Deniel - Il suo odore su di me (parte 2)
Di nuovo mi ero comportato con lei troppo bruscamente, vanificando tutti i progressi fatti fino ad ora per avvicinarla a me.
C'era stato un momento, in questa cucina, in cui lei era riuscita persino a sorridermi, comportandosi in modo quasi naturale, senza essere sulla difensiva.
Ma poi...
Quell'odore di fragole! L'odore dell'eccitazione, talmente afrodisiaco da farmi perdere il controllo sulla ragione. Per interminabili attimi ero rimasto in balìa degli istinti e la sua sicurezza era passata in secondo piano. Non mi era importato più preoccuparmi se potesse essere spaventata di me, di come avrebbe reagito di fronte ai miei occhi rossi o alle zanne.
Mi ero quasi trasformato, incurante di sconvolgerla e, peggio di ogni cosa, infischiandomene che stavo mettendola in pericolo. Dall'egoista che ero avevo smesso di proteggerla da me, guardandola come una preda, analizzando tutti i modi possibili per farla mia e possibilmente alla svelta.
Sentii il suo sguardo su di me e la fissai a mia volta. Era terrorizzata, quasi livida.
Ed era tutta colpa mia.
Mia madre aveva ragione, realizzai con angoscia. Ci sarebbe stato davvero un momento in cui anche io, esattamente come gli altri licantropi, avrei ferito la mia compagna.
Questa consapevolezza fu peggio di un pugno allo stomaco, più dolorosa ancora di quando Becky, additandomi come uno stupratore, aveva tradotto in parole la bassa stima che provava nei miei confronti.
Cercai di scacciare il pensiero ma era come rimuovere granito dall'interno del cranio. Se ne stava lì, a tormentarmi, a ricordarmi che ero la cosa più simile alla bestia e l'essere che più si allontanava dall'idea romantica che la mia femmina aveva dell'amore.
Fu questa consapevolezza -talmente terrorizzante da somigliare ad una tortura infida- a farmi prendere su due piedi una decisione che altrimenti non sarei mai stato in grado di prendere: avrei tradito il mio branco. Per lei. Avrei condotto tutti loro alla morte pur di salvare lei.
Non mi importava più di essere l'Alpha, non mi importava nemmeno cosa avrebbe pensato di me mio padre. Perché di una cosa ero certo; non l'avrei costretta a donarmi la sua verginità entro il mio trentesimo compleanno. Non l'avrei mai costretta a fare nulla per salvaguardare me o i miei fratelli.
Avrei fatto invece ogni cosa per proteggerla da me stesso, anche trascinarmi a testa alta verso la morte. La sua vita veniva prima di ogni altra cosa e la sua verginità era talmente sacra che avrei potuto strappargliela via solo se a rischiare la vita non fosse stata lei.
Non mi sarei mai pentito di possederla se questo avrebbe significato distogliere l'attenzione su di lei di quei sei lupi. Sarei arrivato persino a legarla al letto per lasciarle addosso il mio odore. Finché ero io e il mio branco a rischiare la morte era una cosa, ma se era lei a rischiare... beh, questo era tutto un altro paio di maniche.
"Io chiamo la polizia", avvertì, restando però seduta sulla sedia.
Pensai che forse non era in grado di reggersi sulle gambe per le troppe emozioni e cercai di andarle incontro. "Se mi dici dove hai il cellulare te lo porto".
"Non lo ho più il cellulare". Lacrime rabbiose traballarono contro le sue ciglia. "Dimitri me lo ha lanciato dall'auto".
Ispirai lentamente, per calmarmi, senza badare troppo al suo profumo che inevitabilmente, come al solito, mi graffiò la gola come lame arrugginite dal tempo. Eppure, la certezza che ero stato sul punto di aggredirla e marchiarla per soddisfare un mio capriccio, riuscì per la prima volta ad attenuare la devastante presa che il suo odore aveva su di me. Era ancora intenso, tentatore come non mai, ma qualcosa dentro di me cominciò ad esserne assuefatta, rendendo meno difficile respirarle accanto.
