𝗿𝘂𝗶𝘁𝗵
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Io sono nato per essere un principe.
Sono nato per esserlo, no?
Certo che sì.
Insomma, stiamo parlando di me.
Certo che sono nato per essere un principe.
Sento le mani della mia cameriera sistemare gli ultimi boccoli a posto, i denti d'osso del pettine che accarezzano piano la mia testa, l'odore familiare di quel profumo cipriato ed economico che si mette.
Essere me non è mica facile, davvero.
Non è facile essere nati per essere un principe.
Bisogna saper fare un sacco di cose.
Le dita sono gentili mentre sento il fiocco di seta del mio vestito da notte allacciarsi sul mio collo sottile. Le immerge nella crema di fiori d'arancio prima di spalmarla delicatamente su tutte le distese scoperte della mia pelle chiara.
Devi essere perfetto, se vuoi essere un principe. Parlare bene, presentarti bene, essere sempre impeccabile. Devi sapere come muovere le mani, come le gambe, come dare alle persone che ti guardano e ammirano la sensazione di essere assolutamente irraggiungibile e comunque così sensuale da non poter lasciare un istante la loro mente.
Mi sento sistemare il tessuto morbido contro le braccia lunghe, spuzzare un po' d'acqua fresca sulla nuca per rinfrescarmi in questi giorni d'afa e togliere piano tutti i gioielli.
Devi essere così etereo da incarnare in tutto e per tutto qualcosa di surreale.
E di più surreale di un principe degli Elfi, al mondo c'è ben poco.
Rido appena quando la sento sganciare gli intricati orecchini d'oro bianco che porto sulle punte delle orecchie, mi fa il solletico.
− Le ho fatto male? –
− No, no, nessun problema. – rispondo, sorridendo e basta.
Sono nato per essere un principe.
Lo so e basta.
La cameriera ripone tutti i gioielli, e ne porto davvero tanti solo sulle orecchie, senza contare la tiara, le collane, i bracciali, gli anelli e i gioielli che metto sul corpo, e sorride in un modo quasi mesto e distaccato, quando ha finito.
Rimane in piedi accanto a me.
Aspetta che la congedi.
È nuova, a sua discolpa, è ancora parecchio rigida. Non sa che con la servitù, soprattutto quella che vive a così stretto contatto con me, sono piuttosto tranquillo e a mio agio.
Dico sempre che se mi vedono la mattina con la bava alla bocca e i capelli arruffati allora possono benissimo andarsene da camera mia senza attendere che dia loro il permesso.
Alzo le spalle piano.
− Vai pure. – le dico.
Ringrazia abbassando lo sguardo e si defila in un attimo.
Tenera, avrà all'incirca la mia età.
Per essere un principe non ti basta la dinastia regale e non ti basta il denaro, non ti basta un titolo arido o un'investitura ottenuta per caso.
Ti servono diverse cose.
Ti serve la bellezza e quella so di averla.
Ti serve che le persone ti guardino come guardano me, come studiano di me ogni particolare ed ogni angolo di pelle scoperta, come sembrano volermi toccare anche solo con lo sguardo.
Ti serve la giusta postura e il giusto tono di voce, ti serve il portamento che ti si addice per far sentire tutti come se fossi allo stesso tempo affabile e inarrivabile, misteriosamente sensuale e gentile insieme.
E ti serve quel pizzico di regalità che sono certo di avere.
Rimango da solo nella camera che sa di pulito.
Apro la finestra a lato del mio enorme letto e sorrido quando gli alberi fanno capolino dagli infissi aperti. Rimangono sempre fuori quando il vetro è chiuso, ma la magia dentro il palazzo li attira quando lo apro.
In realtà, ora che ci penso, una cosa mi manca, per essere un perfetto principe degli Elfi.
Ma magia pratica o meno, un principe lo sono comunque.
Mi siedo sul bordo del letto e inspiro quel sentore boschivo degli aghi di pino prima di lasciarmi cadere indietro ed affondare sul materasso morbido.
La prima volta che mi sono steso su questo letto, la prima di cui ho coscienza, non credo che fossi quel che sono ora. Di certo non un principe, probabilmente un ragazzino spaventato.
Non mi copro con il lenzuolo, l'aria è di quel frizzante di fine estate che ti fa venire giusto la pelle d'oca le prime ore del mattino e non ho voglia di coprirmi.
Alzo la mano e schiocco le dita, le tende si sganciano dagli anelli e cadono attorno al mio letto facendo filtrare la luce della luna oltre sottilissimi strati di seta color carta da zucchero.
Non è potente, la mia magia, né utile per cose che non siano di quotidiano utilizzo, ma se ti sgancia le tende del baldacchino prima di dormire, confermerei che non è da buttare.
È stato un giorno come un altro, oggi.
Uno di quelli in cui passo le ore seduto a gambe incrociate in biblioteca a disturbare mio fratello e mia sorella che studiano, ad evitare mio padre che tenta d'incastrarmi con qualche inciucio burocratico che non m'interessa, a salutare le guardie che mi guardano come volessero spogliarmi con gli occhi.
Sono una leggenda, fra le guardie.
Tutto per una serata con quel vino elfico che ti fa sembrare la testa un guscio vuoto e una recluta molto carina e molto innocente che ha commesso l'errore di provare ad accompagnarmi in camera.
Pensavo sapesse qual è la mia reputazione.
A quanto pare non lo sapeva.
Non che m'infastidisca, la cosa, anzi, è qualcosa che mi sono creato con da solo.
So che i paesani, alcuni, quantomeno, sussurrano la parola "mangiauomini" quando passo per i sobborghi a cercare articoli d'erboristeria che non portano a palazzo.
