Deniel - lei a casa mia
Feci scattare le sicure e aprii lo sportello dalla parte del conducente, sedendomi sul sedile e tirandolo indietro in modo da potermi sistemare Becky sopra le ginocchia. Mi assicurai che i suoi piedi fossero all'interno dell'abitacolo e chiusi la portiera, ribloccando le sicure.
Il suo mugolio contro il palmo della mano aumentò. Probabilmente si era effettivamente resa conto di essere in trappola e che ormai non sarebbe più stata in grado di attirare l'attenzione dei vicini di casa. Piantò i talloni contro la consolle della macchina in un tentativo di sfuggire alla mia presa, ma l'unica cosa che ottenne fu di far aderire il suo delizioso fondo schiena al mio basso ventre.
Digrignai i denti e la strinsi più forte, bloccando quasi del tutto quel suo insistente dimenarsi che, Dio! stava rischiando di farmi uscire di testa.
Quando la sua natica di strusciò inavvertitamente contro la mia coscia sentii il cavallo dei pantaloni tirare e per un attimo fui tentato di scaraventarla nei sedili posteriori, strapparle di dosso quei due straccetti leggeri che aveva addosso e farla mia. Fanculo se era pieno giorno. Fanculo i vicini. Fanculo se non mi voleva.
Ecco! Fu proprio questo ultimo fanculo che mi fece riacquistare un barlume di ragione. Per quanto la Bestia dentro di me ringhiasse fino a soverchiare la mia coscienza, il solo pensiero di stuprare la mia ragazzina era talmente aberrante da riuscire a zittire la parte animale che imbrattava i miei istinti.
Tirai un lungo respiro dalla bocca e lo gettai fuori. "Piccola, ora ti lascio libera la bocca. So che è inutile chiedertelo, ma potresti evitare di urlare fino a spaccarmi i timpani? Noi licantropi abbiamo un udito un bel po' più sviluppato del vostro".
In risposta fece scattare indietro il gomito e mi colpì le costole. I suoi mugugni si trasformarono in un ansimo, segno che si era fatta male.
"Accidenti", brontolai, posizionandola senza fatica sul sedile accanto al mio. "Quando imparerai a non metterti contro chi è più forte di te?".
Cercai di afferrarle il braccio per controllare il gomito ma lei si dimenò, ritrovandosi in ginocchio sul sedile, sbattendo i palmi della mani contro il parabrezza per cercare di attirare l'attenzione di qualcuno.
"La strada è vuota", le feci notare.
"Togliti quel fottuto sorriso dalla faccia", sbraitò, provando ad aprire la portiera. Non riuscendosi si lanciò contro di me, sporgendosi verso il mio sportello.
Mi impietrii. Dio santo! Non si rendeva conto di ciò che faceva? Mi si era sdraiata sopra le ginocchia, gettandomi una ciocca di capelli in faccia, col culetto a ponte che ondeggiava innocente agni volta che tormentava la leva della portiera. Non l'avrei mai presa con la forza, ma che cazzo! Pure lei!
"Io fossi in te mi toglierei da sopra di me", la invitai, fingendomi paziente.
"Fottiti".
Le colpii la natica con uno schiaffetto e lei sussultò, ritraendosi di scatto, e tornando seduta.
"Ti avevo avvertita", sorrisi perfido.
I suoi occhi lanciavano saette. "Non hai il diritto di toccarmi come ti pare e piace".
"In realtà ho tutto questo diritto. Quindi ringrazia che sia ancora abbastanza lucido da essermi limitato a schiaffeggiarti anziché palparti". Misi in moto. "Allacciati la cintura".
"Non verrò con te", urlò. "Fammi immediatamente scendere".
Ingranai la marcia. "No".
Appena la macchina si mosse in avanti si sporse verso il volante e cercò di deviare a destra. Sollevai la mano e la misi sopra la sua, imprigionandola e riprendendo il controllo del Pick Up.
"Lasciami", strillò.
"Se lo faccio farai la brava?".
"Io ti ammazzo Deniel Farrow. Giuro che lo faccio". Strattonò la mano un paio di volte e quando si rese conto che non avevo alcuna intenzione di lasciarla andare si sistemò meglio sul sedile, sporgendosi verso di me per non perdere l'equilibrio. "Non puoi rapirmi sul serio. Ma che ti salta per la testa? Finirai in prigione".
"Almeno lì smetterò di sentire le tue urla".
"Molto divertente", mi guardò di sbieco. "Ora lasciami. E sbrigati a farlo".
Mi sfuggì un sorriso. Era coraggiosa la micetta. Ma Dio che carattere di merda che aveva! "Mi stai dando un ordine?".
"Tu non fai forse la stessa cosa con me?".
Corrugai la fronte e la fissai. "Sento l'estremo bisogno di ricordarti chi tra noi due è la femmina".
Con la mano libera mi colpì con un pugno e doveva essersi impegnata davvero molto perché riuscì a voltarmi la faccia di qualche centimetro.
"Merda", boccheggiò, ritirando il braccio e premendolo contro la pancia. "Dio!".
"Ti sei fatta male di nuovo?".
"Sì!", esclamò, scoppiando a piangere. Sbirciai svelto verso di lei e dallo sguardo capii che erano lacrime di frustrazione e non di paura. Se non altro era un passo avanti.
