𝗮𝗯𝗵𝗮𝗶𝗻𝗻
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Credo che la condanna più grande che la vita che ho condotto mi ha consegnato, sia il non comprendere le mie stesse emozioni.
Uccidere, sventrare, obbedire, fare e ricevere.
Ho condotto una vita da pragmatico.
Ho sempre reagito alle cose guardandole come se fossero un semplice connettivo logico fra causa ed effetto.
Purtroppo, le persone, che siano Elfi, Umani o Mutaforma, purtroppo non funzionano in questo modo.
E sono fermamente convinto, ora più che mai, che non ci sia alcun vantaggio nell'essere stati cresciuti freddi, limitando le proprie reazioni istintive.
Quando sei un soldato, quando hai la spada in mano e vuoi il sangue, quando combatti per vivere, ti dicono tutti che più sei freddo, più sei forte.
Ma è una stronzata.
Ed è una stronzata, perché quando arrivano, e arrivano, arrivano sempre, le emozioni non sai come prenderle, non sai dove metterle, non sai come affrontarle.
Sono abituato alla rabbia.
Ma la rabbia non è qualcosa di statico.
C'è il fastidio, l'incazzatura momentanea, il perdere la pazienza di tanto in tanto, la frustrazione.
C'è la furia.
La furia, se dovessi descriverla, direi che è come prendere fuoco dentro e sentirsi bruciare sottopelle, senza riuscire a spegnere in alcun modo l'incendio che avvampa.
Ricordo la furia di quando mia madre è morta.
Non so se questa furia sia la stessa, è illogico che lo sia, ci sono grandi differenze.
Ma i sentimenti, le emozioni, sono di per se stesse, profondamente illogiche.
Furia.
Furia cieca.
Furia nera, si dice, ma direi che è rossa, la mia furia, ed è del rosso del fuoco che scoppietta nel camino quando torno a casa, del rosso che mi gocciola addosso, del rosso del sangue.
Avessi più abitudine, avrei studiato quel che mi succedeva.
Ma non ne sono in grado.
Che limite, può essere, non sapersi aprire con se stessi.
Non saprei dire che cosa l'abbia scatenata, la furia. Direi l'idea che qualcuno avesse trattato l'Elfo di nuovo come se non valesse niente, ma temo che sia una spiegazione troppo superficiale.
Che abbiano visto di lui quel che c'è fuori e basta, forse.
No, non credo.
Che l'abbiano... toccato?
Non lo so, non credo.
Sono una persona protettiva, lo sono sempre stata, non so perché, è una cosa mia e basta. Proteggo per istinto, proteggo le cose e le persone a cui tengo, e m'imbarazza meno di prima, ora, ammettere che tengo all'Elfo.
Ma non è protezione, questa.
Questa è...
Gelosia?
Ma geloso di cosa?
Io...
Non credo di sapere, onestamente, che cosa stia succedendo dentro di me.
Ma l'aver ucciso, la sensazione della vita che si spegne di fronte a me, quel potere folle che ti dà rubare qualcosa di così importante, ha riportato un po' di silenzio nel marasma dei pensieri che mi sono imperversati dentro nelle ultime ore.
Silenzio.
Momentaneo, ma silenzio.
L'ho trovato seduto sulla sedia di legno di fronte al camino, quel viscido verme, le mani chiuse con l'orecchino di Tooru in mezzo, gli occhi vitrei e distanti, l'odore dell'avarizia umana che riempiva la stanza.
Sembrava...
Al villaggio dove sono cresciuto raccontavano storie su quanto gli Umani fossero attaccati alle cose materiali.
Teneva quel gioiello fra le mani come i protagonisti dei racconti che ho ascoltato, come se fosse la cosa più importante della sua vita, come se l'avesse di colpo riportato alla coscienza del tempo che scorre.
Il suo.
L'ha chiamato suo.
Ho chiesto dove l'avesse preso, e ha risposto che era suo.
Non era suo.
Ho pensato per un istante che fosse mio, e quel "mio" non era riferito all'orecchino, lo sappiamo tutti, ma il pensiero è stato travolto dalla mia furia qualche istante dopo.
Non mio, non è mio.
Ma di certo non è suo.
Non sono di quei folli che ridono mentre ammazzano, sono di quei folli che non tradiscono un'emozione.
Cos'è peggio? Ammettere che ti piace o non sentire nulla?
Ha macinato, la furia, ha macinato ed è esplosa.
È nata la scintilla con lo sguardo dell'Elfo, che da felice, scoppiettante, gioioso si è trasformato in puro terrore.
Non mi piace il suo viso, così.
Non nel senso che non sia bello, ma mi sposta qualcosa dentro, e vorrei che quel qualcosa fosse a posto, davvero.
Avrei voluto... consolarlo. Farlo sentire meglio con le parole, magari, poter usare l'empatia per connettermi con lui e sistemare quello che lo faceva sentire male.
Non ne sono in grado.
Causa, effetto.
Causa, un viscido è venuto qui a toccarlo.
Effetto, l'Elfo è triste, ha paura, si sente uno schifo e pensa di doversi scusare con me per non essere riuscito ad uscirne indenne.
Causa, io mi incazzo.
Effetto?
Effetto, io lo ammazzo. Lo elimino, via dalla faccia della Terra Conosciuta, così l'Elfo non si preoccuperà mai più e ricomincerà a sorridere come faceva prima.