"Mangiauomini", eh?
Diciamo che è stata più una tattica di difesa.
Se sei il primogenito adottivo, senza discendenze di sangue, la tua magia è debole e tutto quel che possiedi dalla tua sono due gambe inaspettatamente lunghe e la faccia di un angelo, allora sfrutti quel che hai, no?
Sfrutti quel che hai.
Finché non ti si ritorce contro.
Mi accoccolo fra i mille cuscini dello stesso materiale costoso e liscio di cui è fatta la maggior parte delle mie cose.
Io sono nato per essere un principe.
Il racconto della mia vita, quello dei miei, quello che non deve uscire né trapelare perché sia mai che qualcuno venga a saperlo, è che fossi il figlio illegittimo di un cugino nato in una baracca senza valore.
Ma che la mia natura lo sia o meno, io lo so e credo lo sapessi anche allora.
Che sia nato in mezzo all'oro o in mezzo alla polvere, io, sono nato per essere un principe.
Il giorno dopo lo inizio trascinando con me tutta una serie di comportamenti scorretti che fanno di me solo un monarca più realistico.
Un principe com'è? Viziato, ma il giusto.
Mi sveglio due ore dopo la colazione ufficiale del palazzo.
Mi faccio vestire con calma, spazzolare i capelli, trattare come fossi una pietra preziosa nonostante sia fatto di carne anch'io.
Un'altra cosa che di me fa parlare, è la mia abitudine a vestirmi... come lo dico senza essere volgare?
Diciamo che tutte le tuniche elfiche che i miei mi hanno fatto prontamente cucire, ora sono tagliate sotto il costato e orlate d'argento, a lasciar perfettamente scoperta l'intera pancia bianca come il latte, e le maniche altere sono abbassate sotto le clavicole.
I pantaloni sono stretti, così stretti, da non lasciare il minimo spazio all'immaginazione.
Certe volte li metto più larghi, ma se sono larghi sono anche spaccati di fronte e le gambe si vedono comunque.
Possiamo dire che mi piace il mio corpo e mi piace farlo vedere.
Delle mie cameriere personali, due mi mettono i gioielli addosso.
Sono molto meticoloso.
Zaffiro sulla sorta di collana che allaccio su un piccolo foro all'ombelico e che circonda tutta la mia vita, oro bianco e platino chiaro come il ghiaccio sui bracciali che s'incastonano a metà del braccio, diamanti sugli anelli legati da catenelle ai polsi.
Amo gli orecchini che s'incastrano sulle punte delle mie orecchie.
Li trovo così... allusivamente eleganti.
Ha senso?
Quello che penso io ha sempre senso, che dico.
La tiara per oggi me la risparmio.
Sembra un filo di ghiaccio, ma quella merda è fatta di pietre preziose e pesa.
Quando entro nella sala grande del palazzo, i miei genitori sono ancora seduti a tavola, ma la tovaglia è alzata a metà, tirata indietro per lasciar spazio alle ennesime scartoffie.
Saluto con uno svolazzo della mano mentre mi siedo e prendo fra le dita il primo dolcetto che mi ritrovo davanti.
Anche mangiare, devi saperlo fare.
Mai prendere il cibo con i denti, mai sporcarsi, mai riempirsi di briciole.
Masticare a bocca chiusa, senza fare rumore, nel modo più discreto possibile.
Poi, quando l'etichetta mi direbbe di tirare su un lembo delicato del mio tovagliolo e pulirmi le labbra, io devio sempre leccandomele come se stessi davvero assaporando ogni singolo boccone.
"Mangiauomini", no?
− Tooru. – mi sento chiamare, e alzo gli occhi.
− Madre, padre. – dico e basta, col tono anche un po' scocciato.
Ecco, questo di me è totalmente fuori dal cliché.
Io non sono davvero davvero un principino viziato. Anzi, lo sono, perché posso fare pressoché di tutto e avere quel che desidero come e quando lo voglio, ma se parliamo di famiglia...
È un rapporto teso, mettiamola così.
− Sei in ritardo. Di nuovo. –
− Sono sempre in ritardo, madre. È principesco. –
Ha gli occhi castani, e seppur lo siano anche i miei, non si somigliano in nessuna parte. Non sono tagliati come volessero raccontarti qualcosa, i suoi, più stanchi e sfiniti.
− Hai letto la nota di tuo padre, ieri? –
− Ieri sera? –
Alzo un sopracciglio.
So che è strano sentire di un Elfo che non vede, ma come ho già detto, la mia magia non è così forte. Riesco a mantenerla per diversi periodi di tempo, ma è come se esaurisse, come se avesse un serbatoio da cui goccia via, per cui no, la sera, a leggere non riesco.
− Dimenticavo. Ancora nessun miglioramento con le arti magiche? –
Faccio spallucce, mi allungo per pizzicare un biscotto fra le dita.
− Basterebbero un paio di occhiali, madre. Lo so che vi sembrano terribilmente umani, ma con qualche modifica qua e là potrei renderli molto elfici. – ribatto, facendo l'occhiolino.
In realtà, so che la risposta è sempre no.
Ma darle fastidio è divertente, immagino.
− Non manderò un principe degli Elfi in giro con una di quelle schifezze degli Umani addosso. – interviene mio padre, mentre sfoglia altre carte e non alza neppure lo sguardo.
− Certamente, come ho potuto pensare il contrario. –
Ringrazio educatamente quando un cameriere mi appoggia una tazza di tè di fronte al viso, intingo il fondo secco del biscotto.
Fioriscono le calle e le achillee, in questo periodo, immagino che siano i loro petali ad aver dato questo colore così rosato all'infuso.
