𝗳𝗶𝗿𝗶𝗻𝗻

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− Sono nato all'inizio dell'estate. – è la prima cosa che dice.

Non rispondo.

Come potrei?

Sono... nella posizione più rilassata in cui potrei mai essere.

È solido dietro di me, il suo petto si alza e abbassa contro il mio fianco, una delle sue mani mi accarezza i capelli.

− Sono nato all'inizio dell'Estate al villaggio delle Fate. – ripete, con lo stesso tono solenne e pacato, senza smettere di toccarmi.

Non credo si aspetti che dica qualcosa.

Forse vuole solo saggiare le parole, rendersi conto di quello che sta dicendo, immergersi nei ricordi.

Io sono...

Non mi sono mai sentito così al sicuro.

− Ti ricordi quando mi hai chiesto cosa fosse la caratteristica peculiare delle fate? –

Ridacchio sorridendo contro la sua pelle.

− Quando stavo dicendo che il tuo... −

− Evita, Elfo. –

Chiudo la bocca e sento le sue labbra premere sul centro della mia testa, come a volermi rassicurare che non era davvero infastidito.

− Le Fate erano creature molto particolari. Si dice che nessuno potesse resistere alle loro richieste, che mandassero in fumo tutte le pretese di qualsiasi persona gli si presentasse di fronte. C'è un antico mito che parla di Umani che ballano fino a morire perché una di loro gliel'aveva chiesto. –

Non so molto delle fate, no. Non ricordo neppure di averle mai intraviste nel bestiario in biblioteca quando vagavo a Palazzo non riuscendo a dormire.

− Mio padre si è innamorato di mia madre la prima volta che l'ha vista, a mia madre piaceva e sono nato io. So che è scomparso poco dopo, probabilmente ucciso da qualche evento catastrofico o cos'altro, non ne ho idea. –

Stringo una mano sul suo braccio.

− Mi dispiace. –

− Non è importante, non so neppure come fosse fatto. –

Annuisco, lascio andare la presa.

− Il fatto che fossi metà Umano e metà Fata mi ha resto l'infanzia... complicata, diciamo. –

Sporgo il viso per guardarlo.

Mi ispira così tanta solitudine, Hajime.

− Le Fate erano un popolo chiuso, non amavano gli estranei e tantomeno i mezzosangue, sono cresciuto da solo. Non ho ricordi molto piacevoli, credo un misto di cattiverie dagli altri bambini e commenti velenosi dagli anziani. –

Non so quanto posso capirlo, ma ingenuamente forse un po' lo faccio.

Mi accoccolo di più.

− E poi c'era la faccenda della mia magia, quella è stata un grosso problema per me. –

− Non hai detto che non ce l'avevi? –

Mi stringe una spalla.

− Non l'hai mai detto. –

Gli faccio la linguaccia di tutta risposta.

− La mia magia è nata come risultato dell'incrocio che sono. Le Fate hanno una magia incontrollabile, che non si può fermare in alcun modo, gli Umani non ne hanno neanche un po'. –

− E allora? –

− Non c'è magia che faccia effetto su di me. Sono completamente immune a qualsiasi incantesimo, qualsiasi cosa. Non funzionano i filtri, non le pozioni, nemmeno le cose più elaborate e complesse, davvero. –

Oh.

Dev'essere...

− Mia madre non voleva che la Corte lo venisse a sapere. Hai idea di cosa significhi, in un mondo dominato dalla magia, esserne immune? –

Immagino di sì.

Iwaizumi poteva essere... un'arma, credo.

− Quando a sette anni c'è stato il Risveglio, il momento in cui le Fate iniziano a manifestare le loro capacità, siamo andati via. –

− Dove? –

− Qui. –

Mi si mozza il fiato.

Qui...?

− Il Bosco Proibito era il villaggio delle Fate. –

Questo non... non lo sapevo davvero.

Rimango zitto ad ascoltarlo.

− Questa casa era già qui all'epoca, pare che fosse anche allora un rifugio per esuli. Le tazzine, quelle del tè che ti piacciono tanto, erano di mia madre. –

Ora capisco.

Porcellane fini, vetro soffiato, dettagli floreali.

È improbabile che qualcosa di così elegantemente lavorato fosse qui per caso, no?

− Siamo rimasti chiusi in questa radura cinque anni, solo io e lei. Amavo molto mia madre, è sempre stata forte e ha sempre messo me al primo posto, ma mi sentivo così... solo. Ho iniziato persino a detestarla, certe volte, perché aveva deciso di avermi. Che vita era, quella? –

Giro il volto per piantargli un bacio sullo sterno.

Non dev'essere stato facile, no.

− Ho iniziato ad arrabbiami, sempre di più, sempre di più. Ero sempre arrabbiato. Perché i miei coetanei andavano a scuola, erano sempre a ridere e scherzare e io dovevo imparare a leggere da mia madre sempre chiuso nello stesso posto di merda? Perché non potevo avere niente che non fosse solo lei? Avrei dovuto dare più peso alla fatica che stava facendo per me, ma ero troppo piccolo per capire che cosa stesse succedendo. –

Sorrido un attimo, quando mi rivolge lo sguardo.

− Lei ti voleva bene, Hajime, non è vero? –

Annuisce.

− Molto. –

Si sente, si capisce. Ne parla come se provasse un'instabile nostalgia nei suoi confronti.

− Pochi mesi dopo il mio dodicesimo compleanno, è arrivato un altro esule. Era un Elfo, un soldato della tua Corte, cacciato per non so quale motivo. –

− È lui che ti ha insegnato a combattere? –

− Il primo, sì. –

Piccolo Hajime, costretto alla lotta per non soccombere alla noia e all'ingiustizia di essere completamente solo.