"Fammi vedere", trattenni una risata, sfiorandole il polso. Ero certo che non si fosse rotta nessun osso, però volevo controllare da vicino, e bene.
"Non toccarmi". Retrocesse di scatto, appiattendosi contro lo sportello e nascondendo la mano tra le cosce.
Distolsi gli occhi dalla strada e osservai le sue sottili dita scomparire tra la stoffa dei suoi pantaloni, un po' troppo stretti per i miei gusti. Annotai mentalmente che avremmo dovuto lavorare sul suo abbigliamento. Cosa che tra l'altro avrei gestito personalmente visto che era senza soldi e senza abiti. Nella foga di portarla via non le avevo nemmeno lasciato il tempo di mettere insieme una valigia. Del resto, il biglietto che avevano recapitato a suo padre riportava un messaggio cristallino. Solo un idiota avrebbe perso minuti inutili per raccattare abiti ancora più inutili.
"Forza, dai. Dammi la mano. Voglio solo controllare che non ti sia fatta niente", incalzai, cambiando marcia e aumentando l'andatura una volta che attraversammo l'ultimo incrocio che separava la Down Town dalla periferia più a nord. Ci lasciammo alle spalle gli alti edifici e imboccammo la strada statale costellata di insegne segnaletiche che indicavano i vari percorsi fattibili sul monte Eagle.
"Non ti do niente, hai capito? Niente!", disse, voltandosi verso il finestrino. "Men che meno la mia mano".
"Devo venire a prendermela lì?", minacciai, indicando il punto sconveniente in cui la stava tenendo nascosta.
"Non osare". D'istinto serrò le cosce e col delizioso fondoschiena fece piccoli saltelli sul sedile, cercando di mettere ulteriore distanza tra di noi. Se avesse continuato di questo passo il suo corpo avrebbe lasciato un calco nello sportello.
Infine però, dopo alcuni secondi, con esitazione si decise ad allungare le dita sotto al mio naso. Feci scattare gli occhi dalla strada alla sua mano, dalla sua mano alla strada, quindi di nuovo contro la sua mano. A parte le nocche arrossate non sembravano esserci altri danni.
"Appena arrivati ti metterò del ghiaccio", le dissi premuroso, senza nascondere un pizzico di preoccupazione. Possibile che riuscisse a farsi male anche stando seduta in una macchina?
Senza dire nulla - il ché era abbastanza preoccupante - tornò a voltarsi verso il finestrino, registrando ogni dettaglio della strada. Non era la stessa che turisti o gente del posto percorreva per arrivare nelle zone non soggette a restrizioni o divieti e sapevo con certezza che non fosse nemmeno indicata sulle mappe come strada percorribile. Di fatto era solo una stradina sterrata percorribile esclusivamente con un Pick Up, talmente ripida che le ruote slittavano sui vari massi attraversati e resi umidi da un torrentello che si divideva in due piccoli rii che durante la stagione estiva scomparivano quasi del tutto.
"Perché mi stai portando a casa tua?", chiese ad un certo punto.
"E' più sicuro".
"Come fai a dirlo?".
"Nessuno entra nel mio territorio da vivo".
Becky posò la fronte sul finestrino. "I miei genitori daranno di matto, te ne rendi conto?".
"Anche i miei".
Si voltò lentamente verso di me. "Mi porterai da tuo padre e tua madre? Sul serio?".
C'era troppa speranza nel suo tono, convinta che, portandola dalla mia famiglia, questo potesse garantirle una sorta di salvezza. Strinsi le labbra sopra pensiero. Sarebbe stato interessante il loro primo incontro.
"Non sei ancora la mia compagna, perciò non ho alcun diritto di vivere con te. Starai da loro per tutto il tempo".
"Sul serio?".
"Cosa ti sorprende?".
"Pensavo mi avresti gettata in una cantina umida con dei topi o in una soffitta nascosta e ben barricata in modo che la tua gente non mi vedesse".
Pensai ai maschi in calore e di colpo i suoi timori non mi parvero una brutta idea. In effetti chiuderla in una soffitta mi avrebbe senza dubbio evitato diversi problemi. "Credimi, ne sarei tentato. Ma non sei un mio ostaggio e io non sono il lupo cattivo".
Sgranò gli occhi. "Mi prendi in giro?".
"Ascoltami, sto facendo tutto questo per salvarti la vita. Se tu ti fossi mostrata collaborativa non avrei dovuto portarti via di peso".
"Ah, certo!", cantilenò. "Scusa se non ti ho aiutato a rapirmi e a strapparmi via dalla mia famiglia".
"Non ti ho rapita".
"E questo come lo chiami? Invito galante a seguirti? Passerai una montagna di guai, non hai nemmeno idea di quanti ne passerai. Sai, forse ti sfugge che le regole licantrope sono un bel po' diverse da quelle umane. E il rapimento è punibile con la legge. C'è la galera per questo. Ed è lì che marcirai fino alla fine dei tuoi giorni. Non pensare che non abbia da parte dei soldi per un buon avvocato. Anzi! Non mi serve nemmeno un avvocato perché le prove sono schiaccianti. Ti arresteranno prima ancora che tu possa emettere un fiato e allora vedremo. Ah, sì! Vedremo se poi farai ancora l'arrogante".