− In ogni caso la nota riguardava un altro viaggio diplomatico in terre straniere. Io e tuo padre vorremmo che andassi tu. –
Soffio sulla superficie bollente dell'acqua tinta di rosa, poi prendo un sorso.
− Oh, sul serio? –
− Sul serio. –
In questo momento, quello che corre nel mio corpo, è fastidio.
Ma un principe è elegante, posato, delicato.
E mantiene salde le proprie emozioni, no? Le tiene a freno, a bada.
− Posso chiedere come mai? –
− Nessuna ragione in particolare. È bene che tu capisca quali sono i tuoi doveri, per diventare re un giorno. –
Evito per un pelo di alzare gli occhi al cielo e annuisco appena.
"Un giorno", dice.
Ho diciannove anni, che sono uno sputo per l'età elfica.
Credo ne passeranno almeno un centinaio, prima che realmente ci sia una possibilità per me di diventare davvero sovrano.
Vedo lo sguardo che i miei genitori mi lanciano e sento che sotto sotto non me la contano giusta, ma eludo la discussione ricominciando pacificamente a mangiare.
Non mi piacciono, i miei genitori.
Non mi sono mai piaciuti.
Mi hanno sempre trattato come un ospite in casa loro, nonostante detenga di fatto il titolo di erede al trono, e non mi sono mai sembrati davvero una madre e un padre, solo addestratori di un animaletto da compagnia.
Ma di fatto, io sono un principe.
Ed essere un principe comporta anche essere un animaletto da compagnia.
Noto con la coda dell'occhio che si guardano l'un l'altra.
Davvero, di tutti i modi per mentire, questi due ne hanno scelto uno parecchio scadente.
− Shōyō e Natsu sono già a lezione? – chiedo.
Shōyō e Natsu sono i miei fratelli.
Loro sì, che sono figli naturali, e si vede in maniera così chiara da essere quasi ridicola. Dicono che il rosso dei loro capelli sia retaggio centenario della famiglia reale.
Mi sono sempre sentito un pesce fuor d'acqua, in questo posto, anche per quello.
Mio padre e mia madre, come Shōyō e Natsu, hanno questa figura delicata e minuta, pelle eburnea e visi innocenti, occhi enormi e rotondi, mani piccole e gambe sottili.
Io, a loro confronto, sembro tutt'altra cosa.
Non che mi dispiaccia, come ho già detto e ribadisco, non sono incerto riguardo il mio corpo, ma ecco, sentirsi sempre al di fuori, persino per il modo in cui fisicamente sono, non ha di certo aiutato nello svilupparsi del rapporto coi miei.
Nonostante tutto, Shōyō e Natsu li adoro.
Sono piccini, sorridenti e credo le uniche due persone in questo posto davvero felici di vedermi tutti i giorni.
− Il precettore dice che preferirebbe non li raggiungessi oggi. Pensa che tu sia una... distrazione. – mi sento rispondere da mio padre.
Di nuovo, evito di sbuffare platealmente.
− Per i loro importantissimi studi? –
− No, per lui, Tooru. –
Ah.
In effetti, non ci avevo pensato.
Immagino faccia parte del mio fascino. Credo di non aver ancora incontrato un uomo in grado di dirmi di "no". Le donne più facilmente, hanno uno spirito più forte, più empatico ed emotivo, e non basta un bel faccino per farle cadere a terra, ma gli uomini...
Creature semplici.
Ne ho fatti cadere molti più di quanto si potrebbe dire con un solo sguardo.
− Cosa dovrei fare, allora? – mi concedo di sbottare, finendo il mio infuso e rivolgendomi con lo sguardo verso il cameriere per farmene portare ancora.
− Le valigie, Tooru. Parti stanotte. –
Il rumore che fa la tazza quando la lascio cadere sul piattino, finalmente mi concede di guardare mio padre, o chi dovrebbe esserlo, dritto in faccia.
Si è degnato.
− Che cosa? –
− Parti stanotte. È stata una cosa combinata all'ultimo. –
Mantengo i nervi saldi. Butto giù tutto, un secondo alla volta, tentando di calmarmi.
Perché tutta questa rabbia, dopotutto?
Perché c'è un gala fra tre giorni per cui ho speso tre settimane di preparativi, perché detesto le cose raffazzonate e perché ho una sensazione distinta nel corpo che qualcosa non stia girando dal verso giusto.
− Padre, non è possibile spostare a dopo il gala? –
− Non preoccuparti, Tooru, per il gala tornerete. –
Torne...rete?
"Voi" chi?
− Sarò con qualcuno? –
− Ti spiegheranno i dettagli di burocrazia una volta arrivato, non ti preoccupare. –
No, no, no.
C'è qualcosa che non va.
Ed eppure quando cerco nello sguardo di mio padre, in quello di mia madre il minimo accenno di affabilità, mentre valuto se mi sia possibile chiedere spiegazioni o meno, tutto quel che ricevo è un solido, saldo e chiaro "no".
Che fastidio.
Tiro su la tazza, il cameriere versa altro infuso.
Allungo la mano verso il piatto dei dolcetti, solo per ritrovarmelo tirato via con uno schiocco di dita e un guizzo di magia rossa come il fuoco.
− Scusate? – commento, facendo leva sulle cosce per poter arrivare al cibo.
Di nuovo, il piatto indietreggia.
− Devi essere nella tua forma migliore, oggi. Niente dolci, Tooru. –
Nella mia forma... migliore?
A questa, scatto.
− Si può sapere a che devo questo atteggiamento, oggi? – sbotto, alzando la voce.