E comunque, Dimitri, questa me l'avrebbe pagata! Lo credo che Becky era terrorizzata se questa era stata la condotta che aveva tenuto con lei. D'altro canto, sapevo anche quanto fosse snervante avere a che fare con la lingua tagliente di questa ragazzina. E se mi spazientivo io che avevo avuto l'imprinting con lei, figuriamoci Dimitri!
"Te ne comprerò uno nuovo, promesso".
Annuì, ancora col broncio. Dio quanto era piccola!
"Perché mi lasci chiamare la polizia?", chiese in un soffio.
Corrugai la fronte. Alle volte non la capivo. Si sorprendeva delle cose più strane. Possibile che non si rendesse conto che ero qui per lei e solo per lei? Che avrei fatto di tutto per tenerla al sicuro, compreso restare il restante della mia vita nelle prigioni di Stato?
"Perché non dovrei lasciartelo fare?".
"Non ha paura di quello che dirò alla polizia?".
"Più che altro sono curioso di sentire di cosa mi accuserai".
"Dirò che è entrato di forza in casa mia per minacciarmi". Mi incatenò con quello che doveva essere il suo sguardo più duro. A me sembrava quasi una carezza. "Ti becchi almeno cinque anni".
"Non ho tanto tempo a disposizione", sorrisi amaro. "Tieni! Ti presto il mio telefono. Puoi chiamarli con questo... non ti addebiterò la chiamata".
La sua piccola mano lo afferrò, stando attenta a non sfiorarmi le dita nemmeno per sbaglio e lentamente digitò il 911. Col pollice fece per pigiare sul tasto di avvio della chiamata ma si bloccò.
"Cosa devo dirgli?".
"Becky", ridacchiai, accarezzandole fugace una guancia e togliendo le dita prima che lei potesse sottrarsi. "Sei andata in confusione. Vorrei che provassi a calmarti ora".
"E' lei che mi manda in confusione. Un secondo mi minaccia, il secondo dopo si comporta come il più dolce degli uomini. Ed io non sono in confusione".
Le sfilai delicatamente il cellulare dalle mani e lo riposi nella tasca posteriore dei jeans. "Hai appena chiesto al tuo "aggressore", mimai con le dita, "di suggerirti in che modo denunciarlo alla polizia. Inoltre passi a darmi del tu o del lei nell'arco di mezza frase. Fidati di me una volta tanto. Sei entrata in confusione".
Il rumore di chiavi infilate nella toppa ci fece voltare contemporaneamente verso i corridoio che dava sull'ingresso.
Corrugai la fronte e col pollice indicai il portoncino. "Tua madre?".
Gli occhi di Becky restarono spalancati verso il corridoio mentre muoveva la testa lentamente su e giù.
"Sai che prima o poi dovrò informarla che sei mia", parlai in fretta.
Sentimmo la porta aprirsi e chiudersi subito dopo in un tonfo lieve che su Becky ebbe l'effetto di un'esplosione. Balzò dalla sedia e si asciugò in fretta e furia il naso.
"Non le dirai nulla", bisbigliò concitata. "Nulla".
"Non vorrei rigirare il coltello nella piaga ma non eri tu che volevi raccontarle tutto?".
I passi della madre si stavano avvicinando, li avvertii prima ancora di Becky e diedi una rapida occhiata all'appartamento. Era molto piccolo e con un arredamento minimalista, difficile trovare un punto in cui nascondermi.
"Qual è la tua camera?", mi informai, osservando le tre porte chiuse che si affacciavano sul salotto.
Mi fissò spaventata. "E' quella più vicina al corridoio".
Scrollai la testa, scartando subito la possibilità di potervi entrare senza essere visto. Quindi arraffai un foglio che era stato abbandonato sulla credenza accanto ad un barattolo di vetro convertito in porta penne. Ne estrassi una e la sbattei al centro del tavolo, quindi presi Becky per le spalle e la spinsi velocemente contro la sedia.