− Ricordo con piacere quei giorni, tiravamo di scherma continuamente e diceva che ero portato, mi sentivo finalmente in grado di fare qualcosa. Ero bravo, sì, ero davvero bravo. Ho pensato per un po' che la mia vita sembrava davvero molto più divertente. Ma poi... −

Questo "poi" non ha niente di buono, da portare, lo sento.

− Hai presente quando ti ho raccontato delle Fate? –

Oh, merda.

Intende il fatto che nessuna creatura vivente possa resistere al loro fascino, vero?

− Ha aggredito mia madre. E io l'ho ammazzato. –

Mi si gela il sangue nelle vene.

Cosa?

− Ma avevi dodici... dodici anni. –

Dodici anni.

Dodici...

Un altro ragazzino strappato all'infanzia, non è forse così?

− Non controllo bene la rabbia e lui mi aveva... tradito. Come poteva? Lui era... la mia cosa felice, sai, l'unica che mi divertisse fare. E invece non si è rivelato altro che uno sporco stronzo che voleva entrare sotto la gonna di mia madre. Non potevo perdonarlo. –

− Potevi cacciarlo via e basta, no? –

− Quello era l'intento, ma poi... ricordo solo di essermi ritrovato in camera con mia madre che piangeva, pieno di sangue, con la spada dentro il petto di una persona a cui volevo bene. –

L'immagine è... triste.

Oh, Hajime, piccolo Hajime.

Si indica un graffio sul braccio, una cicatrice piccolina.

− Questo è lui. –

Una mappa, credo sia, il suo corpo.

Lo guardo dal basso prima di appoggiare la mano sulla sua e sporgermi per baciarlo.

Ha sofferto tanto, non è vero?

Ha sofferto, Hajime.

− Abbiamo scoperto poi che non era un esule, era un ricognitore della Corte mandato a cercare informazioni sulle Fate. Era uno che contava, da voi. –

Deglutisce.

− E allora sono scappato da solo. Ho seppellito l'Elfo ai margini del villaggio, ho preso le mie cose e sono scappato nell'unico altro posto dove avessi legami di sangue. –

− La Corte degli Umani? – ipotizzo.

− La Corte degli Umani. – conferma.

Un ragazzino in fuga, l'uomo grande e grosso che mi tiene fra le braccia adesso.

Non è ironico?

Siamo...

Siamo così simili, io e lui.

− Mi sono arruolato, era la cosa migliore da fare. L'unico modo per campare per chi non aveva una famiglia. –

− È così che sei entrato nell'Esercito? –

− Ah-ah. All'inizio ho cercato di mantenere un basso profilo, di omologarmi agli altri. Non ero brillante, non particolarmente capace, solo uno fra tanti. Mi avrebbero messo nelle legioni di terra e avrei fatto una vita da soldato semplice, senza problemi. –

− Che cosa è andato storto? –

Sorride mi percorre la linea del naso con la punta dell'indice.

− Sai che cosa succede se dai a qualcuno che non ha niente qualcosa che per lui abbia valore? Se dici ad un ragazzino senza una vita che è bravo, che vale, che ha talento? –

Lo so che succede, lo so.

È quello che è successo anche a me.

− Non lo lascerà mai andare. –

− No, non lo farà. –

Mi sistema meglio fra le sue braccia, il calore del suo petto che mi si scalda la spalla.

− Uno dei sergenti che ci addestrava aveva dimenticato qualcosa nel cortile esterno e mi ha visto combattere per gioco contro un altro ragazzo. Era un mio amico, anche lui piuttosto bravo, ci divertivamo a picchiarci, sai com'è. –

Ridacchio.

− Ci ha spostati all'allenamento con i cadetti più vecchi, quelli che stavano per diventare soldati. Ci ha detto che il nostro talento era innegabile, che avremmo potuto fare grandi cose, dominare il mondo e salire in cima ai ranghi. Mi sono sentito importante, e ho pensato che se mi ci fossi un po' impegnato magari... sarei potuto tornare da vincitore dalle Fate, far vedere che valevo qualcosa anch'io, ridare una casa a mia madre. –

Mi salgono le lacrime agli occhi, col tono che usa, ma le ricaccio indietro.

Si sta esponendo, lo sta facendo per me, non posso dargli altro a cui pensare, quello che sta facendo è troppo importante.

− Io e il mio amico siamo diventati soldati semplici due mesi dopo, caporali per la fine dell'anno successivo, sergenti, marescialli nei tre anni dopo. Eravamo due stronzi venuti dal niente che prendevano qualcosa che volevano tutti. –

Sorride, mentre lo dice, come se fosse davvero fiero di questo.

Immagino che lo sia, è impressionante, no?

− Sai, una sera ci siamo ubriacati in una locanda per festeggiare e ricordo solo che ci siamo svegliati nudi in mezzo alla piazza del paese. Vallo tu a spiegare al luogotenente, è stato davvero ridicolo. – commenta, per raccontarmi giusto un retroscena, immagino.

In effetti, rido.

− Reggi così poco l'alcol? –

− Pochissimo, cazzo, ne ho fatte di ogni. Un'altra volta, sempre sbronzi come due stronzi, abbiamo fatto fuori la torta del banchetto per i sette anni del principino. Non ti dico la faccia della cuoca che ci ha trovati a dormire sul tavolo imbandito, ti giuro. –

Rido di nuovo.

− Oh, poi le risse. Innumerevoli risse. C'era sempre qualcuno che voleva picchiarci o qualcuno da picchiare, una roba imbarazzante. Mi hanno anche messo in cella, una sera, perché nella foga avevo spiaccicato a terra la faccia di un ambasciatore. –

− E non ti hanno mai cacciato? –

− No, non riuscivano a farlo. Ero troppo bravo, tutti e due lo eravamo, ed erano bravate che avevano fatto tutti. –

Mi lascio andare in un verso stranito.