Dio che coglioni! Di solito le femmine con cui avevo sempre avuto a che fare entravano in questa macchina per provare a sedurmi, senza chiedermi nulla, e arrivando subito al sodo. Soprattutto ci entravano di loro spontanea volontà, senza quasi aspettare un invito. Oppure erano femmine di licantropo che accompagnavo ai margini del nostro territorio per mostrare i confini o al campo degli addestramenti.
Con lei invece le cose funzionavano sempre in modo diverso. Lei continuava a parlare, a urlare e di nuovo a parlare. Contestava tutto, criticava tutto, doveva capire ogni mio gesto e il perché delle mie azioni. E si incazzava pure!
"Ascoltami piccola, le cose sono due: o chiudi la bocca o te la chiudo io con la mia", la guardai di sbieco. "E sono talmente incazzato da supporre non ti piacerà".
Si tappò la bocca, stringendo le labbra talmente forte da formare una sottile linea bianca, ed io ringraziai il cielo per quell'attimo di tregua. Peccato non durò più che dieci secondi.
"Quindi ora mi minacci pure? Il prossimo passo cosa sarà?".
Ma porca...
"Mi violenterai ogni volta che non farò come dici tu?", continuò, puntandomi un dito contro.
Al limite dell'esasperazione calcai bene il piede sul pedale del freno e inchiodai al centro della strada, allungando il braccio verso Becky per non farla rimbalzare contro il parabrezza.
Ruotai il busto in modo da voltarmi verso di lei e mi sospinsi in avanti, posizionando le mani sul poggiatesta, ai lati del suo viso. Il respiro caldo e profumato di rose mi scivolò addosso in una lenta carezza, risvegliando il desiderio che con la rabbia ero riuscito a tenere a bada.
"Non ti violenterò, mi hai capito?", le alitai contro. E Cristo se era difficile non farlo! "Però è bene che tu sappia che non minaccio a caso. Faccio sempre quello che dico".
"Che intendi?", balbettò, voltando la testa prima a destra, poi a sinistra, osservando allarmata le mia braccia che le stavano facendo da gabbia. "Che intenzioni hai?".
Mi umidii le labbra e i suoi occhi seguirono il mio movimento. "Lo sai che intenzioni ho".
"Okay, senti, scusami. Ho capito. Ho parlato troppo. Mi avevi avvertita e io non ti ho dato retta. Ti giuro che...".
Scattai di colpo in avanti e come avevo avvertito le tappai la bocca, approfittando del suo ansimo di sorpresa per infilarle la lingua all'interno e assaporarne il palato. Era morbido, caldo e umido. Ruotai la lingua contro la sua, immobile e passibile al mio bacio. Le stesse labbra erano inermi, tenute in ostaggio dalle mie. Il rifiuto era talmente evidente che non le servì nemmeno provare a ritrarsi, eppure qualcosa nel modo in cui il respirò cambiò mi fece capire che non era indifferente come stava cercando di farmi credere.
Non era il respiro spezzato e veloce di una donna terrorizzata, era piuttosto il respiro corto di chi stava facendo di tutto per non cedere al desiderio.
Spostai il braccio dal poggia testa e dischiusi gli occhi. Il mio bacio la stava distraendo a tal punto da non essersi nemmeno resa conto che non la stavo più tenendo imprigionata. Quindi staccai le labbra di mezzo centimetro e le lasciai una scia umida lungo la guancia, dietro all'orecchio, fin giù al collo. In un gesto del tutto incondizionato Becky voltò la testa per lasciarmi libero accesso e la macchina si impregnò dell'odore della sua eccitazione. Il bacio che le stavo depositando sulla clavicola si trasformò in un sorriso vittorioso.
"Posso ragionevolmente sperare che ora te ne starai zitta per il resto del tragitto?", la stuzzicai, muovendo le labbra contro la sua pelle umida di saliva. La mia. Merda! Dovevo darmi una calmata. "O ti serve qualche altro avvertimento?".
"No", rispose piccata, indossando la sua solita maschera altezzosa dopo qualche breve attimo in cui aveva dovuto riempirsi i polmoni di aria per calmarsi. "La tua dilettantistica e spocchiosa lezioncina mi è bastata".
Dilettantistica...? Ma che cazzo...?
Sollevai di scatto la testa, staccandomi del dolce profumo della sua pelle, completamente intriso dalla fragranza di gelsomino.
"Se ritieni di dovermi insegnare qualcosa in fatto di baci non hai che da dirlo", borbottai, rimettendomi seduto comodo al posto di guida.
Eppure non riuscivo a togliermi dalla faccia un mezzo ghigno. L'odore di gelsomino era così forte che temevo mi sarebbe rimasto addosso ai vestiti e alla tappezzeria per settimane. Che indossasse pure tutte le maschere che voleva, quindi.
Aprii uno spiraglio nei finestrini e ingranai la marcia.
"Io non ho nulla da insegnare a uno come te", rispose dopo un po'.
"Anche perché sei vergine".
L'odore del gelsomino venne lievemente coperto da quello più aspro della rabbia. "Questa faccenda della mia verginità ti piace un po' troppo".
"E vorrei ben vedere", spalancai gli occhi, ovvio.
Incrociò le labbra e tornò a voltarsi verso il finestrino. "Per quanto tu ne possa sapere potrei essere stata con qualcuno".