"Siediti e lascia parlare a me", ordinai sforzandomi di apparire rassicurante.
"Cosa devo fare?", si agitò.
"Per una volta nella vita potresti stare zitta e lasciar fare a me. Ti fidi?".
"No", rispose d'istinto.
Ruotai gli occhi e le agguantai la mano, guidandola verso la penna. Gliela sistemai tra le dita e raddrizzai il foglio immacolato in modo da piazzarglielo sotto al naso. "Io detto. Tu scrivi. E possibilmente in silenzio".
"Signor Far...".
"Becky?", la voce di sua madre arrivò vicina. Intuii pur senza voltarmi che era a pochi passi dalla cucina.
"Siamo qui", risposi, quando mi resi conto che Becky si stava torturando il labbro, incapace di spiaccicare una singola sillaba.
Sentendo la mia voce maschile, i passi di sua madre risuonarono più veloci. "Signor Farrow?".
"Salve signora", salutai cordiale, scrollando una spalla a Becky. "Saluta tua madre", suggerii in un bisbiglio.
"Ciao mamma", pronunciò come un'automa.
"Ma... state ancora lavorando?". Gli occhi della signora registrarono il foglio al centro del tavolo, le dita di Becky strette attorno alla penna, la mia mano posata accanto a quella della mia piccola e aperta sul foglio come a volerle indicare qualcosa. "Santo cielo! Sarete stanchissimi".
"Un po'", blaterò Becky, avendo la pessima idea di guardare la madre dritta in faccia.
"Guarda che occhi stanchi, sono persino gonfi". Quindi si voltò verso di me, la fronte leggermente corrugata. "Non vi conviene terminare domani mattina, a mente fresca?".
"Ci sono delle scadenze, signora. Di solito evito gli straordinari ai miei dipendenti ma non sempre è possibile. Spero non le dispiaccia se abbiamo sfruttato la sua cucina come ufficio. Non volevo che Becky restasse fuori casa fino a tardi anche stasera".
"Si figuri, anzi, è stato molto gentile a permetterle di lavorare da casa. Non mi piace saperla in giro di notte".
"Nemmeno a me", mi lasciai sfuggire, guadagnandomi un'occhiata stranita da parte della signora. Cercai di correre ai ripari. "Ad ogni modo stavamo per terminare, non resterò ancora a lungo".
La signora si tolse il grosso bracciale dal polso e lo sistemò accanto al frigorifero. "Lasci che le offra almeno qualcosa".
"Abbiamo cenato. A proposito, l'insalata di patate era squisita".
Arrossì lusingata. "Se sapevo che sarebbe passato le avrei fatto trovare una cena più appropriata".
"Sono certo che avrà modo di farmi assaggiare i suoi piatti più forti".
"Già", esclamò, ricordando di colpo qualcosa. "Mio marito l'aveva invitata a cena. Se mi dice quando le fa comodo possiamo organizzarci".
"A patto che lei non mi vizi", ammiccai seducente. "Rischierebbe di ritrovarmi qui tutte le sere".
Con un risolino aprì l'anta del frigo e vi rovistò all'interno, così ne approfittai per sbirciare verso Becky. Teneva ancora gli occhi appiccicati al foglio, talmente rigida che ogni muscolo le si era congelato in una postura innaturale. La scrollai lievemente, fulminandola con un rapido sguardo per incitarla a riprendersi.
"Gradisce della limonata?". I capelli ondulati e castani della signora si mossero oltre l'anta del frigo e mezzo volto fece capolino alla ricerca di un consenso da parte mia.
"Volentieri", accettai. Il braccio di Becky ebbe un fremito, lasciandomi intuire che la mia risposta non le fosse piaciuta.
"Lei vive da solo, signor Farrow?". Sistemò tre bicchieri su un vassoio e travasò della limonata in una caraffa.
"Non sempre. Quando sono in città divido la villa con Dimitri".