− Non parlare in quel modo a tua madre. –
Mi sporgo sul tavolo, ormai sono in piedi, per entrare nel campo visivo di qualcuno che mi ordina come comportarmi ma non mi concede neppure un centimetro del suo sguardo.
Sento un sapore ferroso, nella bocca, quando dico qualcosa che non dovrei, e quando lo dico con quell'intensità.
− Chi è che dovete farmi scopare questa volta, eh? Un principe? Un re? –
La magia della famiglia reale degli Elfi, è una magia naturale. Mio padre evoca bene qualsiasi elemento, lo domina e piega, ma quello che preferisce è...
Mi brucia la guancia come se mi avesse acceso un tizzone contro la pelle.
Brucia, cazzo, come brucia.
− Vai a fare la valigia. – ripete.
Ipocrita.
Come se non fosse quel che si aspettano che io faccia. Per carità, è successo solo un paio di volte e l'intento originario era quello di sfruttare le mie apparenti pronunciate qualità di convincimento, ma come è finita?
Che ho dato a qualche uomo di potere un assaggio di cosa fosse un principe, e sono caduti come castelli di carte.
Pensavo che fosse finito, però, quel periodo.
No?
La mia carnagione sembra volersi sciogliere in un calore che sento ma non c'è, eppure non riesco ad ingoiare le parole che sanno di ferro.
− Non chiedevo tanto, un po' di preavviso, padre. Anche le puttane in paese hanno gli appuntamenti, perché io no? –
− Non parlare in quel modo di te stesso, Tooru. Mi sto arrabbiando. –
Ora inizia a bruciarmi il collo.
Mia madre fissa il tavolo come se ci fosse qualcosa di particolarmente interessante scritto sopra e non volesse distogliere lo sguardo neppure un istante.
− Io... −
Mi si chiude la bocca da sola, quando il sapore ferroso diventa sapore di sangue.
Mi sanguina la lingua, certe volte.
Quando parlo con trasporto, quando cerco di convincere qualcuno o quando sono arrabbiato. Quando voglio imprimere un certo tipo di autorità alle mie parole, mi succede.
Il medico di Corte parla di "magia inerte".
Come a voler dire che nelle situazioni in cui vorrei usare la magia, visto che non ce l'ho, l'unica cosa che riesco a fare è ferire me stesso.
Ammutolisco e mi asciugo il labbro.
− Non servono opere di convincimento, oggi, Tooru. So che è stato un periodo difficile, quello, ma è passato. E ricorda che era per il regno, non per un nostro tornaconto personale. – mi sento dire.
Non riesco a rispondere come vorrei.
Per il regno?
Non sarebbe bastato intrattenere degli accordi che fossero equilibrati, invece di cercare di avere tutto con mezzucci che inaspettatamente hanno funzionato?
Solo per aggiungere ricchezza a qualcuno già ricco.
− Io e tua madre gradiremmo che tu andassi in missione diplomatica, oggi, perché ci fidiamo di te. Vai a fare la valigia. –
Perché vi fidate di me, eh?
Non vi fidate di me.
Nessuno si fida di me.
Sono troppo sleale per meritare fiducia.
Il sangue si ferma.
So che mi goccia dal lato della bocca quando sorrido appena, e non faccio altro che tirarlo via col dorso della mano e rifare tutto il tragitto che ho percorso nemmeno una decina di minuti fa per tornare in camera mia.
Cazzo.
La cameriera nuova, quella che ieri sera attendeva dritta come un fuso che la mandassi via, sobbalza con un urletto quando mi vede rientrare in camera sbattendo la porta.
È una bella donna, con le forme generose e il viso materno, e la trovo impegnata a spolverare la boiserie con un piumino quasi ridicolo in mano.
− Si...Signore! –
Scuoto la testa.
Volo verso il bagno.
Schiocco le dita per aprire l'acqua corrente che sbuca da una cascatella dalla parete di fiori che delimita le mie stanze.
Quando sputo letteralmente sangue, la cameriera ripete quel rumore di sorpresa inaspettata di prima.
− Signore, vi sentite male? Devo chiamare il dottore? O Dio, io... −
− No. –
Sciacquo la faccia sotto l'acqua gelida minuti interi, con solo questa risposta che aleggia nell'aria.
Che dottore vuole chiamare?
Un altro che venga a dirmi cose che so già?
Deve solo farci l'abitudine. O potrei comportarmi meglio, tenere a bada i pensieri e le parole, ma questa opzione mi sembra un po' ipotetica.
Alla fine non è che faccia male, fa solo schifo.
Mi tiro su verso di lei con la sola voglia di distrarmi dalla marea di cose che sono successe in un così breve lasso di tempo.
So di essere un po' inquietante, ma mi hanno sempre detto che il rosso sangue si sposa bene con i miei colori. Probabilmente un modo superficiale di pensarla, ma cosa c'è di più crudelmente bello del sangue?
− Chi sei, tu? –
Ha le spalle tese, il viso contrito e l'espressione spaventata.
− Io? –
− Sì, tu. –
In effetti non è che gliel'abbia chiesto o le abbia parlato. È arrivata un paio di giorni fa e le altre cameriere me l'hanno presentata come un nuovo membro del mio enorme corredo, ma niente di più.
Non che m'importi davvero, sarò meschino ma al momento non m'interessa, vorrei solo cercare di pensare ad altro.
− Una... una cameriera. –
− Questo l'avevo capito. Raccontami di te, intendevo. –
Sorride appena, con un colorito rosato che s'accende sul ponte del naso.
Oh, la ragazza apprezza l'interesse?