− Io non credo che sarei durato un minuto. –

− Altroché, in quel marasma di Umani pieni di ormoni ti avrebbero mangiato vivo. –

Alzo un sopracciglio, quasi incuriosito.

− Anche tu? –

Fa spallucce, mi bacia di nuovo la testa.

− Io per primo. Sai, quando hai diciotto anni e ti faresti qualsiasi cosa con le gambe, se vedi la creatura più bella del Regno non ci pensi due volte. –

− Menomale che non ti ho conosciuto a quell'età, allora. –

− Menomale davvero. Se penso alle mie capacità di rimorchio mi viene in mente solo il mio amico che dice "forse è meglio che tu stia zitto e ti tolga la camicia, se parli si spaventano". –

Scoppio a ridere.

− Eri così male? –

− Tremendo. Ero molto più aggressivo di ora, continuavo a dire alla gente di andare a morire o che volevo ucciderla. Non chiedere perché, non lo so nemmeno io. –

Continuo a ridergli addosso.

Non credo saremmo andati d'accordo, o forse sì.

Non ne ho idea.

− Mi sono divertito, in quel periodo, tanto. Ero bravo in quel che facevo ed era pieno di persone con cui mi trovavo bene, mia madre mi mandava un sacco di lettere, il mio amico e io facevamo le peggio cose, sì, insomma, è stato divertente. –

− Poi cos'è successo? –

Perde un po' del suo sorriso, giusto un filo.

− Siamo saliti ancora in grado. Luogotenenti, abbiamo fatto gli addestramenti ai cadetti. Poi tenenti e capitani. Da capitano, a ventitré anni, avevo la mia personalissima legione, mi sentivo il più importante del mondo. –

Oh, se non lo sei, Iwaizumi Hajime.

− Però, in tutto questo, in una battaglia seria non è che avessi mai diretto qualcuno. Non mi era mai capitato di combattere per altri, prima solo per me stesso. Farlo è stato... −

Aggrotta le sopracciglia.

− Diverso. –

− In che senso, "diverso?" –

Respira.

− Avevo delle responsabilità, e le prendevo sul serio. Al primo caduto, ho fatto fuori metà della legione nemica da solo, perché avevano preso qualcosa che era mio. Le battaglie erano sempre più dure e io sempre più arrabbiato e mi ero dimenticato di cosa mi facesse la rabbia. Mi rendeva... cieco. –

− Come l'hai controllata? –

− Non l'ho fatto. Uccidevo i nemici senza guardarli in faccia. Non m'interessava che mi ferissero o mi si avvicinassero, non smettevo di combattere con le frecce sulla schiena, i tagli sulle braccia o le gambe, il sangue che usciva dalla testa. Ho vinto sempre, alla fine. Ma credo di aver anche iniziato ad avere paura di me stesso. –

Ed ecco un altro Hajime, un altro ancora.

− Poi abbiamo dovuto sterminare i ribelli ed è successa una cosa. –

− Che cosa? –

Prende di nuovo fiato, sento il suo cuore che batte contro il mio viso. Non è veloce, è calmo, però.

− Erano per la maggior parte Umani, facevano razzia al villaggio sotto la montagna, nel nostro territorio. Siamo arrivati là e li abbiamo uccisi tutti, uno per uno. Ricordo persone morte sui sentieri, sangue, morti. Tutti morti. Tutti. –

Quanta morte, nella sua storia, non è forse così?

− Avevo rimandato i miei a palazzo, finita la missione, a riposarsi mentre facevo ricognizione. Quando sono entrato nella tenda del Comandante, però, ci ho trovato dentro un bambino. Ho fatto quello che avrei dovuto. Ho preso il coltello, mi sono seduto vicino al cuscino dov'era, l'ho alzato e poi... −

− L'hai fatto? –

− Sì. –

Sembra... sofferente, mentre lo dice.

Non so in che sfumatura, so solo che è così.

− Prima di allora ero convinto che l'Esercito fosse il mio posto, quello dove avrei fatto tutto ciò che ero nato per fare, ma poi mi sono reso conto che... io quella cosa non l'avrei mai fatta, se qualcuno non me l'avesse ordinato. Io non ero così, o forse lo ero e non volevo, non riuscivo a capire. Penso che quello sia stato il primo momento in cui sono riuscito a fare qualcosa senza essere arrabbiato. Il primo in cui sono stato lucido. –

Ha i muscoli della mascella contratti, mentre parla.

− Questa è una delle cose che non volevo dirti per paura che mi odiassi e scappassi via urlando. – aggiunge, il tono sconsolato.

Oh, Hajime.

Sì, mi fa paura, mi fa schifo, lo trovo ingiusto.

Ma... perché, allora, mi sembra di essere finalmente in un posto dove nessuno mi farà mai del male? Se fossi davvero cattivo come dovrei pensare, perché dovresti essere qui a stringermi e raccontarmi le cose dolorose che ti sono successe?

− Tu non sei cattivo, Hajime. Non credo che tu lo sia. –

Non risponde, ma guarda la parete al fondo della stanza.

− Io credo che... ci sia stata tanta rabbia nella tua vita e che avresti fatto cose migliori senza quella, ma non ne potevi niente. Eri un ragazzino, con l'ordine di sterminare. Non sei stato senza cuore, hai solo imboccato la strada sbagliata. –

Mi appoggia la guancia sopra la testa, stringe forte, respira.

− Quando sei diventato così saggio? –

− Quanto tu hai iniziato ad avere bisogno che ti rassicurassi. –

Ride piano con me, il suo corpo inizia a rilassarsi, il mio con lui.