"Piccola, fidati, se fosse così lo saprei", mi toccai la punta del naso e vidi che con la coda dell'occhio non si era lasciata sfuggire il mio gesto.
"Beh, magari il tuo fiuto potrebbe essersi sbagliato".
Ma perché doveva per forza farmi incazzare?
"Fossi in te prenderei per buono quello che mi suggerisce il fiuto. Perché credimi, ho altri mezzi per scoprire se sei vergine e potrei utilizzarli tutti".
"E' un'altra minaccia?".
Sorrisi sornione, guardando la strada e perdendomi purtroppo la sua espressione. "Sì. Perciò fossi in te in futuro eviterei di instillarmi il dubbio su un argomento così delicato come la tua verginità. Ti ho già detto che è un argomento su cui non amo scherzare".
Mi voltai finalmente a guardarla e la trovai intenta a rovistare nella sua borsetta. Ne estrasse il cellulare e controllò nella casella dei messaggi. Ce ne erano cinque di sua madre e altrettanti di suo padre. Sbirciò verso di me e vedendo che la stavo tenendo d'occhio evitò di aprirli.
"Saranno spaventatissimi", commentò, mettendo via il cellulare. "Mia madre sarà già tornata dal negozio e si sarà accorta della nostra assenza. E gli altri?".
"Gli altri chi?".
"Il team pubblicitario".
"Ci ha pensato Dimitri".
"E ai miei genitori chi ci penserà?".
"Sempre Dimitri".
"E' il tuo schiavo?", mi accusò.
"E' il mio Beta".
"E che sarebbe?".
"Il mio braccio destro. L'uomo più fidato che ho".
"E perché avrebbe scelto di diventarlo?".
"Non lo ha scelto. Se lo è guadagnato".
Scrollò la testa ma non fece altre domande e grazie a qualche Santo che non mi aveva ancora voltato le spalle, restò in silenzio per il resto del breve tragitto. Accostai il Pick Up lontano dall'edificio generale del villaggio, accanto ad una stradina facilmente percorribile e che conduceva sul retro di casa mia. L'ultima cosa che disideravo era attirare l'attenzione del branco su di lei prima che potessi sistemarla e spiegare la situazione durante la riunione che avrei indetto per la sera stessa.
Tolsi le chiavi dal quadro ma non sbloccai le sicure. Becky mi osservò in silenzio. La mano già avvinghiata alla maniglia della portiera, pronta a gettarsi fuori.
"Ci sono poche regole, ma le devi rispettare", dissi.
"Primo, non devi mai, e quando dico mai intendo proprio mai, allontanarti da me o da casa mia".
"Altrimenti?", sollevò il mento dispettosa.
"Non sto scherzando", la guardai serio.
"Nemmeno io".
"Per il branco non sarai la mia compagna. Perciò, almeno fino a stasera, sarai libera e senza la protezione di un maschio", spiegai sbrigativo, pregando che capisse dove stessi andando a parare.
Ovviamente non ci arrivò. "Non mi serve la protezione di un uomo".
Ma porca puttana! Possibile che dovesse essere così irritante? Possibile che dovesse polemizzare persino sulle leggi centenarie del branco?
La squadrai senza malizia, fermando lo sguardo contro il petto che si intravvedeva appena da sotto la maglietta castigata. Anche così era un richiamo irresistibile. "Credimi, ti serve".
"E' davvero arrogante il modo in cui vedi le donne. Mai sentito parlare di indipendenza e parità dei sessi?".
"Sì", sibilai.
"Perciò cosa ti fa credere che io dipenda da te? Non dipenderò mai da uno come te. Non dipenderò mai semplicemente da nessun uomo".
Sospirai. Dio che testarda! Gettai la schiena contro il sedile e sollevai il ginocchio, incastrandolo contro il volante. Quindi sbloccai le sicure.
"Vai! Esci", puntai la foresta con il mento. "Vai. Forza!".
Lei mi guardò ed esitante aprì la portiera, gettando un piede all'esterno e restando incerta mezza fuori e mezza dentro l'abitacolo. Si guardò attorno e quando fu abbastanza certa che non vi fosse nessuno nei paraggi uscì del tutto. Ruotò su se stessa e avanzò di un passo, cercando di orientarsi.
"Piccola?", la chiamai, abbassando il finestrino. Valutai attentamente alle parole che stavo per dire. Mi addolorava spaventarla ma una buona dose di terrore poteva garantirmi che non si sarebbe cacciata inutilmente nei guai. "Quando sarai stesa prona sulla terra con un maschio che ti monta da dietro, dovrò tenere per buona la cazzata dell'indipendenza o preferisci che intervenga?".
Becky sussultò e con circospezione ripercorse quel singolo passo che aveva fatto per allontanarsi, aggrappandosi allo sportello. Gli occhi non perdevano di vista la foresta. "Mi farebbero questo?".
"Questo è quello che ti farei io. Non so però se gli altri si limiterebbero a questo".
Imbarazzata si morse il labbro e deviò lo sguardo, ben consapevole di essere arrossita. "E tu mi avresti lasciata andare?", mi accusò.
Cosa diavolo...? Eccola che rigirava la frittata. Quando le risposi mi sorpresi della mia capacità di autocontrollo. "Io detto le regole. Tu decidi se infrangerle. E se non ricordo male ti ho detto di starmi appiccicata. Sbaglio?".