"La villa?", chiese, mostrando un certo stupore.
"La villa", confermai. Mi chiedevo in che acque navigassero e ricordai che Dimitri mi aveva accennato qualcosa sui loro debiti. "Quando invece sono fuori per lavoro dormo più che altro in hotel ma ho una casa sul monte Eagle e spesso mi fermo lì, dai miei genitori".
"Vi sono case sul monte Eagle? Non è una zona interdetta?".
"Non per i residenti".
"Non credevo ce ne fossero".
"Malloj non ve lo ha mai detto?", mi finsi sorpreso. "Non siamo in molti, in ogni caso. Siamo una piccola comunità di montagna, alle volte non arriva nemmeno la corrente elettrica".
"Sono tanti anni che vivo qua ma questa proprio non l'avevo mai sentita. Girano così tante voci su quei monti".
Mi feci attento. "Che voci?".
Si sedette di fronte a noi e mi passò un bicchiere. "Sono solo dicerie, inventate probabilmente per scoraggiare i turisti che cercano di raggirare i divieti".
Ma io non demorsi. Dovevo capire se tra gli umani stessero cominciando a nascere dei sospetti. "Me le racconti".
"Bhe...", sorrise, sorseggiando un goccio di limonata e sbirciandomi ironica oltre l'orlo del bicchiere. "Quella che parla di lupi mannari l'avrà sentita di sicuro anche lei".
Becky tossì un paio di volte e la penna le scivolò dalle mani. La studiai per captarne i pensieri ma era chiusa in se stessa, talmente pallida che per un momento temetti di vederla svenire.
"Perché non vai a sdraiarti? Sei stanca. Finisco io qua... tua madre mi farà compagnia".
"No", protestò, facendo scattare gli occhi preoccupati verso sua madre.
"Vai, Becky", insistette la signora. "Ti stai praticamente addormentando sopra il tavolo. Farò io gli onori di casa col Signor Farrow".
Gli occhi di Becky restarono sgranati e puntati contro la madre. "No... no...".
"Posso chiederle un favore, signora?", attaccai zelante, cercando di deviare l'attenzione della donna su di me prima che si rendesse conto che la figlia non era stanca, bensì terrorizzata. "Dato che non c'è verso di farglielo fare a sua figlia, almeno lei, la prego, mi chiami Deniel. Tutta questa formalità mi sta mettendo a disagio".
"Chiamare per nome il famoso Farrow?", civettò, posando una mano al centro del petto e dondolando sulla sedia.
"Signora, così mi adula", risi, afferrando Becky da sotto le ascelle per sollevarla delicatamente. Era talmente rigida che le dita della mano erano rimaste intorpidite, come se stessero ancora reggendo la penna. "Vai in camera tuo, subito", le sibilai all'orecchio, serio, quindi impostai le labbra nel più falso dei sorrisi e tornai alla madre. "Sono solo un fotografo che è riuscito a trasformare la propria passione in lavoro".
"Signor Farrow", la vocina di Becky risuonò leggera, come il battito d'ali di una farfalla.
"Fidati una buona volta", ringhiai nervoso al suo orecchio, quindi la feci voltare verso il corridoio e prima che potesse dire qualcosa aggiunsi svelto, a voce alta: "Ci vediamo domani in ufficio. Io o Dimitri ti passeremo a prendere dato che siamo di strada... Non le dispiace, vero, signora?".
"No, certo che no. Solo, non vorrei fosse un disturbo".
"Ma le pare!".
Becky mosse un passo, instabile, e mi tenni pronto ad intervenire nell'eventualità avesse vacillato. La seguii con lo sguardo finché aprì la porta della sua camera e mi rimisi disinvoltamente seduto.
"Sono dicerie azzardate, non crede?", ripresi il discorso.
"Quelle sui lupi mannari?", cercò anche lei di ricollegarsi all'argomento.
Annuii e rubai un goccio di limonata.