Tutto quello che faccio è baciargli un'altra volta il petto e lasciar correre.

− Il problema era che... dopo la faccenda del bambino, sono salito di grado ancora. A ventisei anni ero maggiore, a ventotto colonnello. –

Era...

Così giovane.

Così piccolo.

Il penultimo rango dell'Esercito ad un ragazzo.

− Solo che, colonnello o meno, rimaneva il fatto che i dubbi non andavano via. Da una parte c'era la vita di comunità con tutti gli altri, la adoravo, dall'altra i segni lampanti che quel che facevo non era... giusto. Prima uccidere un bambino, poi distruggere la città degli oppositori politici della Corona, poi sedare le rivolte. –

− Facevi difficoltà a farlo? –

Scuote la testa.

− Non è quello. Quando prendevo la spada in mano, Tooru, era come se il mio cervello si spegnesse e rimanesse soltanto un'enorme rabbia che mi impediva di fermarmi. Il problema è che iniziavo a rendermi conto, dopo, di che cosa avessi fatto. E non riuscivo a non detestarmi. –

− Prima non ti eri mai fermato a pensarci? – mi viene naturale chiedere, ma senza pressione, più con curiosità.

Muove le gambe sotto di me per sedersi meglio, l'acqua sciaborda un po' fuori dalla vasca.

− Prima potevo dare la colpa agli ordini. Da colonnello avevo le direttive di un superiore, è pur vero, ma gli ordini ai miei li davo io. –

− Hai iniziato ad essere riflessivo. Non è mai un bene. –

Alza le spalle.

− Non lo è, ma mi ha salvato la vita, credo. –

Non commento.

Si rimette a guardare dritto di fronte a sé, gli occhi che sembrano vuoti, concentrati su scenari che sono passati e può ricordare solo lui.

− Ero diventato così... non so neanche come definirlo. Non ero più una persona. Uccidere, uccidere, uccidere, pentirsi di notte, ricominciare il giorno dopo. Sempre in prima fila alle parate cittadine, a ricevere ovazioni di persone che avrei potuto distruggere in un attimo, con un colpo di spada. Intoccabile, inarrivabile, solo. Così solo. –

Ha lo sguardo alienato, distante.

− Tutti avevano paura di me. –

Aspetto che trovi le parole.

− Avevo sempre voluto il rispetto degli altri, sempre voluto che riconoscessero quanto valessi, ma quando è successo... mi sono reso conto che non c'era niente di bello. Mi faceva sentire forte, alzare un sopracciglio e vedere persone adulte tremare come bambini, ma poi loro, anche se erano deboli, tornavano ad una casa, da qualcuno. Io rimanevo solo con la mia forza. –

La parola "solo" la dice spesso, e questo mi spezza il cuore.

− Mi chiedevo se qualcuno mi avrebbe voluto bene, qualche volta, se fossi stato più debole. Se qualcuno mi avesse desiderato per qualcosa di più che togliersi uno sfizio. –

− Non c'era il tuo amico? Tua madre? –

− C'erano, c'erano, ma sono il tipo che si affossa da solo piuttosto che chiedere aiuto. –

Scuoto la testa piano.

− Non si fa, Hajime. Se ne parli con qualcuno che ti vuole bene stai meglio. –

− Non farmi la predica, Elfo. –

− Sì che te la faccio, altroché. –

Aggrotta le sopracciglia, sbuffa e alza gli occhi al cielo.

− Ti odio. –

− Lo sai che non mi odi, Hajime. –

− Lo faccio eccome. –

Mi tira su dalle spalle e mi sistema a cavalcioni su se stesso.

Quando fonde le labbra con le mie, non è com'era un'ora fa, bisogno e voglia e passione, più tristezza e ricerca di rassicurazione.

Ha davvero paura, Hajime, che quello che mi racconta mi spaventi a morte.

Ha paura che possa sembrarmi un bastardo.

Ma io li ho visti, i bastardi, li ho conosciuti, e questo mezzo Uomo non ci somiglia per niente.

Faccio leva sulle ginocchia per tirarmi su, chino la testa per continuare a baciarlo.

Mi stacco quando una delle sue mani si chiude sul retro di una coscia.

− Devi finire la storia, molla la gamba. –

− No. –

Assumo l'espressione più seria che riesca ad imitare.

− Molla, Hajime. –

Con un verso che somiglia più ad un grugnito, stacca la mano, avvolge le braccia sulla mia vita, mette la faccia sul mio petto e stringe.

Non si capisce bene cosa dica, ma immagino che lo aiuti a continuare la storia.

Gli accarezzo i capelli mentre parla.

− Si sono accorti che non invecchiavo. Non ricordo quanti anni avessi, ma non tiravo su una ruga. Il mio amico, quel cazzone, mi diceva sempre che secondo lui era la rabbia a mantenermi giovane, che le bestemmie mandavano via le rughe. –

Rido appena.

In effetti, sembra avere la mia età, assolutamente.

Forse qualche anno di più per il modo in cui il corpo è più maturo, più solido, ma non ha il minimo segno dell'invecchiamento.

− Hanno iniziato a pensare, ai piani alti, che fossi qualche mezzosangue strano. Facevano tante domande, ma non volevo che sapessero chi fosse mia madre. –

− Perché? –

Sospira.

− Tutte le creature odiano le Fate. Letteralmente ti possono uccidere con una domanda, chi vorrebbe avere a che fare con loro? E poi se avessero scoperto della mia magia, sarebbe stato un problema. –

− Non gliel'hai mai detto? –

− L'hanno scoperto da soli, ancora peggio. –

Alzo le sopracciglia l'una contro l'altra.