"No, non sbagli", si arrese. "Okay, ho capito. Ti starò vicino".
"Seconda e ultima regola. La più importante", continuai, scendendo dall'auto e facendo scattare le sicure.
Era un'abitudine che mi ero preso in pochi giorni trascorsi in città. Qui nella foresta era assolutamente assurdo temere che qualcuno potesse rubarmi il Pick Up. Primo perché ero l'Alpha, secondo perché un componente del branco non avrebbe mai rubato e terzo perché nessuno a parte me, Dimitri e mio padre aveva la più pallida idea di come si guidasse una macchina.
"Una regola più importante dell'altra?", polemizzò.
"Molto di più, dato che dalla prima regola dipendeva la tua verginità, da questa invece dipende la tua vita". Mi avvicinai e le sollevai il mento in modo che mi guardasse dritto negli occhi e capisse quanto fossi serio. "Non devi mai contraddirmi. Mai, Becky".
"Ti piacerebbe", sghignazzò.
Ora la uccidevo io, così forse risolvevamo il problema alla base!!!
"Becky, sono l'Alpha", strinsi più forte il suo mento in modo che non riuscisse a divincolarsi. "Qui non siamo nel tuo mondo né tra i tuoi simili. Se qualcuno contraddice l'Alpha o gli va contro in qualche modo... è morto. Se fossi la mia compagna di certo nessuno tenterebbe di ucciderti ma io sarei comunque costretto a darti una punizione esemplare e fare in modo che tutti vengano a sapere in che modo ho scelto di castigarti. Ma dato che non sei la mia compagna...".
Provò a scuotere la testa ma le mie dita glielo impedirono. "Le vostre leggi sono assurde".
"Non le ho scritte io". La lasciai andare e mi voltai verso casa mia. "Pensi che riuscirai a raggiungere quella casa senza scatenare una guerra?".
Mi sorrise di sbieco, furba e cattiva. "Chissà. Magari in una guerra potresti venire mortalmente ferito".
"Fila!", mi spazientii, indicandole la casa con un gesto e colpendola con uno schiaffetto alla natica per farla sbrigare.
"Ti ho già detto di non toccarmi", ringhiò, balzando di lato.
"Cammina", la sorpassai.
"E' assurdo!", brontolò, seguendomi. "Mi ha appena rapita ed io lo sto pure seguendo. In tutti i rapimenti del mondo l'ostaggio viene legato e imbavagliato mentre io che faccio? Seguo il mio rapitore come un cagnolino. Ci manca solo che mi metta a canticchiare trallallà e a raccogliere margherite".
"Non crescono margherite quassù". Aprii la porta sul retro, sbirciai all'interno per vedere dove fosse mio padre, gli feci un cenno per fargli capire di non essere solo e tornai a voltarmi verso di lei. Incrociai le braccia. "Qual era la regola numero due?".
"Non contraddirti", cantilenò.
"Ripetila".
"Oh maddai...".
A costo di fargliela recitare ogni sera come un rosario, dovevo avere la certezza che non avrebbe mai tentato di polemizzare una mia decisione davanti agli altri del branco. Con i miei genitori ero relativamente tranquillo, dato che erano stati informati che la mia compagna apparteneva alla razza umana, e sapevo che avrebbero mostrato una tolleranza che non potevo pretendere dagli altri. Inoltre mi avevano fiutato addosso l'odore dell'imprinting, perciò non avrebbero avuto alcun motivo di dubitare che Becky appartenesse a me, suggerendomi direttamente o indirettamente di ucciderla appena avesse infranto qualche regola. E lo avrebbe fatto. Ah, ne ero certo. Anche solo per il gusto di farmi un dispetto.
"Ripetila", insistetti.
"Non contraddirti", scandì lentamente.
Presi un lungo respiro e la osservai a lungo prima di mettermi di lato e farle un gesto per invitarla ad entrare.
"Chi c'è lì dentro?", esitò.
"I miei genitori".
L'esitazione scomparve e in fretta e furia si fiondò all'interno, sbattendo gli occhi per abituarli alla penombra. Si guardò attorno e appena scorse mia madre ai fornelli le corse incontro, gettandosi tra le sua braccia. Cosa cazzo...?
"Signora la prego, mi aiuti. Sono stata rapita", urlò.
La mamma spalancò la bocca e mi fissò da sopra la spalla di Becky, incerta se consolarla o respingerla. Di certo era interdetta... e non per il rapimento. "Deniel?", mi fissò interrogativa. "E' questa la tua compagna?".
"Sì", scrollai la testa e mi lasciai cadere esausto sulla sedia accanto a quella di mio padre. "Non le entra in testa la regola numero due".
"Decisamente", commentò severo mio padre, squadrandola da capo a piedi senza che lei ovviamente se ne accorgesse. Teneva la fronte appiccicata alla spalla di mia madre, inconsapevole di non avere diritto alcuno di poter entrare in un contatto simile con la compagna dell'ex Alpha. Nessuno poteva toccare le nostre femmine. Per quelle dei Beta e degli altri componenti del branco vigeva una regola diversa, ma quelle degli Alpha erano intoccabili. Una questione di sicurezza, presumevo. Poco importava. La legge era quella. E Becky l'aveva infranta in quanto? Tre secondi? Cinque?