"Sai Deniel, a dire il vero in questa casa non siamo propensi a credere a certe fantasie. Tuttavia sono dell'idea che ogni leggenda faccia parte del patrimonio culturale di un popolo e che proprio per questo abbia una base di verità su cui poi viene ricamata un'intera narrazione fantastica. Non mi fraintenda, non sto dicendo che credo nell'esistenza dei lupi mannari", si affrettò a specificare, temendo probabilmente di passare per credulona. "Ma se qualcuno, per decenni, ha fatto sì che una tale leggenda venisse tramandata, significa che in quei boschi vivono degli animali poco noti e che, nell'immaginario comune, possono somigliare alle creature fantastiche che siamo abituati a vedere alla televisione. In ogni caso nessuno può mettere piede in quei posti, quindi è difficile capire di che razza di animali si tratta. Lei però ci vive, o almeno, ci vive la sua famiglia. Chissà? Magari è stato qualche suo antenato a diffondere tali dicerie. Ma parliamo di tanto tempo fa e tu sei talmente giovane...".
Vidi uno spiraglio in questa confessione e mi ci buttai: "Mio nonno me ne parlava".
"Davvero?", si illuminò di curiosità.
"A quanto sembra quegli animali fino a qualche decennio fa erano divisi in diversi branchi che si contendevano le terre del Minnesota. Vinse un solo branco ovviamente, e da quel momento scacciò tutti gli altri lupi da queste terre, rivendicandone per diritto la territorialità", sorrisi di sbieco per dimostrare la mia scarsa fiducia in questo racconto. Non volevo rischiare di spaventarla come era già successo con Becky. "Vissero in armonia, senza scontri, governando la propria esistenza attraverso ferree regole e rigide leggi che impedivano loro di mescolarsi con gli umani. Fu solo quando il turismo crebbe, prendendo d'assalto le montagne, che le cose cominciarono ad andare male".
"Gli uomini stavano invadendo i loro spazi", ragionò, annuendo piano tra sé e sé. Per un attimo sembrò quasi stesse credendo davvero alla leggenda.
"Esattamente! I territori diventarono sempre più ristretti e appena sufficienti per permettere loro di cacciare. Con l'industrializzazione poi, i confini delle città si ampliarono, togliendo posto alle foreste ormai arse e disboscate. Molti branchi dovettero spostarsi a nord, verso L'Alaska, ma quelli che decisero di restare iniziarono a minacciare gli altri branchi per guadagnare terreno e spazio, mettendo fine alla tregua iniziata decenni prima".
Feci una pausa, valutando in che modo stesse reagendo alle mie parole. Trovandola impaziente proseguii.
"Ovviamente, la mancanza di spazio costrinse sempre più lupi ad avvicinarsi alle città, a caccia di cibo".
"E di cosa si nutrono?".
Scrollai le spalle, fingendo di non saperlo con esattezza. "Carne perlopiù. Dalle volpi, ai conigli...".
"Non avevano fame di carne umana?".
"Oh sì. Ne avevano, eccome. Ma non è quel genere di fame che sta pensando lei", strizzai l'occhio.
"Oh cielo", ridacchiò in imbarazzo, coprendosi per un momento gli occhi con la mano.
"Fu per questo che l'Alpha scese a patti con i forestali della zona".
Inclinò la testa. "Questa parte della storia non l'ho mai sentita".
"E' solo una delle tante versioni", minimizzai. "Si dice comunque che i forestali, per non permettere l'estinzione di quella specie, abbiano fatto in modo di interdire alcune zone, troppo pericolose in ogni caso per gli umani a causa dei crepacci".
La signora raddrizzò le spalle, sbattendo le palpebre con una lentezza snervante. "Sei così bravo a raccontare che per un attimo ho avuto l'impressione che questa storia fosse vera".
"L'immaginazione può giocare brutti scherzi".
"Pensa se fosse vero. Se esistessero davvero i licantropi", rabbrividì di paura ma il sorriso che faceva capolino tra le labbra lasciava capire che era solo una messinscena.