Forse mi sono troppo abituato all'idillio di noi due che stiamo qui in mezzo al Bosco, forse vivere così lontano da tutti mi ha distaccato ancora di più dalla convivenza con tutto il resto del mondo.
Ma non m'interessa.
Penso, mentre lo guardo squadrarmi, lui e la sua pelle chiara, il tessuto bianco perla che gli si fonde con la carnagione, il corsetto da donna che sta meglio a lui di quanto non sia mai stato su qualsiasi persona io abbia mai visto, che non m'interessa.
Mi piace, l'idillio.
Potremmo rimanere qui per sempre.
Lui non dovrebbe uscire mai più.
Penso che lo potrei proteggere bene.
Penso che trasformerei questo posto in un paradiso, dove esistiamo solo noi due, dove tutto il resto è distante e non può toccarlo.
Ma un paradiso non è forse una gabbia?
Non lo ingabbierò.
Non se lo merita.
Credo di dover pensare un po', perché niente di tutto quello che si accampa nella mia mente, silenzio o meno, mi sembra essere una soluzione adatta.
E il mio cuore martella nel petto, quando lo guardo spalancare gli occhi mentre parlo, mentre fissa l'orecchino che appoggio sul tavolo.
Non è tormento.
Non è furia di dolore.
È una furia diversa, ma non capisco che cosa voglia dire, non ce la faccio.
Io...
Non ho mai provato questa cosa.
Immagino di doverla ancora scoprire.
− Iwaizumi, sei ferito? –
Provo a sorridere, ma non riesco molto bene. Evito un secondo tentativo.
Apro la bocca per parlare, ma l'Elfo è in piedi che mi raggiunge e mi sembra di essere in una fiaba così bella che non me la sento, di spezzarla con la praticità della mia voce.
Sarebbe bello.
Ingiusto, ma bello.
Vivere la mia vita di fuori e tornare da lui, tenerlo qui così che nessuno possa toccarlo, custodirlo via dagli occhi di tutti.
Ingiusto, sbagliato, malvagio.
Un pensiero d'insicurezza.
Ma insicuro di cosa?
Non s'imbarazza del sangue quando mi tocca le spalle e si avvicina al mio viso, mi studia con gli occhi vigili, cerca segni di ferite.
Non mi ha ferito.
Ha solo urlato.
− Sembra che tu sia morto e tornato dal Sidhe. Ti prego, dimmi che stai bene. –
Oh, che carino. Mi piace come mi tocca. Credo che fosse questo, quello che intendevano i miei compagni nell'esercito, quando parlavano di "tornare a casa".
− Sto bene. – mi concedo di dire.
Trattiene il respiro, rimane fermo, poi si rilassa.
− Grazie a Yggdrasill. –
Non gli fa schifo, il sangue.
Lo tocca senza problemi, quando lo spazza via dal mio viso con calma.
− Non c'era bisogno, mi dispiace che tu abbia sentito il dovere di farlo. – mormora.
− Non ho sentito il dovere. –
E non è forse peggio?
Perché non ha paura?
Deglutisce.
− Come dici tu. –
No, non ho sentito il dovere e no, non sono dispiaciuto.
Sono dispiaciuto che tu sia stato male, solo questo.
Ho fatto quello che dovevo fare.
Non funzionano così, le cose?
− Devi lavarti, Iwaizumi. –
− Perché mi chiami "Iwaizumi"? –
S'irrigidisce.
Non è la domanda che si aspettava, non lo è.
Non voglio che mi chiami Iwaizumi, mi sembra distaccato. Non voglio essere distaccato.
Io, le emozioni, non le conosco, non so come affrontarle, le respingo.
Questo vuol dire che quei giorni, quelli rari, rarissimi in cui arrivano come un'ondata inarrestabile di dubbi nella mia testa, non riesco a fermarle.
Ci sono e basta.
E non ho la forza né la capacità di limitarle.
Quindi sì, sento in questo istante, il fastidio che mi tratti come se fossimo lontani.
− Mi sembra più adatto all'occasione, sai, sei pieno di sangue e... −
− Abbracciami. –
S'irrigidisce di più. No, non essere rigido, non esserlo.
Va tutto bene, ora, ho messo tutto a posto.
Perché diavolo le emozioni sono così difficili?
Temo che si allontani ma l'Elfo, l'Elfo si avvicina e apre appena le braccia.
− Manca un po' di rosso a questo completo, in effetti. – commenta.
Non mi trattengo quando si inserisce nel mio spazio, stringo forte le braccia addosso a lui e lo spremo contro il mio petto, annusando l'odore di fiori che hanno i suoi capelli.
− Ora va tutto bene. – dico, per rassicurarlo.
Non posso, con l'empatia, ma ho fatto questo. Questo va bene, va tutto bene.
− Non va tutto bene, Iwa-chan, sei pieno di sangue e potevi farti male. Non potevamo bere una tisana e insultarlo davanti al caminetto? – risponde.
Un po' di rabbia monta nel mio corpo ma defluisce quando sento come mi ha chiamato.
Lo stringo più forte, appoggio la testa al fianco della sua.
− Non mi avrebbe mai potuto fare male. Avevi paura che mi facessi male? –
La domanda suona pericolosamente come un "ti importa di me?"
Annuisce piano.
C'è qualcosa che mi ricorda il modo in cui i grandi trattano i bambini che fanno qualcosa che non va. Una via di mezzo fra il contentino e il timore di non capirsi.