− Come? –

− Prima hanno provato a farmi sedurre da una, inutile. Poi da uno, ancora più inutile. Poi si sono fatti furbi, sono entrati in camera mia e hanno frugato fra le mie cose. –

Gratto appena la pelle della nuca, lo sento sciogliersi.

− Pivelli, la mia seduzione avrebbe funzionato. –

− Dici? –

− Dico, dico. –

Non mi contraddice, lo sa anche lui che è la verità.

Aspetto che la battuta si esaurisca per ritornare all'argomento principale.

− Che cosa hanno trovato? –

− Una lettera che non avevo bruciato col sigillo spezzato della prosperità, che è un simbolo delle Fate. Poi hanno fatto due più due e hanno capito. Ero venuto dal nulla, nessuno mi aveva mai visto in città. Non mi trasformavo, non c'erano segni di unghie nella mia camera, non ero pallido, non avevo le orecchie a punta e prendevo il sole, mangiavo la carne. Non potevo essere un Mutaforma, un Non Morto o un Elfo, ero per forza qualcos'altro. –

− E la tua magia? –

− Mi hanno costretto a mangiare le fragole. Ti ho detto che le usavamo per le torture, no? Di solito ne davano una a qualcuno e iniziavano a fare domande, aspettando che per la disperazione di averne ancora rispondesse a tutto. Ma io non rispondevo e non avevo alcuna ripercussione. –

− Che ti hanno fatto? –

L'hanno torturato? Hanno provato a farlo? Ma...

− Sono stato convocato dal Re. –

Dice quest'ultima frase con solennità, come se segnasse l'inizio di tutt'altro capitolo della sua vita. Non trema, la voce, è seria, è dura, anche se risuona contro la mia pancia e continua a stringermi.

Penso che se prima era lui, a tenermi fra le braccia, ora voglia solo essere tenuto.

− Il Re degli Umani era come loro, viscido, schifoso, pieno di progetti per fare male agli altri, rubare, guadagnare, arricchirsi. Avido. –

So come sono gli Umani.

Lo so.

− Mi ha fatto inginocchiare al suo cospetto e mi ha chiesto se volessi morire. Ho detto "no", ho detto che non volevo. Ha chiesto poi perché l'avessi tradito, non rivelandogli chi fossi, non dicendogli quale grande potere avessi, perché non fossi stato onesto nel servirlo. Ho detto che "avevo paura". –

− Sei dovuto scappare? –

− Ha detto che l'unica altra cosa che potevo fare, oltre a morire, era diventare il condottiero dell'Esercito e usare il mio potere per lui. –

− E tu? –

− E io ho detto di sì. –

Avrei così tante domande, ma non le faccio.

Non sarebbe giusto.

Io lo so cosa significa essere usati per qualcosa che non si ha scelti, diventare un mezzo per un risultato e farsi sfruttare. So cosa si provi ad essere un'arma.

Non lo auguro a nessuno.

Speravo Hajime non ne avesse idea.

− E da lì niente è più stato uguale. –

Lo so, lo so, lo so.

Ti chiedi perché, ti chiedi se sia giusto, ti senti artefice del tuo stesso malessere, ti senti colpevole. "Se non fossi nato così non dovrei soffrire a questo modo".

− Le direttive del Re arrivavano a me, e io comandavo gli altri. Tutti gli altri. Ero... probabilmente il secondo Uomo più potente del Regno. –

C'è un "ma" nascosto nelle sue parole.

− Ma mi sono accorto che essere il più forte di tutti era una merda. Non c'era... nessuno. Ero io, io, io e basta, io solo. Ho iniziato a volermi congedare, diritto che avevo, avendo servito per così tanto tempo. Avrei raggiungo i quaranta e me ne sarei andato, potevo farlo. –

Un altro "ma".

− Il Re non era contento. Il Re aveva un grande progetto per me. Il Re aveva bisogno di me. –

Mando giù la saliva.

− Il Grande Sterminio? –

Lo sento contro la mia pancia strizzare gli occhi, forte.

− Già. Lo sai qual è il nome esteso del Grande Sterminio? –

Non credo di...

Forse l'ho letto da qualche parte, non riesco bene a ricordarlo.

Un'immagine quasi fumosa inizia a formarsi nella mia memoria, parole che si raggruppano e assumono senso, logica, significato e...

Apro la bocca e parlo prima di rendermene conto.

− Il Grande Sterminio delle Fate. –

Annuisce.

− Il Grande Sterminio delle Fate. – conferma.

Rimango in completa confusione. Che significa? Lui ha... ha davvero...

− Quando me ne ha parlato, gli ho riso in faccia. Certo, erano un popolo di bastardi che mi avevano trattato di merda, erano potenzialmente letali per chiunque che non fossi io, ma erano pur sempre una marea di innocenti con qualche stronzo in mezzo. –

E allora, che cosa è cambiato?

− Io non ne volevo sapere. Ero l'unico che poteva farlo, ma non ne volevo sapere. –

Che cosa...

− Finché non mi hanno portato il cadavere di mia madre dicendomi che le Fate l'avevano trovata nel Bosco, piena di lettere dalla Corte degli Umani, che raccontava di un figlio condottiero dell'Esercito e l'avevano uccisa dandole della traditrice che aveva sporcato la discendenza mettendo al mondo me. –

Mi si gela il sangue nelle vene.

Sua...

Sua madre.

− Non l'avevano uccisa le Fate. Ma io non lo sapevo, la storia era credibile. –

− Che è successo? –

− Mi sono arrabbiato, Tooru. Mi sono arrabbiato davvero. –

Ha detto di essersi arrabbiato più volte, nel racconto, ma c'è qualcosa di diverso nella sua voce, ora. Sembra rivivere vividamente il ricordo, sembra farsi attraversare dalla sensazione come se gli serpeggiasse dentro.

Arrabbiato.

Lui si è...