Sembra che sia caduta nella mia trappola di miele più in fretta del previsto. E pensare che la maggior parte delle donne che si occupano giornalmente di me mi trovano a dir poco repellente.
Non che mi odino, no.
Dicono solo che sono... incredibilmente dispendioso.
Si avvicina prendendo dalla specchiera su cui mi siedo ogni sera un fazzoletto bianco.
Mi prende delicatamente il viso con la mano, chiedendo con lo sguardo prima di farlo, e inizia a trascinare via le tracce di sangue dalle mie labbra.
− Oh, non sono nessuno, signore. Nata e cresciuta nelle terre degli Elfi della Luna. –
Elfi della Luna?
Gli Elfi della Luna non vanno d'accordo con gli Elfi del Sole, e come comunica il caratteristico color carota dei capelli della mia famiglia adottiva, questa è una Corte di Elfi del Sole.
− Raccontano storie sulla sua bellezza ovunque, sa? Ed eppure non mi aspettavo che fosse... così. – mormora, riferendosi palesemente a me.
Non m'irrigidisco nonostante mi stia toccando.
Non lo fa in modo inappropriato, non come se volesse cercare, più in maniera delicata.
Non è attrazione, la sua, forse ammirazione, direi.
− Anche nelle terre degli Elfi della Luna? –
Annuisce.
− La regina storce il naso solo a sentire il suo nome. –
A questo, mi si alza un angolo della bocca involontariamente.
La regina degli Elfi della Luna che invidia la mia bellezza? Bel colpo, Tooru, davvero.
Vedo la cameriera allungarsi verso il rivolo d'acqua e bagnare il tovagliolo. Si tinge di rosso scarlatto, il getto pacifico che sgocciola verso una vasca di vetro trasparente, poi impallidisce.
− Prima che mi mandassero qui, ho chiesto di lei a palazzo e tutti mi hanno detto di prestare molta attenzione ai suoi modi. Che è tanto bello quanto misterioso, signore. –
Dovrei concentrarmi sul complimento, di solito le mie orecchie cercano solo quello, ma al momento mi s'incastra in mente un'altra cosa.
− A palazzo? Lavoravi a palazzo? –
− Oh, sì. Nella Corte del principe. –
Nella Corte del...
Tengo la bocca chiusa, mi lascio lavare ancora, e aspetto con pazienza che finisca e si allontani per tornare in camera mia e specchiarmi.
Bello com'ero prima di uscire per fare colazione.
Impeccabile.
E il personale di Corte è così abituato ai miei modi e al mio carattere... vivace, lo chiamano, che di aver fatto una mezza scenata mi preoccupo limitatamente.
Sono un principe anche se m'incazzo.
Vero?
Ve...vero?
Ricaccio la sensazione di dubbio in fondo al mio petto.
Io sono un principe.
Sono nato per essere un principe.
È la verità.
− Devo fare le valigie per partire. – dico ad alta voce, più per cercare di resettare la mia mente che per la cameriera.
Devo fare le valigie.
Che senso ha rimuginare ancora?
Nessuno, in fondo sto solo andando a fare un viaggio diplomatico in nome della corona. È normale, sono un principe.
Sono un...
− Lo so, signore, la governante di sua madre mi ha già mandato la lista delle cose da mettere via per la partenza. Vuole vederla? –
Parla come se...
− Partirà con me? –
Sorride.
Ora la vedo, alla luce del sole, che sorride, e noto anche dettagli di cui non m'ero reso conto le altre volte, perché sono un po' troppo egocentrico e che mi soffermi a guardare gli altri non è così frequente.
I camerieri delle corti sono per la maggior parte umani.
Tutti, tranne...
Il maggiordomo, la governante, il capitano delle guardie e le damigelle della regina.
Loro sono figure costruite con la fiducia, che una volatile vita umana non può guadagnarsi.
E questa donna ha la pelle chiara, così chiara da sembrare trasparente, i capelli di un biondo che vira al bianco e lentiggini chiare sul naso che scommetterei scintillano alla luce della luna.
È un'Elfa.
Che ci fa, un'Elfa, a farmi da cameriera?
La sua espressione è confusa quanto la mia. Sembra che ci sia qualcosa che lei sa e che io non so, che lei da per scontato io sappia e io invece ignoro totalmente.
− Torno a casa, signore. Con lei. –
Torna a casa con me.
Torna a casa con...
− Parto per le terre degli Elfi della Luna? –
Non lo sapevo, io. Perché non lo sapevo? Perché non me l'hanno detto?
La ragazza ride piano, scosta una ciocca di capelli e finalmente mi accorgo del fatto che sì, è indubbiamente un'Elfa, ha le orecchie a punta.
− E come pensa di sposarsi con un Elfo della Luna senza partire per le terre degli Elfi della Luna? Non possiamo certo portare qui il principe, la sua pelle si rovinerebbe al sole molto più della mia! –
Oh.
Ora...
− Scusami? –
− Oh, ma non si preoccupi, a palazzo è sempre notte, non rischierà di vedere suo marito scottato come un bambino. –
Mio... marito.
Mio marito?
Mio marito.
Non le rispondo, esco dalla camera sbattendo la porta e m'incammino verso le stanze dei miei genitori.
Mio marito, eh?
E quando pensavano di dirmelo?
Che poi che bisogno c'è, davvero, quando sono praticamente neonato e della vita non so niente? I matrimoni elfici sono complessi, complicati, una gabbia d'oro per gli spiriti nuovi, qualcosa che va pensato e ripensato.
Qualcosa che va voluto.
E come potrei volerlo, io, se neppure ne sapevo qualcosa.
"Missione diplomatica perché ci fidiamo di te".
Bastardi.