Ma non m'importa.
I fatti sono che mi sta abbracciando e che nessuno può più minacciarlo.
Va tutto bene.
− Ho paura che tu abbia fatto qualcosa di cui ti pentirai quando sarai più lucido. E allo stesso tempo fatico a capire che cosa ti abbia fatto infuriare a quel modo. –
− Non mi piace quando sei triste. –
Mi passa una mano sulla spalla, le punte delle dita sul collo.
− La vita è fatta anche di tristezza, Iwa-chan, non puoi fare sempre finta che non ci sia. –
Sembra più grande di me.
Ma credo di essere, emozionalmente parlando, più piccolo di lui.
Perché lui ci lotta, con se stesso, ma si conosce nel poco che pensa di valere.
Lui è maturo, da quel punto di vista.
− Non posso ammazzare tutte le persone che ti fanno sentire triste? –
Mi pizzica la guancia con le dita.
− La maggior parte delle volte sono triste con me stesso, che fai, mi ammazzi? –
Scuoto la testa.
Tira indietro un paio di ciocche appiccicate alla fonte dagli schizzi di sangue.
− Come ti senti? – chiede.
Come mi sento?
− Strano. –
Ride piano.
− Molto d'aiuto, Iwa-chan, grazie mille. Più felice o più triste? Credi di aver bisogno di qualcosa in questo momento? –
Ho bisogno...
No, non ho bisogno di niente.
Ma ho voglia di qualcosa.
E la voglia è dei deboli, è degli Umani avari che odio.
Che strane, le emozioni, quando sono mescolate col sangue di qualcosa che detesti così tanto perché sai di poter essere.
− Dormi con me? –
− Va bene. –
Così accondiscendente, questo Elfo tanto bello. È irritante, è vero che è irritante, ma... si mescola bene con diverse sfumature di me.
− Ti fa schifo che ho ucciso qualcuno? –
Lo sento tirare su le dita sulla mia guancia, togliere altro sangue senza il minimo tremore nel corpo. Si avvicina alla mia guancia e ci appoggia le labbra sopra, pacificamente e con calma.
Schiocca piano, il bacio, ma in un rumore umido e sottile che mi sa di calore e affetto.
− Non mi faresti mai schifo, Iwa-chan. Penso che ci fossero altre soluzioni, penso che la cosa non ti piacerà domani mattina e che ti potrebbe creare qualche problema, ma schifo, no di certo. –
Ha il tono calmo.
Chi l'avrebbe mai detto, che l'Elfo poteva essere così adulto?
È... d'aiuto.
Non credevo di averne bisogno.
− Grazie di aver ripreso il mio orecchino, ci tenevo molto. – aggiunge, prima di staccarsi nonostante le mie braccia cerchino di trattenerlo.
Mi sistema il colletto della camicia e sbottona la prima asola.
− Abbracciami di nuo... − sento dire dalla mia stessa voce, prima che i riccioli chiari vengano scossi nell'aria da un pacifico "no".
− Devi lavarti e dobbiamo andare a dormire. Ti abbraccio domani, se hai ancora voglia di essere abbracciato. –
Metterei il broncio, ma non sono così disperato.
Ci sono grandi macchie di sangue, sul suo completo chiaro, tingono il bianco di un rosso scarlatto che ha qualcosa di regale, nella sua tonalità.
Gli sta bene, indosso, il sangue che ho versato per lui.
Annuisco appena.
− Allora vado. – dico, pur senza fare un passo.
− Vai. –
Voglio...
Non voglio.
Non ho voglia.
Voglio stare qui, voglio stare qui con lui.
Si avvicina una volta ancora, sorride guardandomi negli occhi come se volesse tranquillizzare tutta la tensione che provo con quel solo sguardo di seta.
− Mi cambio e ti aspetto a letto, va bene? –
Che bravo, l'Elfo. Proprio quello che mi serviva, un po' di rassicurazione, un po' di certezza.
Ho sempre voglia di rimanere qui, ma la prospettiva non mi terrorizza.
− Va bene. –
Posso andare.
Perché ci sarà quando torno.
Posso...
I pensieri si annodano e si diradano mentre mi giro, tornano e scompaiono, iniziano ad annebbiarmi.
Stanno dando il loro saluto finale, la loro confusione ultima, lo so.
Domani non ci saranno più.
Aspetto con ansia che scompaiano.
Ma qualcosa mi dice, in fondo alla testa, che se volessi davvero farli scomparire, tutti, tutti quanti, la soluzione non sarebbe il sonno.
Sarebbe mandare via l'Elfo.
E la soluzione, a discapito della mia freddezza e compostezza, mi dispiace ma non è davvero, in alcun modo, quella praticabile.
La mattina dopo, rimangono solo i rimasugli di un'emozione così forte da avermi fatto tremare.
Mi sveglio all'alba.
Apro gli occhi stanchi nella luce pulita del mattino con un gran mal di testa, i muscoli pesanti e tanta nebbia nel cervello.
Merda.
Ho...
Ho ucciso di nuovo.
Avevo promesso che non l'avrei mai fatto.
Ho... chiesto all'Elfo di abbracciarmi, non è vero? Gli ho chiesto di dormire qui.
Cazzo, mi sembra di essermi svegliato dopo una colossale sbronza.
Merda, merda.
Tooru dorme fra le mie braccia come una creaturina piccola e delicata, le ciglia lunghe che gettano ombre fitte sulle sue guance chiare e le labbra increspate in quello che sembra un broncio minuscolo.