− Le hai sterminate? –

− Una ad una, Tooru. Una ad una. –

Sento dolore, sento rimpianto, sento forse anche una vena di malsana soddisfazione.

− Ho passato due giorni chiuso in camera mia a fissare il vuoto, quando ho visto mia madre, perché non riuscivo a piangere. Il mio amico veniva a cercarmi, io non aprivo. Mi sentivo impotente, mi sentivo fragile. E mi sentivo arrabbiato. Il terzo giorno sono uscito, ho richiamato i miei sei colonnelli, il Re, e ho iniziato a parlare del piano d'azione. –

Stringe più forte le braccia attorno a me.

− Abbiamo fatto un'alleanza con la Corte di tuo padre, abbiamo provato coi Mutaforma ma erano neutrali. Ci sono voluti tre anni, ricognizioni, io che tento di ricordare le cose che avevo visto al villaggio, i dettagli delle planimetrie. Abbiamo sviluppato una sorta di inibitore magico, io e il medico della Corte, a partire dal mio sangue. Non rendeva immuni, rendeva più controllati. –

− Era così orrendo l'effetto che facevano agli Umani le Fate? –

− Terrificante. Gli Elfi lo patiscono meno, avendo anche loro una magia, ma gli Umani impazziscono. L'unico Umano che avevo visto resistere bene, era il mio migliore amico. Era cento per cento Umano, ma cazzo se non aveva la forza di volontà più salda del mondo. Non lo piegavi con niente, quel testone. –

Non c'è la leggerezza di prima, quando parla del suo amico.

− Abbiamo preparato le legioni, abbiamo fatto le ricerche, un piano dettagliato, addestramenti mirati. –

Respira contro di me un'altra volta.

È così irrigidito che mi sembra di sentirlo tremare, nonostante l'acqua sia calda e l'abbraccio ancora di più.

Gli accarezzo la schiena, le spalle, gli lascio qualche bacio fra i capelli.

− È stata la prima volta che ho fatto tutto da solo. Prima c'era il Re a spronarmi, o un superiore, e tutto quel che mi competeva era offrire qualche dettaglio tattico, i soldati, informazioni di qualche genere legate all'esperienza. Il Grande Sterminio l'ho fatto io, dall'inizio alla fine. –

Pesa di responsabilità, la sua voce.

− Opera mia. È stata tutta, completamente opera mia. –

Stringo i polpastrelli sui muscoli, premo verso l'interno per ammorbidirli.

− Ho cancellato un popolo intero. Ora nessuno sa come si chiamino, nessuno sa chi siano, nessuno ne parla più. Non c'è niente che parli delle Fate, da nessuna parte, perché le ho sterminate io. –

Quando senso di colpa, nelle parole di una persona sola.

− Diciannove anni fa sono entrato fra i cancelli che mi avevano buttato fuori da piccolo, ho tirato fuori la spada, e ho fatto una strage. Le Fate non sono un popolo di combattenti, sono un popolo di seduttori, non sapevano neppure come difendersi. –

Stringe la mandibola.

− Ho sterminato persone indifese. –

Deglutisce.

− Perché ero arrabbiato. –

Io... lo so, che niente di tutto questo dovrebbe ispirarmi la dolcezza che gli sto offrendo, so che dovrei avere paura, che...

Ma Hajime non è così.

Non più, credo.

Hajime è la persona che mi sveglia alla mattina infilandosi nel mio letto, quella che mi fa la cena e caccia per me, quella che mi difende, quella che mi dice che sono "bravo".

Io non posso giudicarlo per il modo in cui è stato, se ora è diverso, e non posso dire che sia malvagio sapendo che cosa abbia passato.

Sarebbe così facile, pensarlo cattivo, no?

Se le cose fossero bianche o nere, tutto sarebbe più facile.

Ma come lo giudichi un ragazzo che ti seduce per avere metà del tuo regno in un contratto impari che ti ruba la libertà? Lo giudichi come giudichi un Uomo a cui togli l'unica persona che ama e reagisce volendo il sangue.

"Cattivo".

E sia.

A me non importa.

− Il mio amico ha disobbedito ai miei ordini, durante la battaglia. In un capanno, si è fermato e ha detto che lui, quelle persone, non le voleva uccidere. –

− Quello che ti ha squarciato la tunica? –

− Lui. Ha trovato una Fata che piangeva in casa sua, un ragazzo disperato perché li stavamo trucidando e loro non avevano fatto niente, e non è durato un attimo di più. L'ha portato via da lì, via da me, e ha disertato. Non l'ho mai più visto. –

− E tu? –

− E io sono tornato vittorioso con le mani sporche del sangue della mia stirpe. –

Continua a tremare.

− Tu non potevi fare altro, Hajime. – mi viene spontaneo dire.

− Io potevo fare altro, potevo fare molte altre cose. Potevo andarmene, potevo piangere mia madre come una persona normale e affrontare il dolore, potevo... cazzo, non so neanche se mi merito di stare qui con te dopo tutta la morte che ho dato agli altri. –

Gli prendo il mento fra le dita, lo tiro su.

Ha gli occhi lucidi.

Non piange, però.

Non è tanto capace di piangere, quest'uomo, mi sa.

− Tu hai pagato la tua crudeltà con i sensi di colpa, Hajime. Perché sei qui, e non più dagli Umani, nell'Esercito? –

− Perché sono un'arma e sono troppo facile da manipolare. –

− E anche perché... −

− Non voglio far soffrire più nessuno. –

Lo so che non basta, "scusa", quando fai così tanto male agli altri.

Ma io non sono un santo, un giudice o un paciere, io sono una persona. E a me basta, basta quello che è ora.

Una creatura rotta, Hajime, rotta e spezzata.