Trattato come un pezzo di carne al macello, ecco cosa sono. Un bel taglio di qualche animale pregiato, un premio per vincitori, un orpello da tenere al fianco per rendersi più rispettabili.
I miei stivali ticchettano contro il pavimento di vetro, i servitori s'allontanano nel corridoio, il rumore è distinto e chiaro.
Me ne frego il cazzo se dovesse sgorgare anche il fiume più ricco di sangue dalla mia bocca, ora mi sentiranno.
Loro e questa idea di merda.
Loro e questa colossale stronzata.
La porta dello studiolo di mio padre è semi aperta, e quella è l'unica stanza che non è composta di vegetazione o trasparente vetro, ma di solidi mattoni.
Si prendono decisioni importanti per tutto il regno, in quella stanza, immagino non fosse nei suoi piani essere chiaro con chi gli sta attorno.
Le cose vanno fatte nascostamente, no?
Mancano pochi centimetri prima che la mia mano raggiunga il legno solido per spalancarlo, che ahimè, sento una voce.
E prendo la prima decisione oculata della mia vita, quando l'ascolto invece di lasciarmi prendere dalla foga.
− Credi che non creerà problemi a Palazzo quando lo verrà a sapere? Sai com'è fatto, non riesce a tenersi fuori dai guai. –
È mia madre.
E ho la seria impressione stia parlando di me.
− Temi si metterà a parlare come ha fatto prima con noi? È inevitabile che lo faccia. Ma durerà poco. –
− Dici? –
Con che gentilezza, padre. Con che gentilezza.
− Sono ancora convinta sia troppo giovane. –
− Troppo giovane e troppo viziato. Non tireremo mai fuori un re da lui, meglio che diventi una regina. –
Una... regina.
Come può dire la parola "regina" con quella voce, con quel tono così mesto, quando mia madre stessa lo è? Come se stesse parlando di un bel cavallo bianco, più che di una persona.
− Che non sarebbe diventato re lo sapevamo da quando l'abbiamo preso, tesoro, è che mi fa ancora tenerezza come quando era un ragazzino polveroso. –
Mi sembra di sgretolarmi.
Io sono un principe.
Non sono forse un principe?
Non sono un ragazzino polveroso, non sono qualcuno che guardi e di cui pensi "povera creatura", io sono un principe.
Un...
− Qualsiasi cosa faccia o dica, in ogni caso, credo che il principe ne sarà così affascinato che se lo prenderà lo stesso. Se Yggdrasil vuole, quel fanciullo ha qualità accettabili. –
Qualità accettabili.
Io non sono un animale.
Non sono un bel corpo da smerciare.
Io credevo che fosse finito davvero, quel periodo, padre. Che ti fossi stancato di vendere in giro un ragazzino bello e ingenuo come se fosse una valuta di scambio.
Credo che fosse solo l'inizio.
Credo che tu non abbia mai visto altro.
Li sento ridere fra loro, dentro la stanza, ridere.
− Shōyō sarà un bravo re, questo lo farà star calmo. Vuole bene a nostro figlio. –
A vostro figlio, eh?
E io cosa sono?
Cosa... cosa sono?
Non sanguina, la mia bocca, ora, perché non dico niente. Ma sanguinano i miei occhi, perché mi sembrano umidi. Ma no, questo non è sangue, è acqua.
Piango.
I principi non piangono.
I principi non lasciano trasparire le emozioni, ti dicono e non dicono con il solo sbattere delle ciglia.
Ma per quanto lo sappia, che sono nato per essere un principe, chi la vita me l'ha insegnata ora parla di me come se fossi un oggetto.
E forse non lo sono, un principe.
O forse sì.
Nella mia vita, quel che è sempre successo, quel che ho sempre fatto succedere, è che non ho mai permesso a niente di intaccare la figura che do agli altri di me.
Sono sempre stato perfetto.
E se anche ero rotto, marcio all'interno, anche nei momenti in cui a quindici anni mi chiedevo perché dovessi sedurre un Elfo di trecento, ho sempre fatto la stessa cosa.
Ho fatto finta che andasse tutto bene.
E ho fatto finta che niente mi toccasse.
Asciugo le lacrime.
Le asciugo con i bordi delle mani e silenziosamente, il più silenziosamente possibile mi allontano, mentre sento rimbombare risa a mie spese nel retro della testa.
Ridere di me, che cattiveria, cari genitori.
Riderò io, quando porterete in dono ad una Corte di vostri nemici un bel cazzo di niente.
Qualità accettabili, dicevate. Qualità accettabili con due più che accettabili gambe che ora come ora, correranno il più lontano possibile da voi.
Prendo un grande respiro, mentre cammino, e forse se mi fermassi a pensarci meglio elaborerei una soluzione alternativa, un qualche altro piano, ma so che se rimango qui a perdere tempo, anche questo potrebbe svanire.
L'unico modo per far loro un torto più grande di quel che loro hanno fatto a me, è togliere di mezzo la moneta dei loro scambi.
Che poi il fine ultimo era levarmi di mezzo e so di stargli facendo un favore, ma di quel che posso fare l'unica cosa è quantomeno togliergli la soddisfazione di sfruttarmi.
Non prendo vestiti.
A che servirebbero?
E sono troppo vanesio e attaccato ai miliardi di capi del mio guardaroba per sceglierne. Sarebbe come dire quale dei miei figli amo di più, e a differenza dei miei, io sono un padre amorevole.
In ogni caso il canale della mia magia è attivo, nella mia cabina armadio.
Ma di come possa evocare cambi d'abito magicamente schioccando le dita, forse, parleremo un'altra volta.
Diciamo che una magia debole usata in modo intelligente può renderti un'icona di stile.