Le emozioni sono terrificanti, cazzo.
Che cosa ho fatto?
Mi tiro su cercando di non svegliarlo.
È comodo, stare a letto, se non fossi così confuso e arrabbiato con me stesso, credo che avrei superficialmente sperato di rimanere ancora un po' in quella posizione.
È caldo, morbido e profuma.
Ma il trasporto che mi dice di non andarmene, mi dà fastidio come tutto il resto, per cui mi sposto piano lasciandolo a letto senza dire una parola.
Devo... scusarmi?
No, posso ben far finta che non sia successo niente.
Ma è successo, è successo e basta.
Merda, merdissima, merda.
Devo...
Quando combattevo, certe volte mi accadeva di perdere me stesso. Mi accadeva di svegliarmi giorni dopo stragi pieno di dubbi e confusioni, e una cosa riusciva a calmarmi.
Devo solo riuscire ad andarmene prima che si tiri su.
Non sono in grado di affrontare una conversazione, in questo modo.
Ho la pelle pulita, devo essermi lavato a fondo, ieri.
Prendo una camicia dal cassetto, cambio i pantaloni, scendo di sotto.
Sono intorpidito, ed è la tremenda sensazione dei muscoli stanchi che mi ricorda che cosa io abbia davvero combinato.
Ho ucciso.
Avevo detto che non avrei ucciso.
L'ho fatto.
Maledettissime emozioni.
Non mi fermo a fare colazione, non bevo nessun infuso, non vedo una figura vestita di bianco nella mia cucina che sorride e mi porge frutta raccolta prima che mi tirassi su.
Non ho tempo per quello.
Devo fare delle cose oggi, non devo farle?
Avrò di sicuro qualcosa da fare.
Ed eppure mi sembra che tutto non abbia più né senso né valore, quando mi sciacquo il viso con l'acqua chiara che ho raccolto l'altro giorno sperando di cacciare via un po' della foschia che è la mia memoria.
Dovevi rimanere dov'eri, Iwaizumi assassino senza scrupoli.
Da quando ho lasciato l'esercito, quell'Iwaizumi ha fatto capolino nella mia testa solo ed unicamente quando rischiavo la vita.
Quando un ladro mi ha aggredito all'ingresso del Bosco, quando ho protetto persone al villaggio.
Ma ora...
Non ce n'era bisogno.
Irritante di un Elfo, vedi che cosa mi fai. Prima di te era monotono, tutto, è vero, ma era meno terrorizzante, meno spaventoso.
E invece tu, i tuoi orecchini di merda e la vocina petulante, mi state gettando in una marea che non conoscevo e che mi fa tremendamente paura.
Sistemo i vestiti messi di fretta, getto via i ciocchi carbonizzati del fuoco che ieri non ho spento.
La spada è sul tavolo, ancora.
La lavo con fastidio.
C'è l'intarsio di un leone, sull'elsa.
La odio, questa spada di merda, cazzo se la odio.
Quante vite ha strappato.
Una ieri.
Perché mi sono arrabbiato.
Ho davvero bisogno di calmarmi, sì che ne ho bisogno.
Passo un panno a caso di quelli che trovo sotto l'acqua e trascino via le gocce di sangue e i grumi del corpo che ho sventrato dalla lama liscia.
Completamente fuori da ogni grazia di Yggdrasil, non è vero?
Tutto questo per un paio di gambe lunghe e un visino triste. Non è normale, non lo è. Perché l'ho fatto? Perché non trovo una risposta?
Mi sembra tutto così stupido, ora.
Verso l'acqua dalla brocca di vetro sull'arma, la osservo risplendere.
Devo reprimere un conato quando vado a rimetterla a posto assieme alle cose di quando ero un soldato, infilate nello scaffale più in basso della grossa libreria.
Non le prendo più, le armi.
Le odio.
Io sono un abitante del Bosco, ora, sono un esule sopravvissuto che uccide solo ciò che mangia e non fa del male ad una mosca.
Perché ho lasciato che accadesse?
Esco di casa prima che i pensieri mi soffochino.
Dopo le emozioni, arrivano gli strascichi di quella parte di me che si sforza di comprendere. Nella maggior parte dei casi, faccio qualcosa per impegnarmi e lasciar perdere, ma ora come ora temo di dover fare uno sforzo diverso.
Credo di dover provare, almeno un po', a capire che cosa stia succedendo.
Perché, come ho pensato ieri, e ricordo di averlo pensato, l'unico modo che avrei di lasciar cadere la questione, sarebbe mandar via l'Elfo.
E non so per quale motivo, l'idea mi turba più di quella di ricominciare ad uccidere.
Mi imbuco fra le frasche senza pensarci due volte.
C'è un ruscello, che scorre ad Est del rifugio.
Sento l'acqua che batte contro i sassi.
Ci prendo l'acqua di solito, ma se salgo un po' verso l'interno, troverò la sorgente. Nella sorgente c'è qualcosa della magia della popolazione passata di questo posto, qualcosa che sa di fiori e di calma, che mi rincuora un pochino.
Se proprio devo mettermi a fare il chiacchierone, quantomeno avrà senso che lo faccia dove mi sento tranquillo, no?
Corro, fra le frasche, non attendo, e lo faccio perché temo che se mi fermassi ricomincerei a non capire nulla.
No, che non capisco nulla.