"Potresti dire alla tua compagna di togliere le mani di dosso a tua madre?", ringhiò profondo, senza staccare gli occhi da loro due. "Sarò tollerante fino ad un certo punto".
Allungai il braccio sopra il tavolo e colpii la superficie in legno con la mano ben aperta, provocando un rumore secco che catturò l'attenzione della mia piccola umana. Nonostante la situazione paradossale era bello vederla in piedi nella casa in cui ero cresciuto, circondata dalla mia famiglia.
Becky si guardò attorno, le guance rigate da lacrime liberatorie e fermò lo sguardo su mio padre. Scattò in avanti verso di lui ed entrambi capimmo le sue intenzioni nel medesimo istante.
Scattammo in piedi e istintivamente mi piazzai davanti a mio padre, facendogli da scudo col mio corpo.
"Aspetta! Ferma, ferma, ferma", dissi veloce, allungando le braccia in avanti per bloccarla qualora si fosse avvicinata troppo.
Nella cucina riecheggiò il ringhio basso di mia madre. A quanto pare aveva capito anche lei che Becky stava per gettarsi tra le braccia del suo compagno. La fissai cauto e scoprii i denti, sebbene i canini non fossero allungati.
"Stai calma, mamma", parlai piano. "Se è troppo, voltati. Non guardare. Ma ti garantisco che Becky non lo toccherà".
Becky si immobilizzò sul posto, guardando prima me e poi voltandosi sorpresa verso mia madre. La confusione era evidente sul suo volto. Non poteva capire perché d'improvviso l'aria in cucina si fosse congelata né poteva sospettare del perché, un gesto per lei completamente naturale, ci avesse fatto scattare sugli attenti. Non poteva sapere ovviamente che se fosse riuscita a toccare mio padre, mia madre l'avrebbe attaccata. La gelosia umana, da quel che avevo potuto vedere, era molto diversa da quella che provavamo noi.
"Non puoi toccare mio padre a meno che non sia io a dirtelo o mia madre a concedertelo", le spiegai, rilassando i muscoli quando mi resi conto che non aveva più intenzione di cercare l'aiuto da mio padre.
Il suo sguardo mi sfidò. "E questa che regola sarebbe? La numero tremilaottocento?".
"La numero tre. E te l'avrei detta se non avessi infranto la regola numero uno e non mi avessi dimostrato di non aver recepito la numero due".
Strizzò le palpebre e rispalancò gli occhioni da cerbiatta braccata verso mia madre. "Scusami", disse, sorprendendomi.
La mamma si rilassò, posando i fianchi contro il mobile della cucina. "Ti perdono. D'altronde sei un'umana. Non posso pretendere che tu impari le nostre regole in cinque minuti".
"Le vostre regole prevedono una condanna per rapimento?", ribatté piccata. "Perché forse vi sta sfuggendo l'ovvio. E cioè che sono qui perché costretta. Vostro figlio mi ha rapita e queste foreste saranno battute metro per metro dalla polizia. Centimetro per centimetro".
"Ma fa sempre così questa?", mi chiese papà, indicando Becky col pollice.
"Papà", sibilai in tono di rimprovero.
"Sono un ostaggio", rimarcò Becky, allargando le braccia. "Un.ostag.gio", sillabò quando sia mia madre che mio padre la fissarono con un sopracciglio sollevato.
"La terrai qui?", mio padre si rivolse nuovamente a me.
"E' il posto più sicuro".
La mia risposta lo fece sollevare gli occhi verso mia madre. "Amore, ricordami per favore perché non abbiamo costruito uno scantinato", bofonchiò, già stanco evidentemente di sentire le lamentele di Becky. Dio, come lo capivo!
"Piccola?", la chiamai, fulminando nel medesimo tempo sia mia madre che mio padre. Forse avrei potuto ottenere tolleranza da parte loro, ma di certo non potevo sperare che avrebbero finto di accettare di buon grado la presenza di Becky nella loro casa. Tra l'altro, non essendo ancora ufficialmente la mia compagna, non ero nemmeno tenuto a dividere né il tetto né il letto con lei. Andava contro alle nostre leggi. Ma ero certo che comunque, in questo determinato caso, i miei genitori avrebbero chiuso un occhio. Okay, meglio tutte e due gli occhi.
"Da quando in qua un rapitore chiama "piccola" il proprio ostaggio?", soffiò come una gatta.
Contai mentalmente fino a tre, evitando di incrociare lo sguardo allucinato di mio padre. Me lo sentivo addosso. Bruciava quasi più della rabbia che l'atteggiamento di Becky riusciva a risvegliarmi dentro. Dovevo darle atto, in ogni caso, che aveva coraggio da vendere a comportarsi in quel modo. Sembrava non essere pienamente consapevole di essere l'unica umana presente in una stanza piena di licantropi. Si comportava come se il mondo fosse ai suoi piedi, come se io fossi ai suoi piedi. Il ché un po' era anche vero.
"Eddai, sai bene che questo non è un vero rapimento. Ti ho portata qui per proteggerti. Tenerti a casa tua non era più possibile. Avrei ritardato il momento se non fosse per quel pacco che hai ricevuto".
"Quindi posso andarmene quando voglio?".
"No".
Sollevò un sopracciglio. "Posso uscire da questa casa e gironzolare qua attorno?".
"No".
Sollevò anche l'altro sopracciglio. "Posso usare il mio telefono?".
Sospirai. "No".