Devo...
Scendere nei giardini.
Dire che vorrei raccogliere dei fiori da portare via con me nel viaggio, è una cosa che certi Elfi fanno, parlano di "contatto con la casa" o "ricordi naturali", infilarmi fra le siepi e correre.
Si chiama Bosco Proibito, la distesa di alberi oltre i giardini del palazzo.
L'irraggiungibile, pericolosissimo Bosco Proibito.
Non me ne hanno mai chiaramente parlato, tutto quel che so è c'è stata una strage su quello stesso bosco, più di trent'anni fa, e che gli alberi sono un sigillo reale su una terra piena di magie contrastanti.
In questo mondo, la magia fa qualsiasi cosa, ma agisce come un flusso che s'increspa. Ognuno mantiene e ha il proprio flusso magico, ma se lo usa contro quello di un altro s'intrecciano e s'intrecciano ancora e tutti ne risentono.
Per quello servono i sigilli.
Perché se vite sono state spezzate dalla magia, ne avremmo patito ancora oggi.
Che poi non è che progetti di starci tanto, in quel cazzo di Bosco Proibito. C'è una strada che conduce alle terre degli umani, oltre quegli strani alberi, e mi basta arrivare là.
Poi che ne sarà di me, lo deciderò allora.
L'unica cosa importante, ora, è fingere che tutto sia a posto.
Mettere su il più brillante dei miei sorrisi e far finta che nulla sia andato storto.
Comportarmi da principe.
Per quella che temo potrebbe essere l'ultima volta.
Se vedono una crepa sulla tua facciata, sei finito. Se possono infiltrarsi da qualche parte, instillarti il dubbio, sei finito.
Se qualcuno della servitù nota che c'è qualcosa che seriamente non va, che tu stai piangendo o soffrendo, sei finito.
Controllo il mio corpo come ne fossi burattinaio.
Le anche devono muoversi dolcemente, non in un incedere ammiccante, ma allusivo. Le braccia morbide, i muscoli rilassati, il ticchettio dei tuoi passi appena percettibile.
Il viso sempre nella stessa espressione.
Come a chiamarti per dirti un segreto, ma muto allo stesso modo.
I capelli che svolazzano nell'aria ad ogni passo, le spalle dritte, la postura elegante.
Fai quest'ultima sfilata di qualcosa che non sei, Tooru.
Beati una volta ancora di cosa significhi, essere un principe.
L'effetto che ottengo, è oltre quello sperato.
Non solo nessuno mi parla, ma si fermano, come capissero anche loro la nobiltà di questo momento. Le persone, dalle guardie in divisa allo stalliere vestito di stracci all'ultima delle cameriere, si fermano a guardarmi.
So di essere bello.
Lo so perché nessuno guarderà mai qualcun altro come loro guardano me.
Quando arrivo all'ingresso del giardino, faccio davvero fatica a trattenere le lacrime.
Shōyō e Natsu mi mancheranno così tanto, e non so cosa ne sarà di me, probabilmente finirò a campare di quell'unica cosa che mi contraddistingue, ma credo che sia l'unica opportunità che ho per fare del male a chi ne ha così spudoratamente fatto a me.
Il pensiero sfuma nell'oblio mentre dico al giardiniere di voler andare verso la siepe più isolata a vedere che fiori abbia piantato.
La mia convinzione inizia a sgretolarsi nel fumo delle mie paure.
Quando sono così vicino alla vegetazione fitta, il mio petto trema ad ogni respiro.
E se... mi fossi sbagliato?
Magari ho sentito male.
Magari questo principe degli Elfi della Luna non è così male.
Magari vogliono che lo sposi perché vogliono il meglio per me.
Magari sono davvero un principe, no?
Ed eppure so cosa ho sentito.
Lo so.
E so come mi sono sentito così tanti anni, quanta remissione muta ci sia stata in me, quanta voglia di dimostrare ch'ero migliore nonostante sapessi che non lo sarei mai stato.
Questa è solo una conferma, Tooru, non una scoperta, non prenderti in giro.
Ed eppure cosa potrebbe esserci, al di là di questa siepe, che mi renderà felice?
Cazzo, cazzo, cazzo.
Cosa faccio?
Cosa...
Vedo oltre le arcate di vetro una guardia aprire i cancelli che immettono nel giardino, la cameriera di prima al suo fianco e mia madre dietro.
Hanno capito.
Sanno cosa sto per fare.
Indietreggio verso il varco oltre la siepe.
Pensa, in questi secondi, pensa.
Mia madre mi chiama.
Sento il mio nome risuonare all'aria aperta in quel tono che credevo fosse dolce, ma era solo falsamente smielato.
Che cosa pretende, da me?
Che torni verso di lei a braccia aperte, che mi faccia spremere contro il suo odore familiare e mi faccia dire che va tutto bene, che sarò felice.
Ma alla fine, lo so che con lei non sarò mai abbastanza.
Io non lo sono mai stato.
Mai abbastanza principe da far guardare qualcuno oltre il mio solo aspetto fisico.
È pretenzioso, che una persona bella dica di trovare fastidiosa la sua stessa bellezza, lo so. Ma mi chiedo, ora, se m'avrebbero amato diversamente se non fosse stato così facile commerciarmi come un pezzo raro e costoso d'arredo.
Chiudo gli occhi un istante.
Sento il mio nome.
Ma il mio nome non lo sta dicendo mia madre.
Lo sta dicendo qualcos'altro, dentro di me.
"Tooru", mi dice, "scappa e vivi nel forse, che è meglio di una certezza infelice."