Merda, merda.
Arrivo alla radura, un'altra come quella dove vivo, più piccola e tranquilla, col fiatone.
Devo appoggiare le mani sulle ginocchia e respirare a pieni polmoni per calmare l'ansia e l'ansimare.
− Perché? – dico ad alta voce.
Potrei dirlo a me stesso.
Ma questo posto mi ricorda qualcuno.
E quel qualcuno è l'unica persona alla quale nella vita io abbia dato l'occasione di sentire i miei tormenti.
− Perché sto una merda, madre? –
Non risponde.
Non può.
Chissà dov'è, la vecchia, ora. Nel Sidhe o nell'aria, se quello non esiste.
Arranco di qualche passo in avanti.
− Perché l'Elfo mi fa sentire in quel modo? Perché ho perso il controllo? –
L'acqua è limpida, mentre nasce fra le rocce e risuona nel suo scrosciare delicato.
− Perché non capisco niente? –
Rispondi ma non rispondere, dammi un segno anche se non ci sei, spiega.
Non credo di riuscire a farlo da solo.
Mentre ascolto la mia voce rimbombare nel vuoto, mi abbasso sulle ginocchia. Mi siedo a gambe incrociate, la testa che cade in basso e guarda il tessuto dei pantaloni, l'aria che sferza nel freddo mattutino contro la mia pelle.
− Io non volevo uccidere nessuno. Non volevo fare più male a nessuno. Perché l'ho fatto? –
Perché...
No, Iwaizumi, no. Parti dai fatti.
I fatti.
Quelli ti sono familiari, parti da quelli.
− Mamma, l'Elfo è strano. –
Su quello siamo tutti d'accordo, ok? Siamo tutti d'accordo.
− È... bello, cazzo se è bello. È un sacco bello. È più bello della gente che c'era in città quando vivevo con te e sai che è strano che sia più bello di voi. Ti direi che è più bello di te ma tu eri una brutta racchia. – borbotto, ridacchiando.
No, che non era una brutta racchia.
Era una bella creatura.
Ma la caratteristica più comune della sua specie era la bellezza.
− Lui lo trattano tutti come se fosse scemo. Non lo so se lo facciano davvero, ma la racconta così. E tu mi dicevi sempre che le cose che sento sono più importanti di quelle che succedono, quindi immagino valga anche per lui. –
Merda, sto davvero parlando di qualcuno allo spirito svanito di mia madre?
Siamo caduti in basso.
− Mi chiama "Iwa-chan" e mi piace, mamma. Ti rendi conto? –
Riderebbe, se fosse qui.
− Ieri un tizio è venuto qui e l'ha trovato. L'ha... aggredito. Aveva così tanta paura che mi è sembrato volesse scappare. Ho pensato di fare qualcosa. –
Prendo un grosso respiro.
− Perché ho pensato di fare qualcosa? Per combattere l'ingiustizia? È vero, che sono un idealista, lo dicevi anche tu, ma ho paura che non sia questo. Che cosa potrebbe essere? –
Tiro su la testa, osservo l'acqua che scroscia.
− Era come se ci fosse qualcosa che mi faceva davvero incazzare e non riuscissi a sopportarlo. Come se mi avessero preso qualcosa. –
Tiro su le ginocchia, ci appoggio la testa sopra.
− Ma l'Elfo non è qualcosa. Che cosa vuol dire? È la mia parte umana? –
Il silenzio trasmuta in cantare di uccellini a giorno.
− È come se... come se mi salisse qualcosa di strano nel petto quando è triste. Mi sento strano quando è felice, ma tutto va bene, quando sorride. Poi però piange, o trema e io sto uno schifo. –
Abbasso le mani sull'erba, la tocco passando i polpastrelli sui fili chiari d'erba.
− Tu non lo sai, ma quando ero nell'esercito, c'era sempre un mio sottoposto che si lamentava ad ogni missione. Era sempre di cattivo umore quando partivamo, borbottava tutte le sere che non voleva che sua moglie fosse triste. Io pensavo che fosse una stronzata. –
Ricordo vividamente le lamentele e le lagne, e mi sembrano fin troppo comprensibili ora.
− Diceva che odiava vederla piangere quando partiva. –
Il fiato mi si incastra in gola.
− A me non piace che l'Elfo pianga. Quando si è dato fuoco alla tunica, ieri, ha pianto ed era una porcata. Ma ho pensato che avrei voluto ricucirla a mani nude, se l'avesse fatto sorridere di nuovo. –
Deglutisco la saliva.
− Poi è arrivato il tizio. Io non c'ero, ero a cacciare, idiota che sono. Quando sono tornato aveva gli occhi spalancati e sembrava aver visto un fantasma. –
La sua faccia è marcata a fuoco nella mia testa.
− Volevo che stesse meglio. Solo che stesse meglio. Quando sta meglio io sto meglio, quando sorride a me viene voglia di sorridere. –
Si alza una brezza verso di me, sento i capelli sollevarsi piano nel vento calmo che m'investe.
− Perché mi rende felice che sia felice, madre? –
Non risponde, mia madre.
Ma una cosa spunta nel mio cervello.
Mi sembra di sentire la sua voce, anche se è solo la mia coscienza che nei giorni peggiori prende il suo tono mellifluo.
Me la immagino, con i capelli lunghi e castani e gli occhi verdi che mi tocca la testa e appoggia il polpastrello sulla mia fronte, scorrendolo fino al naso.
