dimenticare qualsiasi piano potessimo avere in mente e dedicarmi all'unico intento di fare di Daichi concime per campi che quello rosso, quello giovane, sembra rinsavire e riprendersi.
Scuote la testa, poi mi guarda meglio e poi ancora strabuzza gli occhi per carpire meglio i dettagli del mio viso coperto e...
– Iwa per Iwaizumi? Iwaizumi Hajime? Quello è per caso... –
Lascio andare Daichi.
– Tu quello a destra. – gli dico.
– Agli ordini. – risponde.
E cinque minuti dopo, le guardie svenute e legate come salami nel vicolo, sto resistendo all'istinto di prendere Daichi a calci nel culo mentre s'infila di fronte a me nello spogliatoio dell'esercito a luci spente, nel silenzio tombale della Caserma vuota.
Parlo con la voce ridotta ad un filo.
– Se provi a raccontare a Tooru di questa cosa, Daichi, se solo provi a dire a Tooru che... –
– Non farla lunga, ha funzionato, no? –
– Ok che ha funzionato, però se provi a raccontarglielo, che Yggdrasill m'assista, io giuro che... –
– Sì, sì, mi fai in quattro, mi fai mangiare dai cani, mi rompi le ginocchia e mi leghi dietro ad un cavallo. Non mettere il muso, trova una divisa che ti stia e cambiati. –
Sospiro.
– Dovevo ammazzarti vent'anni fa. –
– Sì, come dici tu. –
Chiudo la porta dietro le mie spalle e mi premuro di girare il chiavistello, aspetto che Daichi apra un po' l'unica finestra per far entrare un po' di luce.
Ci sono le divise tutte ammassate le une sulle altre com'era quando le usavamo noi, lascio cadere la borsa dalla spalla e mi concentro sui vestiti sospirando di nuovo, giusto per manifestare che sono ancora contrariato.
Daichi ridacchia, nulla di più.
Ne trovo una adatta dopo qualche minuto, la sfilo e la lancio verso il mio amico, ricomincio a guardare.
– Dici che mi entra? –
– Tu prova. –
– Ah-ah, ok. –
Verso il fondo ne trovo un'altra, la tiro fuori, inizio a svestirmi cercando di estirpare dalla mia mente l'idea che qualche secondo fa il mio migliore amico stesse provando a farlo con pessimi – o forse ottimi, dipende dai punti di vista – risultati.
Il cuoio delle armature è sempre lo stesso, marrone scuro, spesso, rigido contro la pelle, che si attacca al corpo e segue bene i movimenti. È più pesante del materiale dei vestiti che uso sempre, ma è comodo, più comodo, e mi ricorda qualcosa di familiare.
Mi lego la cintura per bene, ci infilo la spada girata al contrario per nascondere l'intarsio dell'elsa, mi guardo le braccia nude.
Teoricamente ci si dovrebbe mettere sopra tutta una serie di altre protezioni d'acciaio, quando poi si va effettivamente in guerra.
A me m'hanno solo e sempre rallentato.
Così sono molto più comodo.
Nascondo tutti i vestiti dentro la borsa, la mollo nascosta in un angolo. Non c'è niente di importante dentro, se avrò tempo di riprenderla lo farò, altrimenti rimarrà qui.
Guardo Daichi sistemarsi il laccio dietro la schiena, torno verso la porta.
– Dai, muoviti, che fra poco rientrano a mettere a posto. –
– Sì, sì, ci sono. –
Lo fa passare un paio di giri di fronte alla vita, come faceva quando quella divisa era effettivamente la sua, e poi lo lega.
– Andiamo. –
Sgancio il chiavistello, apro la porta e col passo praticamente impercettibile, ci addentriamo verso i corridoi di pietra.
Conosco questo posto come il palmo della mia mano.
A pochi metri di distanza c'è un corridoio sotterraneo, stretto stretto, che collega la Caserma al Palazzo, ed è là dove siamo diretti. Passiamo l'Infermeria, le stanze da letto dei soldati semplici, ad ogni passo vedo scene che credevo di aver dimenticato, vivo ricordi che sono indelebili, nella mia mente.
Non ho voluto cambiare stanza fino alla morte di mia madre.
Nonostante fossi salito di rango, e Daichi con me, nel giro di poco tempo, ci rifiutammo entrambi di farci trasferire di stanza all'epoca, rimanemmo qui.