"Esattamente, c'è qualcosa che posso fare?".
Lasciai vagare lo sguardo per la stanza, pensando veloce. "Puoi stare qui. E in giardino ovviamente. Mia madre ti terrà compagnia quando io non ci sarò".
"Deniel!", sbottò. "Questo a casa mia è un rapimento".
Arricciai il naso. Non aveva tutti i torti. Feci per commettere il madornale errore di darle ragione ma grazie al cielo mio padre mi batté sul tempo, parlandomi sopra: "Questi tre no te li sei cercata tu".
"Prego?", lo fissò scontrosa. Di certo, se sulle prime aveva visto degli alleati nei miei genitori, ora si era ricreduta completamente. Non aveva più alcuna ragione quindi di essere gentile con loro, e nemmeno si sforzava.
"Immagino che mio figlio ti abbia spiegato i motivo che ha spinto quei licantropi a darti la caccia".
"Forse lo ha fatto. E forse mentre lo faceva non lo stavo ascoltando di striscio. E' già difficile capire una mente umana, figuriamoci se posso essere in grado di capire quella contorta e malata di un licantropo".
Mio padre aprì la bocca per ribattere ma si fermò, osservandomi di striscio. "Hai intenzione di punirla subito o posso portare a termine la discussione?".
Mi passai le mani tra i capelli e chiusi gli occhi, respirando a fondo. "Vai avanti, ti prego... Vai avanti".
"Se ti fossi lasciata possedere da mio figlio quei sei lupi non ti avrebbero reclamata e a quest'ora saresti qui, al sicuro, libera di gironzolare dove più ti aggrada e col cellulare appiccicato all'orecchio".
"Ah!", sollevò il mento, scura in volto. "Quindi a suo avviso, non solo dovrei ringraziare Deniel per avermi rapita, ma dovrei persino darmi dell'idiota perché non gli ho concesso di violentarmi per poter fare, in cambio, una telefonata? Ma lei è impazzito o cosa?".
"Becky", la riprendo in tono accusatorio. "Ora basta".
"Basta un corno!". Mi puntò un dito contro. "Perché mi hai portata qui?".
"Mi stai prendendo in giro?"
"Ti è per caso saltato in testa che forse io non voglio la tua stupida, arrogante, spocchiosa e assolutista protezione? Hai speso solo un secondo per pensare cosa volessi io?". In preda all'ira cominciò a gesticolare, voltandomi le spalle per allontanarsi da me. "Oh no! Certo che no! Tu sei l'Alpha, la reincarnazione di un Dio. Ciò che vuoi tu è quello che devono volere anche tutti gli altri!". Ruotò su se stessa e tornò marciando sui propri passi, fermandosi di fronte a me. "Quello che pensi tu lo devono per legge pensare anche gli altri, non è così? E ti credi un leader per questo? Un leader non ha bisogno di una dittatura per farsi seguire dagli altri". Si sollevò sulle punte dei piedi e lasciò scontrare i suoi occhi contro i miei, mostrandomi un coraggio che, dovevo ammetterlo, era ammirevole. "Apri gli occhi Deniel Farrow. Tu non sei un leader. Non sei un Dio. Non sei nessuno... non sei nemmeno un uomo", sputò sdegnata l'ultima frase.
Stravolto dalle sue parole la fissai immobile mentre riprendeva la sua marcia verso la porta.
Mio padre mi diede due colpetti comprensivi sulla spalla. "Vi lascio alle vostre cose", disse, poi fece un cenno del capo verso mia madre per invitarla a seguirlo nell'altra stanza.
Nel frattempo Becky spalancò la porta e si bloccò, inviandomi un'occhiata da sopra la propria spalla. "Io ora me ne vado. E giuro che se provi a seguirmi dirò al mondo intero di voi. Dirò a tutti dove si trova il tuo villaggio e verrete spazzati via".
Ruotai gli occhi mentalmente chiedendomi davvero come potesse credere che una cosa del genere potesse sul serio mai accadere. Quindi la seguii a ruota. Stavo cominciando seriamente a rompermi i coglioni di doverla rincorrere ogni due secondi.
"Sai che non posso lasciarti andare", mi piazzai davanti a lei.
La vidi sussultare e sbattere gli occhi, incredula di ritrovarsi di fronte a me. L'avevo oltrepassata a tutta velocità e i suoi occhi non erano riusciti a registrare i miei movimenti.
"Vattene!", mi sbraitò contro, provando a girarmi attorno.
"Becky, fermati. Non voglio doverti riprendere di peso".
"Io non starò nella tua dannata casa!", strillò, lasciando che altre lacrime di nervosismo le inondassero le guance. Mi spintonò ancora e la lasciai fare. "E non voglio essere la tua compagna. Quindi non sentirti più in diritto o dovere di dovermi qualcosa. Compreso la tua protezione".
"Non ti ho portata qua per farti mia".
Di nuovo mi spintonò. "Ed hai fatto bene perché non lo sarò mai!".
Nonostante tutto mi lasciai sfuggire un mezzo sorriso. La sua innocenza la rendeva ingenua a tal punto da non permetterle di accorgersi di essere già mia. Poteva rifiutarmi, fingere di non provare nulla, riversare nell'odio ogni sua più piccola sensazione per non dover ammettere con se stessa di appartenermi. E se non fosse stato per il suo profumo traditore, prettamente legato ad ogni sua più piccola emozione, nemmeno io sarei riuscito ad accorgermi che una parte di lei, ancora piccola e insignificante, si era legata a me.