Quanto bene, finge di essere intero.

Mi sembra di guardarmi allo specchio per un istante mentre mi chino per baciargli la fronte.

− So che cosa significa essere il mezzo di chi ti vede solo come un oggetto. Lo so. So quanto ti senti perso, so quanto sei solo. So come tutti ti sembrino solo estranei che non ti vorranno mai. –

Mi segue con lo sguardo.

− Se vuoi che ti dica che sei una brava persona, non posso. Ma non lo sono nemmeno io. –

− Tu sei giovane, Tooru, tu non hai colpe. –

− E non lo eri forse anche tu? Ti hanno rifiutato, cacciato, mandato via tutta la vita. Ti hanno insegnato che il modo di reagire alle cose era la violenza, che l'unico modo in cui ti saresti potuto guadagnare qualcosa che nessuno voleva darti era fare del male. Che cosa pensavi che sarebbe successo? Come potevi mandarla via, tutta quella rabbia, da solo? –

Stringe forte la mascella, come se stesse cercando di non piangere.

− Non posso dare tutta la responsabilità di quello che ho fatto agli altri. –

− Non puoi, no. Ma un po' sì. –

Gira il volto di lato, inclina la testa.

− Un po', dici? –

− Un po'. –

Appoggia con un tonfo la testa di nuovo sul mio petto, sospirando.

− Tu diventi utile solo quando si tratta di parlare, vero? –

− Probabile. –

Gli pizzico una guancia fra le dita.

− E per quanto mi lusinghi sentire che sono qualcosa che ti devi "meritare", Hajime, sei letteralmente la prima persona che mi tratta come se fossi reale, la prima che mi fa sentire qualcuno e la prima che mi fa sentire al sicuro. Non dire che non sia giusto che io stia qui con te perché è una stronzata. –

− Tu ti accontenti del minimo. È qualcosa che dovrebbero fare tutti, non trattarti come un pezzo di carne. –

− Vedi? Adorabile, Iwa-chan. –

Ride appena, non respinge né le carezze né il miliardo di bacetti fra i capelli.

Dopo un po', inizio a chiedermi un'altra cosa.

− Hajime? –

− Dimmi, Elfo. –

− Ma se tu sei venuto qui dieci anni fa e lo Sterminio è successo diciannove anni fa, in quei nove anni, perché sei rimasto là? –

Non sembra innervosito dalla domanda.

Risponde con calma.

− Ho trovato un bambino. –

Rimango interdetto.

"Ha trovato"?

È un modo per dire che ha fatto un figlio?

Con chi?

O magari ha solo salvato qualcuno.

− Dove? –

− Mutaforma del Nord, ci hanno mandato in missione. Ti ricordi quando ti ho parlato del bambino dei ribelli che ho ucciso? –

− Ah-ah. –

− Stessa situazione. Entro nella tenda del Capobranco e trovo questo bambino piccolissimo su una culla che dorme. Avrei dovuto ucciderlo, ma per la prima volta nella vita, dopo tutto quello che avevo perso, ho deciso di disobbedire. –

− L'hai salvato? –

Mi annuisce contro la pancia.

− L'ho portato a palazzo dicendo che l'avremmo potuto addestrare come membro della squadra, era comunque un Mutaforma. Un lupo, tra l'altro, di quelli grandi e grossi che ti tranciano la giugulare con un morso. Ho scelto di addestrarlo per uso personale. –

− E l'hai fatto? –

Ride appena.

− Per Yggdrasill, no. Volevo solo qualcuno a cui voler bene, credo. Mi ha aiutato ad affrontare il periodo dopo lo Sterminio, la solitudine, i rimpianti. Per tutti i primi due anni di vita ha continuato ad attaccarmi i pettorali credendo fossero tette, ma mi piaceva stare con lui. –

Sorrido verso di lui all'idea.

− Hai fatto il papà? –

− Un po', credo di sì. –

− E ora lui dov'è? Ancora dagli Umani? –

Scuote la testa un'altra volta.

− Dieci anni fa ho iniziato a ritrovarmi questo lupo di piccola taglia in camera e ho iniziato a capire che stava iniziando a trasformarsi sempre più regolarmente. Sapevo che l'avrei dovuto addestrare come avevo detto o qualcuno avrebbe fatto problemi. Quindi mi sono congedato, e ho portato il lupo con me. –

E ora?

Chissà dov'è, ora, il suo piccolo lupo.

− L'ho lasciato al Branco delle Lande. Sono tutti lupi, come quelli del Nord. Serviva qualcuno che gli insegnasse come vivere da Mutaforma, e io non potevo. Ma qualche volta lo rivedo. –

− È quello che mi dicevi di cercare se mi avessero attaccato? Quel Kageya... −

− Kageyama Tobio. Lui. Un lupo diciassettenne convinto che sia suo padre nonostante gli abbia detto come l'ho trovato più di una volta. Non andreste per niente d'accordo, voi due. – borbotta, pizzicandomi il fianco.

− Con mio fratello andavo davvero d'accordo, ed era un diciassettenne pure lui. Nemmeno particolarmente brillante a dirla tutta, solare e carino quanto ti pare, ma un po' tonto. –

Mugugna in disapprovazione, poi torna in silenzio e di nuovo rimaniamo ad abbracciarci nell'acqua e basta.

Le cose si mescolano, si sommano.

La dissociazione di quando l'ho visto uccidere, il carattere schivo ma responsabile, l'atteggiamento "misterioso", la difficoltà a fidarsi.

− Ho un'altra cosa che vorrei chiederti, ma forse non è delicata. – dico, dopo un po'.

Scrolla la testa.

− Quello che vuoi, Elfo. Se non mi va non rispondo. –

− Se hai detto che non sono state le Fate a uccidere tua madre, chi è stato? –

Non lo sento irrigidirsi, tutto quello che fa è stringermi a sé più forte.