Quello che i Re non capiscono, i Baroni, i Duchi, gli Aristocratici in generale che ordinano e chiedono e pretendono e si stupiscono quando gli viene negato, è che per comandare non puoi avere solo il potere, ti serve anche il rispetto.
Io i nobili li ho sempre disprezzati, per questo.
Loro credevano che bastasse qualcosa di così stupido come un titolo per poter abbaiare ordini e avere tutto quello che volevano, ma il loro era un potere vuoto, un potere inutile, di chi alla fine deve sempre guardarsi le spalle perché è talmente sostituibile che nessuno s'accorgerebbe se di punto in bianco cambiasse persona.
Mi guardavano, ci guardavano dall'alto in basso, come feccia, come animali, come se avessimo dalla nostra solo un po' di rozza forza fisica.
Però i miei uomini non mi hanno mai tradito.
Loro sono sempre stati volatili e temporanei come la neve che si scioglie al Sole.
Per questo non cambiammo stanza, allora.
Per dimostrare che non eravamo cambiati.
Per dimostrare che non avevamo intenzione di vivere vite più facili giusto perché avevamo un briciolo di talento in più.
Perché sono stato un mostro tanto tempo, qui dentro, ma ho sempre cercato di esserlo per chi mi era contro e non per chi mi era di fianco.
– Il laboratorio è sull'ala est o sulla ovest? Ti ricordi? Io proprio non ci riesco. –
Riemergo dai miei pensieri con calma.
– Ovest, mi pare. Primo piano, dietro allo studio, dopo la biblioteca. –
– Ah, già, è vero. Da dove passiamo? –
– Dalle scale, non possiamo arrampicarci dall'esterno perché attirerebbe troppo l'attenzione. A quest'ora della sera non dovrebbe esserci nessuno. –
– Ok, come dici tu. Se becchiamo qualcuno? –
– Fai quel che devi, Daichi. –
– Preferirei se non uccidessimo nessuno. –
– Anche io, ma se ci troviamo costretti non vedo che altro fare. –
– Sì, su questo hai ragione. –
Lo sento appoggiare una mano sulla mia spalla da dietro, il corridoio è troppo stretto perché riusciamo a camminare fianco a fianco, stringe piano le dita sulla divisa.
– Quando arriviamo alle scale poi fai andare me, davanti, però. –
– Non è meglio che stia io? Mi ricordo la strada meglio di te. –
– No, non si manda il Comandante in avanscoperta. –
– Io non sono più il Comandante, Daichi. –
– Per me lo sarai sempre un po'. –
Ridacchio, lascio perdere facendo spallucce, ci addentriamo più profondamente nel corridoio. Nella parte centrale le lampade ad olio si fanno più rade, più rarefatte, e ci sono momenti di buio completo. Quando l'ho percorso le prime volte, a quindici, sedici anni, mi terrorizzava, ma ora mi rendo conto più lucidamente che non c'è nulla di cui avere paura, piccolo com'è si sentirebbero i passi delle persone minuti prima di vedersele apparire di fronte.
L'uscita è su una porticina di legno che dà al piano sotterraneo del Palazzo, nelle dispense, e quando mi ci ritrovo di fronte ne apro solo uno spiraglio.
Non sento niente dall'altra parte, esce solo un filo di luce.
Prendo fiato e ci passo attraverso.
Non c'è nessuno.
Faccio cenno a Daichi di entrare.
Mi segue con la bocca serrata.
Seguendo i ricordi e l'istinto esco dalla dispensa e mi addentro di più nei sotterranei. Al fondo del corridoio c'è una scala a chiocciola, che sale e scende.
Su ci dovrebbero essere il primo piano e il piano terra, sotto...
Sotto ci sono le segrete.
Non voglio pensare alle segrete.
Niente di quello che accade là vale la pena di essere ricordato.
Ascolto qualche istante sulla tromba delle scale, quando i passi mi sembrano essere diradati, inizio a salire.
Gli scalini sono ripidi, lisciati dall'usura e dal tempo, tengo una mano aperta sul muro per evitare di sbilanciarmi, tengo lo sguardo dritto di fronte a me.
Come mi capita sempre quando salgo una scala a chiocciola dopo un po' inizia a girarmi la testa, il panorama è sempre uguale, mi sembra di girare intorno ad un punto morto, sbatto ripetutamente le palpebre per non rincoglionirmi troppo, provo a contare gli scalini per concentrarmi su qualcosa.