Avrebbe sorriso come faceva sempre prima di prendermi in giro.
Idiota di un Hajime, come fai a non vederlo? La verità è che l'Elfo ti piace.
Eh?
Cosa?
A me non piace l'Elfo.
No, un attimo.
A me non piace nessuno.
Non in quel senso.
Faccio sesso, qualche volta, perché mi va. Ma non mi piace nessuno. Non sono in grado.
Ti fa sentire vivo e tu vuoi sentirti vivo. Non c'è mica niente di male, cretino, è una bella cosa.
Mi alzo di scatto.
− Madre, dici sempre un sacco di stronzate. Te lo dicevo quando ero piccolo e te lo dico ora, dici sempre una marea di cazzate. – affermo al silenzio.
Perché non vuoi che ti piaccia?
Perché...
Non mi piace.
− Madre, ha vent'anni, è irritante come lo schifo e si veste monocolore tutti giorni. Non sa fare quasi nulla di pratico e parla un sacco. Perché dovrebbe piacermi? –
Non c'è un perché, c'è che ti piace e basta.
No, col cazzo.
A me non piace l'Elfo.
− Quindi tu vorresti dire che tutto il mio tormento interiore e tutta la confusione di due giorni è riconducibile solo alla stupida idea che l'Elfo mi piaccia? –
Non è stupida, non c'è niente che muova più emozioni di quel genere dell'attrazione, Hajime.
− Non è vero per un cazzo. –
E allora perché ti sei infuriato?
− Perché odio le persone viscide. –
È vero?
No, cazzo, non è vero. Ma non voglio dire che mi piace, perché non mi piace, ok? Non mi piace nemmeno un pochino.
Lo trovo detestabile.
No, forse no.
Insopportabile.
Lo trovo...
Da chi sei corso a rifugiarti quando sentivi di non avere più controllo? Potevi ridargli l'orecchino e scomparire, ma gli hai chiesto di stringerti. Gli hai chiesto di dormire con te. La versione di te senza freni, Hajime, sa che l'Elfo le piace.
− Gli ho chiesto di abbracciarmi perché è bello e profuma. –
Credi davvero che la semplice bellezza ti renda a quel modo? Saresti come l'uomo che hai ucciso, se fosse così. E tu sei tanto diverso.
Oh, merda, merda.
Capire i sentimenti è ancora più una merda.
− Io non ho voglia di stare a sentire le tue troiate. –
Stronzetto, vattene anche, guarda che tanto torni. Conosco il mio bambino testone.
− Non sono un bambino testone. –
Lo sei. Nessuno che non è un bambino testone si prenderebbe una cotta per un Elfo che si odia.
− Io non ho una cotta. –
Ce l'hai.
Mi alzo di scatto.
Sono offeso... con la mia coscienza che parla con la voce di mia madre. Ha senso? No, cazzo, non ce l'ha, ma cosa ha senso?
Vivo in un cazzo di Bosco magico, mangio fragole che ti ammazzano e dormo con uno stronzo che usa la magia per cambiarsi d'abito, non è il senso che mi serve.
'Fanculo la logica.
Ho detto che ero logico?
Sticazzi, la logica non mi piace più. L'ho deciso ora. La mia stupida coscienza logica dice solo cazzate.
Metto su l'espressione più incazzata che posso quando faccio dietrofront verso la casa.
E m'incazzo ancora di più, quando mi rendo conto che sto sorridendo, perché forse l'Elfo mi ha davvero fatto la colazione.
Ventiquattro ore dopo, inutile dirlo, sono di nuovo qui.
Non è colpa mia, ok?
L'ansia dell'omicidio, ora, è stata completamente soppiantata da altro schifo.
Sono di nuovo seduto dov'ero ieri, un'altra volta con le gambe incrociate sul pratino a fissare il ruscello come se mi avesse fatto qualcosa di male, pieno di rabbia repressa e fastidio, a scoppiettare di tutte le cose che non riesco più a respingere.
− Sai qual è il problema, madre? Che uccidere mi ha sbloccato le emozioni e ora non riesco più a non sentirle. Prima era meglio, quando non c'era. Ora lo mando via. –
Le provavi anche prima, scemo, solo che facevi finta di no. Gli dicevi che era bravo per fagli un favore e l'hai abbracciato come un cretino quando ti sei reso conto che non sarebbe andato via, non fare il brillante proprio ora.
− Non è vero. –
No?
Sbuffo ad alta voce.
− Ieri mi ha abbracciato senza che gli dicessi nulla, ha detto che me l'aveva promesso. Non me la sono sentita di mandarlo via, è stato piacevole. Profumava di buono ed era morbida, la sua pelle, ed ero così calmo. Ho pensato che volevo rifarlo subito dopo. –
Che cosa ho detto? Ti piace.
− Mi ha rifatto il pranzo, e non è bravo a cucinare. Ma non sono riuscito a dirgli che faceva schifo, perché non volevo che mi rompesse le palle. –
Non gliel'hai detto perché non volevi farlo rimanere male.
Sbuffo di nuovo.
− No, cazzo. Non dire stronzate. –
Rimango in silenzio qualche istante.
Se c'è da essere onesti, è questo il posto.
− Mi piace quando mi tocca. È piacevole. Vorrei mi toccasse più spesso. Ma se lo facesse d'istinto? Se non volesse davvero farlo? Vorrei che volesse farlo. –
Se lo fa lo vuole fare. Perché non dovrebbe?