− Gli Umani. –

− Posso chiedere come l'hai capito? –

− Prima di congedarmi, ho dovuto chiedere il permesso al Re. Era così incazzato che il suo prezioso cane se ne andasse che ha perso la pazienza, quello schifoso. Era ubriaco, era sempre ubriaco, e mi ha urlato in faccia di non aver "fatto uccidere mia madre per niente". –

Oh, merda.

− L'hai ucciso? –

− Avrei voluto, ed ero lì lì per farlo, ma poi mi sono ricordato di Tobio. Non potevo essere un fuggitivo ammutinato attentatore del Re e dargli una vita nel futuro, no? Me ne sono andato e basta. –

Se da una parte questo mi solleva, dall'altra per niente.

Il merdoso meritava di morire.

− L'hai lasciato andare così? –

− Sì. L'unica cosa che ho potuto fare è stata dirgli che mi scopavo sua moglie. –

Mi strozzo con la saliva.

− Cosa? –

− Quale capo dell'Esercito non si fa la regina? È logico. –

Rido appena, prima che mi salga una fitta di... gelosia nello stomaco.

− Stavi con lei? –

− Ma no, succedeva solo qualche volta. I reali si eccitano a vedere i soldati, non capisco perché. –

Schiocco la lingua.

− Lo so io perché, Hajime. Perché siete belli, siete pieni di cicatrici e potreste spezzarci in due con un dito, ok? In ogni caso, com'era questa regina, eh? Era per caso... −

− Stai facendo il geloso? –

− Ovviamente no! –

Penso che la tensione si sia finalmente spezzata quando scoppia a ridere e io rimango offeso come un cretino a fissarlo sganasciarsi completamente da solo.

− Tu sei geloso, Tooru, sei geloso! Della regina della Corte degli Umani con cui facevo sesso più di dieci anni fa! –

Tiro le braccia al petto e le incastro conserte di fronte a lui.

− Non sono geloso, è che sembra che ti piacesse un sacco la regina, ok? E poi era una regina. –

− Non sembra che mi piacesse un sacco, ho letteralmente detto che aveva vent'anni e che le piacevo, fine. –

Sporgo il labbro.

− Pe... pensi che sia meglio una regina di un principe? – mi ritrovo a chiedere con un filino di voce, imbarazzato io stesso da quello che sto dicendo.

Iwaizumi ride di nuovo.

− Cosa? –

Inizio ad innervosirmi.

− Hai sentito, ora rispondi. –

− Ma... −

Lo fisso con così tanta serietà che persino smette di sorridere.

Rimane un secondo fermo, prima che senta una mano, la stessa mano, rimettersi sulla coscia che prima tentava di stringere.

− Principe degli Elfi col cervello di uno scoiattolo vince sulla regina, assolutamente. – dice, avvicinandosi piano verso il mio viso.

− Sei sicuro? –

− Mmh, assolutamente. Non sono qui perché devo occupare il tempo o perché tu mi sbavi dietro guardandomi da fuori, sono qui perché voglio e perché mi fai sentire importante. –

Mi si riempie il cuore.

− E poi aveva le gambe molto più corte delle tue. –

Roteo gli occhi fingendo fastidio.

In realtà un po' mi piace, sentirmi dire che sono meglio, anche se immagino che la poverina non abbia colpe, in tutto questo.

Mi lascio baciare, quando mi bacia, mi lascio toccare le gambe e mi lascio abbracciare.

Scorre tutto così in fretta.

Quando mi stacco e lo guardo negli occhi castani che nascondono quel tono scuro di verde che esce solo in certi istanti, mi sembra di guardare una persona così...

Non saprei come dirlo.

Mi sembra di essere più vicino a lui, più caldo, più al sicuro, più importante. Mi sembra di conoscerlo e di poterlo conoscere, di poter condividere, di essermi meritato qualcosa di grande.

Quando complicato sei, Iwaizumi Hajime, e quante ne hai passate.

− Grazie per avermi raccontato tutto, comunque. Significa molto per me. – dico, senza allontanarmi di un centimetro.

− Significa molto anche per me. –

Prendo fiato con calma.

− So che dev'essere stato doloroso, tanto doloroso, vivere tutto quello che hai vissuto. Ma se posso permettermi, sono grato alla vita che ti ha fatto questo, perché ti ha portato da me, e non c'è nient'altro che mi renda più felice. –

Sorride appena.

− Sono grato anch'io, Elfo. –

Rimaniamo a guardarci sorridendo come due scemi non so per quanto.

Miseria, quanto siamo complicati, io e Hajime.

Siamo proprio un casino.

Ma credo che ci meritiamo, quantomeno, di esserlo assieme.

− L'acqua è fredda, usciamo e andiamo a dormire? –

− Come vuoi. Stai attento, quando esci, copriti subito che fa freddo. –

Altro bacio, altro incontro di labbra a metà strada.

− Smetti di preoccuparti per me sempre, Iwa-chan. –

Lo sguardo che mi lancia è un misto di preoccupazione, fastidio e dolcezza, chissà cos'altro.

− Penso che prima tu debba farmi secco. –

Sorrido.

− Davvero? –

− Davvero. –

Indietreggio nella vasca per alzarmi, mi continua a guardare.

− Non ti libererai mai più di me, lo sai? – borbotta, lo sguardo incollato alle mie gambe.

Rido appena, scuoto i capelli bagnati nell'aria, esco dall'acqua.

− Lo so. E non credo lo vorrò fare mai. −

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

➥✱"fìrinn" in gaelico significa "verità".

(ringraziamo tuttə esserechemangia che me l'ha riletta grazie grazie grazie)

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