Ma come inizio a contarli...
Mi rendo conto che...
Non è possibile.
Ne ho contati troppi, io ne ho...
Mi fermo di botto.
Mi giro.
– Daichi, non pare anche a te che stiamo salendo questa scala da un po' troppo? Non dovremmo essere già arriva... –
Daichi chiude gli occhi.
Quando li riapre sono...
Afferro l'elsa della spada.
Sono completamente neri, iride, pupilla e sclera completamente mangiata dallo stesso color pece.
– Mi spiace, Daichi al momento non è disponibile. Non preoccuparti, è qui, non gli ho fatto niente, ma mi serviva di parlarti e non c'è nessun altro a tiro nei paraggi. –
Parla con la sua voce.
Non è lui, niente nell'inflessione, nei termini, nel modo sembra lui, ma la voce e il corpo, sono esattamente i suoi.
Un brivido mi sale lungo la spina dorsale.
Oh, Yggdrasill, e questo cosa cazzo...
– Ti prego, non cercare di fare niente perché se mi tagli un braccio poi lo perde il tuo amico, non io. E ripeto, non ho nessuna cattiva intenzione. –
– Chi diavolo sei? –
– Io? O il bel soldato sexy che sto possedendo? –
Spalanco gli occhi.
È il momento di scherzare?
Gli sembra forse il momento di scherzare?
– Su, non fare quella faccia, era una battuta. Sono il consigliere del Re, sono almeno due ore che vi sto aspettando, ci avete messo una vita. –
Ci sta aspettando?
In che senso ci sta...
– Se non ti fossi accorto delle scale non avrei fatto questa cosa oscena di possedere il tuo amico, comunque, quindi sappi che è colpa tua, non mia. –
– Le scale? –
– Le scale, già. Ci ho messo tanto impegno a nascondere le uscite con la magia per portarti fino in cima e tu mi hai beccato in un attimo. È ingiusto. –
Oh, quindi avevo ragione.
Stavamo salendo da troppo.
Avevo decisamente...
– Quindi ci stai aspettando in cima. –
– Non io, il Re. Ci sono anch'io, è ovvio, però è più lui di me. –
Stringo più forte la spada.
Non so cosa stia succedendo ma so che...
– Non è un'imboscata, vuole solo parlarvi. Non entrare con la spada in mano, giuro che non c'è niente di pericoloso. –
– E io secondo te mi fido di uno che ha posseduto il mio amico? –
– Te l'ho detto, hai più colpa tu di me per la possessione! –
Stringo la mandibola, il corpo di Daichi o qualsiasi cosa ci sia dentro, sospira.
– Sapevo che non ti saresti fidato, però dai, speravo che il mio tentativo fosse un po' meno patetico. Quindi per fare in modo che tu ti fidi ti dirò come faccio a sapere del vostro arrivo, ok? –
Annuisco senza rispondere.
– Ho incontrato le Fate. Tooru e Suga. Nel Bosco degli Gnomi. –
A sentire la parola "Tooru" qualcosa dentro di me si blocca.
Sento il panico salirmi su dalle gambe, il mio cuore si ferma e quando riparte mi fa quasi male nel petto, per un attimo non m'interessa che quello sia il corpo di Daichi, voglio solo uccidere qualsiasi cosa l'abbia occupato e...
– Non ti spaventare, non sono un pericolo né una minaccia. Dopotutto Daichi e Suga li ho sposati io, credi davvero che si fiderebbero di una persona qualsiasi? No, no, sono un amico. E per dimostrartelo ho chiesto alla tua bella Fata di dirmi qualcosa che solo lei sa per convincerti a non uccidere tutto e tutti. –
Devo tornare indietro, devo tornare indietro e devo vederlo, devo vederlo coi miei occhi intero e al sicuro e devo sapere che sta bene e che il suo cuore batte e che sa chi sono e che...
– Mi ha detto di chiederti di raccontarmi la battuta delle mutande. –
Spalanco gli occhi.
La battuta delle...
Il sollievo è come una mareggiata d'acqua gelida.
Scioglie la tensione, la paura, tutto.
È lui.
Se ha detto quello è lui.
È lui che...
Stringo di nuovo i denti.