− Dice che è abituato a soddisfare le persone perché i suoi glielo facevano fare. Se facesse lo stesso con me? Ha detto che sono la prima persona ad averlo fatto sentire qualcuno, ma se fosse solo il caso? Se magari avesse incontrato solo persone peggiori? –
Ha con te lo sguardo che aveva col verme, quando lo tocchi?
Mi sale un brivido di furia lungo la spina dorsale.
− No, col cazzo. Sorride come un cagnolino e si lagna quando smetto. –
Vedi?
− Ho pensato di nuovo, oggi, che vorrei che nessuno gli facesse male. Che vorrei tenerlo qui e proteggerlo. Non è inquietante, madre? –
Non è inquietante. No, ok, un po' lo è. Ma amore mio, sei cresciuto condividendo tutto, ora che hai qualcosa, che vuoi qualcosa, è comprensibile che tu te la tenga stretta, no? È solo il tuo modo di essere geloso.
− Geloso di lui? Io non sono geloso. –
Pensa a qualcuno che lo tocca come fai tu.
− Col cazzo, gli taglio le ma... −
Geloso marcio.
Schiocco la lingua in un verso di pura frustrazione.
− Sono solo protettivo, ok? –
E non è anche questa una risposta, Hajime? Chi hai protetto nella tua vita?
− Ero protettivo anche con i miei uomini, ma non piacevano di certo. –
Te lo concedo, questo te lo concedo. Ma era così forte, la protezione che davi a loro?
Ci penso su.
Tanto da uccidere, credo di aver protetto poche persone nella mia vita. Mia madre, di certo, perché era famiglia. Tobio, perché sento nei suoi confronti l'affetto di averlo salvato quando era un bambino.
Tu proteggi le persone che sono importanti. L'Elfo è importante.
− Lo conosco da una settimana, madre. Due, se proprio vogliamo essere eccessivi. Pensi che sia abbastanza perché qualcuno diventi importante? Non ho voluto bene a gente con cui sono stato amico decenni, non ha senso. –
Questo genere di cose non ha senso.
Che fastidio.
− Non mi piacciono le persone. – dico ad alta voce, esprimendo la cosa più lampante che ho dalla mia in questa discussione con me stesso.
Non le trovi attraenti?
− Sì, ok, ma è diverso. Trovare qualcuno attraente è completamente diverso da pensare che mi piaccia. –
È vero, ed è proprio per questo che ora sei tu, ad essere diverso.
Mi sto incastrando da solo, non è vero?
Che lui ti attragga, però, non c'è dubbio, e su questo siamo d'accordo.
Siamo d'accordo.
Mi attrae, ma stento a credere che qualcuno non ci si sentirebbe attratto. È bello in modo vergognoso.
Ma oltre all'attrazione, che cosa c'è? Come trovi il suo carattere?
− Adorabile. –
Non avrei dovuto dirlo, lo so. È una fossa che scende, è una morte certa della mia coscienza, ammetterlo.
Non c'è neppure nessun motivo per cui lo trovi adorabile.
− Solo che è strano, madre, è così strano. A me non vanno mai a genio le persone come lui, che chiacchierano e che non fanno mai niente di utile. –
Non è solo questo, di' la verità. Non è solo un chiacchierone che non sa fare niente di pratico, non ti piacerebbe se fosse solo questo.
− Infatti non mi piace. –
Fa quasi ridere la soddisfazione infantile con cui lo dico, ma non rido perché sento che quello che ho appena dichiarato, non è poi così vero quanto vorrei.
Pensa a qualcuno che dice all'Elfo che è frivolo e inutile.
Il pensiero si forma nella mia mente.
Sento... rabbia, rabbia e fastidio.
Che cosa faresti, se qualcuno lo facesse sentire male con queste parole?
− Lo odierei e vorrei ucciderlo. Perché ridurrebbe una persona complicata a due caratteristiche del cazzo che non lo rendono com'è. –
È quello che stai facendo tu, non te ne rendi conto? Cosa gli faresti notare, in più?
− Gli direi che è anche una persona altruista, che è divertente, che s'impegna e anche se non è bravo quantomeno ci prova. –
E vuoi davvero dirmi che queste cose, di lui, non ti piacciono?
Avessi un grammo in meno di autocontrollo, mi metterei ad urlare.
Davvero, ad urlare.
− E anche se fosse? – mi scappa dalla bocca, come una minaccia contro me stesso.
Vai, continua.
− E anche se mi piacessero? E anche se mi piacesse che non mi annoio, con lui, e se mi piacesse il modo in cui mi fa sentire? E se mi piacesse lui, che cosa ci sarebbe di male? –
Ti rendi conto di quello che hai appena detto?
Le parole mi bruciano sulle labbra.
Che cosa ho appena...
Oh, cazzo.
− No, no, non intendevo quello. –
E cosa intendevi?
− Che se mi piacesse, nel caso in cui, cosa non reale, mi piacesse, non sarebbe qualcosa di male. Ma non è la verità. –
Non fare il testardo.
Non sto facendo il testardo.
Facciamo così, facciamo finta che stiamo parlando di una realtà parallela in cui l'Elfo ti piace. Non è vero, per carità, sia mai, ma facciamo finta. Che cosa ti spaventerebbe?
− Io non sono spaventato. Non ho mai paura. –
Non abbiamo tempo anche per questo, Hajime, ok? Molla un po', miseria.