Ora, di tutti i momenti, la mia magia s'assesta in me e mi parla? Ho letto di risvegli magici che iniziano col sentire le voci.
Forse sono semplicemente pazzo.
Ed eppure qualcosa mi chiama, davvero.
Mi chiama e mi dice che andrà tutto bene.
E non so lo, se andrà tutto bene, ma quando la guardia si avvicina e supera l'aiuola di calendule, ci spero.
Ci spero quando scappo.
Supero la siepe ignorando i rovi che mi stracciano la pelle che tanto superficialmente lascio scoperta, arranco fino all'altro capo e a quel punto, concedendomi finalmente di lasciar andare il controllo ferreo che ho sempre avuto su me stesso, inizio a piangere.
Corro a perdifiato.
Corro fra le montagne di foglie incolte e lasciate a marcire, sulla terra fresca e fra gli alberi fitti, corro nonostante senta chiamare il mio nome, corro senza voltarmi indietro.
Non mi seguiranno, nelle profondità del Bosco Proibito, non possono.
Chi ribolle di magia si sente schiacciare, fra questi rami che parlano di sangue versato.
Ma io che magia ho? Due trucchetti da stronzo che potrebbe imparare anche un umano per fingere che ci sia dell'altro di fronte ai sudditi.
Non sento il fiato mozzarsi, né il petto stringersi.
Mi sento più leggero.
Mi sento libero, e piango e rido contemporaneamente mentre corro, corro, corro.
Corro lontano.
Vorrei dire addio, a quell'enorme palazzo di vetro, ma addio lo dici a chi hai amato, e non so se amassi qualcosa davvero di quel posto.
Addio lo dico tra me e me solo ai miei fratelli.
Spero che stiano bene.
Ma loro sono figli veri, naturali, pieni di magia e con quegli odiosi regali capelli color carota, nessuno farà fare loro la fine che volevano dare a me, spero.
Ogni passo, ogni metro, ogni istante, è come se qualcosa in me si risvegliasse.
Profuma, il Bosco Proibito, non è spaventoso, sa di pino e di fiori.
E la voce nella mia mente mi chiama più forte.
Non so cosa sia.
Forse lo shock della fuga, forse la tristezza o la mesta realizzazione.
So che non smetto di correre.
Corro finché le mie gambe non iniziano a far male, finché i muscoli non si tendono e piangono pregando di smettere, finché non mi finisce il fiato in corpo, finché non sono completamente solo in mezzo al nulla.
Mi fermo piano, un passo alla volta, gli stivali che fanno quel rumore così caratteristico contro i rametti secchi del sottobosco.
Mi fermo e cado a terra con le ginocchia.
Ho smesso di correre, non di piangere.
Che cosa...
Che cosa faccio?
Sono solo, cazzo, e ora?
Voglio davvero fare una vita da fuggitivo e usare la mia bellezza per campare? Voglio davvero questo? Solo per vendicarmi dei miei che non mi volevano bene?
Sai quant'è comune, fra i nobili, essere infelici.
Cazzo, che cosa ho fatto?
Io non so fare niente che non sia sorridere e annuire e sedurre, non so sopravvivere. Che cosa mi è venuto in mente?
Devo...
No, io indietro non ci torno.
Cado indietro con la schiena.
Ieri sera guardavo la luna oltre baldacchini di seta e pensavo di essere al sicuro nel mio dolce e nobile status, ora sono un idiota come un altro steso in mezzo ai rovi.
Ci crepo, qua dentro.
Ci sarà qualche mostro orrendo, qui, creato dalle magie incazzate di creature mistiche che si sono ammazzate, e mi mangerà leccandosi i baffi.
Che poi anche ci arrivassi, oltre al Bosco, che cosa potrei fare io?
Sono solo un inutile principino viziato.
O forse nemmeno quello.
La luce non filtra fra i rami. Sembra un'eterna notte, quella che c'è qui sotto, l'aria è densa, ora che mi fermo a guardarla, piena di pollini e petali che ballano in quest'atmosfera che sembra essersi condensata nel tempo.
Mi osservo le mani.
Sembra che brillino.
Dev'essere quel poco dei raggi del sole che riescono a infilarsi fra le foglie fitte.
Stendo le gambe e mi giro di lato.
Se devo scomparire, farlo in un posto così magico sarebbe davvero principesco.
Un po' ipocrita, visto che io di magia non ne ho nemmeno un briciolo, ma quantomeno degno di una menzione su qualche annale della famiglia.
Tooru, l'Elfo senza magia, scomparso nel Bosco Proibito, mai uscito da quel luogo.
Una storiella per spaventare i bambini.
Vorrei che fosse scritto ch'ero un principe, ma non credo sarà così.
Un principe fittizio.
Un principe falso.
La voce nella mia testa parla di "principe rubato", e la ringrazio dell'idea, in effetti suona bene.
Chiudo gli occhi.
Principe rubato, eh?
Rubato a se stesso, forse.
La nebbia scende come un banco verso di me e respirare mi sembra più faticoso, aprire gli occhi impossibile. Sento il corpo rilassarsi completamente e mi pare di vedere qualcosa illuminarsi oltre le palpebre chiuse, come quando fissi il sole e il nero del sonno diventa rosso.
Sento qualcosa in lontananza.
Sono passi.
Il mostro del Bosco è venuto a prendermi?
Che mi prenda.
Che mi divori, che distrugga le speranze infrante di un principe rubato.
Mi addormento prima di sentire qualsiasi cosa.
E giurerei di sentirmi tirare su, nel sonno, ma di questo, ormai, non sono certo.
Non più.
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➥✱"ruith" in gaelico significa "corsa, fuga" o come verbo "correre, scappare".
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