"Mai!", le feci il verso.
"No!", spintonò furiosa. "Mai!". Un altro spintone. "Ficcatelo in testa Deniel Farrow! Mai". Spintone. "Mai". Spintone. "Mai". Spintone.
Al ventesimo spintone mi girarono davvero le palle e le bloccai i polsi, attirandola a me, petto contro petto. "Ora basta!".
La sua bocca si avvicinò pericolosamente alla mia e i nostri respiri si mescolarono, nello stesso identico modo in cui i battiti dei nostri cuori si unirono in un unico battito.
Vidi i suoi occhi abbassarsi contro le mie labbra, tradendo per l'ennesima volta ciò che provava per me. Fu solo un attimo e, guerrieri, tornarono a cercare i miei.
Ed io mi ci persi. Come un disperato mi persi in quelle iridi scure bagnate di lacrime e portatrici di disgrazie. La rabbia le aveva rese leggermente più scure ma da vicino potevo ancora scorgere alcune pagliuzze più chiare, dello stesso colore del grano al tramonto. Erano talmente belle che per un attimo dimenticai ogni cosa, persino che aveva minacciato la mia intera stirpe.
Me ne sarei dovuto occupare più tardi, questo ero poco ma sicuro. Avrei dovuto risollevare la questione e questo ci avrebbe senza dubbio riportati verso l'ennesima litigata epica. Era così con lei! Non ci si poteva discutere. In un nano secondo passava dall'essere l'esserino più indifeso e timido su cui avessi mai posato gli occhi all'essere la femmina più irritante, scontrosa e testarda che la pazienza di un maschio avesse mai dovuto sopportare. Nessuna donna era mai riuscita a farmi girare i coglioni come riusciva a fare lei. E Dio se ci riusciva!
"Hai ragione", dissi. "Non mi importa quello che vuoi. Non in questo momento. Mi importa solo della tua sicurezza. E se per tenerti al sicuro devo rapirti, farmi odiare da te e trasformarti nella donna più irritante della faccia della terra, allora lo faccio. Punto. Credi che a me faccia piacere essere rifiutato da te? Credi mi faccia piacere doverti rapire per tenerti accanto a me?".
"Scegliti un'altra compagna e risolvi tutto", minimizzò.
"Perdio non posso!", persi le staffe. Ma porca la puttana! Ora, va bene che non poteva conoscere le leggi del branco né ciò che provavamo quando avevamo l'imprinting, va bene che avesse tutte le ragioni per essere arrabbiata con me, va bene che non ero riuscito a corteggiarla come erano abituati a fare gli umani, ma qui si stava esagerando! Come glielo dovevo far capire che non potevo vivere senza di lei? Dovevo marchiarglielo a morsi sulla pelle? "Vuoi capirla una volta per tutte che ogni parte dentro di me e fuori di me ti ha scelto? Forse tu potrai far finta di niente, ma io non posso nemmeno respirare se tu non mi sei accanto".
Mi raddrizzai con la schiena e misi qualche centimetro di tra di noi, quel poco che bastava per togliermi di dosso il suo respiro. Quindi le lasciai i polsi, sorprendendomi immediatamente quando non fece nulla per scappare.
"Torni dentro per favore? Possibilmente di tua spontanea volontà", le indicai la porta sul retro.
Ma lei non si mosse.
"Per cortesia, piccola. Non farmi recitare la parte del cattivo".
"Davvero?", mormorò, guardandosi la punta delle scarpe.
Ed ora che le prendeva? "Davvero cosa?".
"Davvero non riesci nemmeno a respirare?".
"No, Becky", sospirai. Forse era poco virile mostrarmi così dipendente da lei, ma tenerglielo nascosto era assurdo. Anche perché avevamo davanti parecchi giorni da trascorrere insieme e prima o poi se ne sarebbe accorta da sola.
"E' così per tutti quelli che hanno l'imprinting?". Si guardava ancora le scarpe.
"Per gli Alpha è doppiamente forte. Senza la nostra compagna non abbiamo diritto di esistere. Né il desiderio di farlo".
"Non lo immaginavo".
"Sono tante le cose che non sai su di noi". Sollevai lo sguardo verso la foresta e intravidi due leve del branco. "Vieni dentro per favore. Il tuo odore è troppo forte e non ho voglia di dover uccidere qualche mio fratello".
Fece un passo avanti e subito dopo un altro, fermandosi al mio fianco. Inaspettatamente la sua mano entrò in contatto con la mia e le dita cercarono di incastrarsi tra le mie. Capii cosa volesse fare e ritrassi immediatamente la mano, spezzando il contatto.
"No, Becky. Non così. Mi darai la tua mano quando sarai pronta e non perché ti senti in colpa nei miei confronti".
Annuii imbarazzata e in silenzio mi seguì dentro casa.
"Ora posso presentarti ai miei genitori?", chiesi. "Ti comporterai bene?".
"Sì", mugugnò.
"Becky", le presi il volto tra le mani. "Avermi seguita qui in casa non è una resa".
"Ah no", ribatté sarcastica.
"Ancora non hai capito che tra noi noi, a vincere sarai sempre tu?".
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