– E come cazzo so che te l'ha detto lui e che non gliel'hai estorto? –
– Sapevo che mi avresti detto anche questo e quando gliel'ho fatto notare, mi ha detto di dirti "credi che davvero tirerei fuori la storia delle mutande se qualcuno mi stesse estorcendo informazioni". –
Oh, in effetti...
– Su, ora ricomincia a salire, ci siete quasi. Lascio libero il tuo amico. Ci vediamo fra un attimo. –
Prima che il corpo di Daichi richiuda gli occhi lo afferro per un polso, senza ascoltare niente di quel che mi chiede – più che giustamente confuso, quando si riprende – lo trascino su e macino gli scalini, il cuore in gola.
No, non è niente di tutto quel che credi.
Sta bene.
Tutto questo è molto strano ma sta bene.
Quella... cosa non è cattiva e...
Mi butto dentro la porta aperta appena la vedo, porto Daichi con me.
Siamo in cima alla torre ovest.
Quella in cui siamo sembra...
Una camera da letto?
Ci sono due persone, dentro.
Il primo, a seconda della descrizione di Daichi della sua discendenza, è indubbiamente il Re. Ha i capelli castani ma gli occhi sono del verde scuro dei Boschi degli Elfi Silvani, la pelle è abbronzata, i tratti sono decisi. Quello è il Re.
E l'altra creatura...
L'altra creatura non ho idea di cosa sia.
Mai visto niente del genere.
Ha la pelle diafana, bianca come il latte, ma le punte delle sue dita sono nere come se le avesse bruciate fino alla nocca. Gli occhi sono quelli che prima ho visto su Daichi, neri dalla sclera alla pupilla, i tratti del suo volto sono sottili, non so se delicati o spaventosi, qualcosa che somiglia ad un tatuaggio esce dalla sua bocca e compone una linea che attraversa il labbro inferiore, il mento, il collo e si espande in un disegno più grande coperto dai vestiti.
Ha i capelli del colore del sangue.
È...
– Ciao ciao, Iwa-chan, benvenuto. – dice, con la mano alzata dalla mia parte che si sposta da destra a sinistra.
Anche il Re mi guarda, ma non dice niente.
Io per un secondo sono solo...
– L'accoglienza è un po' quel che è ma spero che mi perdonerai. –
Dette dalla sua voce, le sue parole hanno più senso. Sentire il suo modo così particolare di inflettere le vocali su Daichi era strano, ma ora mi sembra solo... naturale.
– Benvenuto alla corte del Re degli Umani. Lui è Ushijima Wakatoshi, il... beh, Re degli Umani, va da sé. Io sono Satori. Tendō Satori, il Consigliere.. –
Sento una mano appoggiarmisi sulla spalla da dietro e trasalisco, spaventato, prima di rendermi conto che è Daichi, col fiatone e confuso ma probabilmente più lucido di me, in questo momento.
Si appoggia dalla mia parte.
Mi sorride come a dirmi di non preoccuparsi.
– Non so che cazzo ci faccia qui, non so cosa stia succedendo e non so cosa c'entri col Re, ma io quello lo conosco. Va tutto bene. Non è un nemico. –
– Lo conosci? Chi è? –
– È quello che ha sposato me e Suga. –
Sbatto le palpebre.
Allora non mentiva, allora è vero che...
Abbasso la voce.
– Che... che cosa... che cos'è? –
– Una Strega. –
No, non è una Strega, io ho visto tante Streghe e...
– Una Strega che pratica la Magia Nera. –
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
➥✱"mì-adhartach" in gaelico significa "indietro".
COMMENTO FINALE VELOCISSIMO PERCHé IO IN RITARDISSIMO
A) SCUSATE SE VI FACCIO ASPETTARE QUESTO CAPITOLO DA MESI CI RIVEDIAMO IL TRE OTTOBRE CON QUESTA STORIA (IL DICIOTTO CON NEW AMERICANA) SPERO CHE VI SIA PIACIUTO DITEMI SE C'è ANCORA QUALCHE FOLLE CHE MI LEGGE VI MANDO UN BACIO CIAO
B) SCUSATE SE L'HO POSTATO A QUEST'ORA ERO IN GIRO PER IL MONDO MA ECCO CI SONO
C) NO DAVVERO DITEMI SE VI è PIACIUTO IO SEMPRE CONTENTA DI SAPERLO
AH E
D) LO SO CHE NON VE L'ASPETTAVATE L'USHITEN EEEEEEEEH
niente fine
un bacione
mel :D
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