Sbuffo.
È vero che non ho mai paura.
Ma penso di poter prendere in considerazione anche quella, come una variabile del caso specifico e lontano di cui sto parlando.
− Avrei paura che lui mi, che mi vede ora come qualcuno su cui contare, se scoprisse che mi piace potrebbe pensare alla fine che io sia come tutti gli altri. Sono la prima persona che vede oltre la bellezza, no? E se non fosse vero? –
Amore mio, tu lo vedi oltre la bellezza fisica. Lui ti piace oltre quella, perché dovrebbe trattarti come chi non lo ascolta neppure?
− Magari penserebbe che ho fatto finta. –
Hai fatto finta?
− No. –
Alzo lo sguardo e lo lascio vagare nei tronchi chiari che vedo oltre il ruscello. C'è silenzio, e in quel silenzio il mio "no" rimbomba e risuona.
− Rovinerei tutto, madre. Non voglio rovinare tutto. I sentimenti mi rendono sempre fuori di testa, lo sai anche tu. Lo sai quante persone ho sterminato, per una manciata di sentimenti. –
Lo so che cosa ti hanno fatto, bambino mio, lo so. Ma qua non c'è nessuno che li usa contro di te, qua c'è solo una persona che ti piace.
− Ma ho ucciso per lui. –
Hai scelto tu di farlo, non te l'ha chiesto, non l'avrebbe fatto. Com'era quando sei tornato?
− Aveva paura che mi fossi fatto male. Sembrava che... −
Non sembrava, l'Elfo ci tiene a te. Ci tiene e non vuole farti male, è gentile. Non puoi buttare fuori qualcuno che è gentile e ti fa sentire qualcosa per chi ti ha sfruttato. Non sarebbe darla vinta ancora una volta a chi con te è stato cattivo?
Darla vinta, dice.
Darla vinta.
Se mettessi a margine l'Elfo usando come scusa che in passato mi hanno usato facendo leva su qualcosa che di me stesso ancora neppure comprendo, la darei vinta.
Tu sei uscito da quel mondo. Sei andato via. Conquistare la libertà vuol dire anche riprenderti i tuoi sentimenti, Hajime. Così te li stai facendo rubare.
Me li sto facendo rubare?
Glieli sto lasciando un'altra volta?
− Ma come faccio a riprendermeli? Tu la fai facile, madre. –
Non la faccio facile, non è facile. Riconoscerli, però, potrebbe essere un inizio.
Io... non li voglio riconoscere.
Ma perché non voglio farlo?
Perché fanno paura, i sentimenti, le emozioni, perché mi fanno diventare un folle in preda all'istinto e sono troppo pericoloso per essere a quel modo.
Non sapessi come uccidere, sventrare e combattere, vincere, distruggere, forse potrei.
Ma sono pericoloso.
− Non voglio fare male a nessuno. –
L'hai fatto, l'altro giorno, perché non hai saputo come metabolizzare le emozioni che ti sono arrivate. Le avessi capite, non l'avresti fatto.
− E non sarebbe meglio non provarle? –
Mandalo via, allora. Alzati e vai da quell'Elfo, digli che vuoi che se ne vada. Fallo.
− Non se ne parla, non ha un posto dove andare e mi pia... −
Mi blocco.
Finisci la frase.
− No. –
Mi sembra di sentirla ridere una volta ancora.
Mia madre riderebbe, mi metterebbe una mano fra i capelli e li arrufferebbe sorridendo, guardandomi con quegli occhi che mi hanno sempre fatto sentire piccolo e indifeso.
Finiscila, Hajime.
Non vorrei finirla.
Non credo di avere scelta.
− Mi piace che sia qui. Non sarebbe lo stesso se non ci fosse, e non voglio rimanere da solo. –
Da solo o senza di lui?
Deglutisco l'amarezza.
− Senza di lui. –
Chino la testa.
Merda.
Pensa a quello che hai appena detto e tenta di rivivere quello che è successo con quell'uomo che hai ucciso. Rispondimi, perché l'hai fatto?
− Perché ha preso la cosa più bella che ci sia nel mondo e l'ha minimizzata come se non valesse niente. Perché ha toccato qualcosa che volevo che fosse mio. Perché voleva rubarmelo. –
Che cos'è, questa?
Sospiro piano.
− È gelosia. –
Di cosa?
− Dell'Elfo. –
Perché sei geloso?
− Perché non mi fido degli altri. Perché possono farlo sentire male e non voglio, voglio che sia felice e che sorrida sempre. –
Perché lo vuoi?
Fa paura.
Non fa forse paura?
Dirlo è spaventoso.
Non c'è più il caso fortuito, non è un'ipotesi campata in aria.
Sto analizzando i fatti e prendendo in conto le emozioni.
E c'è una sola verità.
Una che mi terrorizza, perché mi terrorizza dare così tanto potere a qualcuno che non sono io stesso, mi terrorizza essere in balia della scelta altrui.
Ma un pezzettino di me dice che questa paura non è lecita. Che mi sto privando della verità per un dolore del passato, che sto facendo un torto a qualcuno che invece non ha dimostrato mai cattiveria nei mei confronti una singola volta.
− Perché l'Elfo mi piace, madre. – dico ad alta voce.
Mi piace.
Merda, mi piace davvero un sacco.
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➥✱"abhainn" in gaelico significa "fiume, ruscello".
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