"I licantropi non sono un pericolo per gli umani", mentii. Non li cacciavamo, questo era vero, ma non potevo cancellare il fatto che molte donne erano morte per donarci la loro eccitazione.
"E lei è mai capitato di vedere questi strani animali? Del resto vive proprio nelle zone in cui è nata questa leggenda".
La fissai a lungo, incerto, indeciso su cosa rispondere. Scelsi la strada più difficile. "Ne vedo più di quanti lei possa immaginare".
"E che lupi sono?".
Sollevai le mani a mo' di zombie. "Terrificanti".
"Sciocco", scoppiò a ridere. "Sono dei lupi un po' più grossi, dì la verità".
"Il loro aspetto ricorda molto quello degli umani".
"Mi stai nuovamente prendendo in giro", liquidò il discorso. "Ancora limonata?".
"No grazie, si è fatto tardi".
"E' stato un piacere parlare con te, Deniel", disse di punto in bianco, l'affetto nella voce sorprese persino se stessa. "Mi ero fatta un'idea completamente sbagliata. Ah...! Quelle maledette riviste di gossip, sanno davvero buttare la croce addosso alle persone".
Sapevo cosa scrivevano su di me. Il fatto che vivessi tra i boschi, muovendomi di stato in stato per trovare lo scatto perfetto, alimentava le fantasie smaliziate delle donne, e i giornalisti andavano a nozze con quel genere di fantasie. Ci sguazzavano. Mi avevano cucito addosso la fama di cattivo ragazzo, che cambiava femmina ad ogni città per puro capriccio, e questo aveva ulteriormente ravvivato l'imaginario erotico di quelle donne che, spinte dalla noia o da un ego smisurato, tentavano di catturare la mia attenzione, convinte di riuscire laddove altre avevano fallito.
"I giornali tendono ad ingigantire. Ho avuto qualche donna, ovviamente". Del resto ero un uomo di trent'anni. "Ma nessuna è riuscita a catturare il mio interesse. O meglio, una c'è riuscita. Non posso certo negarglielo, signora". C'era un tale grado di ovvietà nel mio tono che per un attimo lei mi fissò guardinga, chiedendosi probabilmente se stesse commettendo qualche gaffe.
"Dai per scontato che io sappia tutto sulla tua vita privata ma ti assicuro che non sono così pettegola", ridacchiò. "Non so niente di questa tua... ragazza".
"Eppure credevo fosse ovvio".
L'espressione cordiale svanì di colpo, tramutandosi in una più sospettosa. "Di chi stai parlando, Deniel?".
L'accusa era implicita ma non vi badai. "Mi sembra logico che sto parlando di sua figlia".
"Mia figlia?", ripetè, allibita. "Tu e mia figlia vi state frequentando?".
"Non esattamente".
Il sospetto aumentò. "Sarà bene che ti spieghi meglio".
"Mi sono dichiarato con lei ma al momento mi respinge. Ritenevo comunque educato informare la sua famiglia che farò di tutto per averla" .
"Averla?". Si alzò e ripose i bicchieri sporchi nel lavello, usandolo come pretesto per nascondermi la sua espressione. "E' una ragazzina, Deniel, e tu sei un uomo di trent'anni".
"E' una ragazzina solo ai suoi occhi, signora".
Si voltò di scatto, leggendo nella mia frase una malizia che però non avevo usato. "Per caso voi due siete... intimi?".
"Signora", incalzai mantenendo la calma e alzandomi a mia volta. "Le garantisco che non ho intenzioni disdicevoli. Le sto solo dicendo che mi sono innamorato di sua figlia, non veda le cose per quelle che non sono".
Aprì il rubinetto e lasciò scorrere dell'acqua nella brocca vuota per sciacquarla. "Hai detto che ti respinge".
"L'ho detto".
"Forse dovresti quindi valutare l'idea di arrenderti e spostare la tua attenzione su...".
"No", alzai la voce. Mio malgrado avevo usato un tono più autorevole di quello che pensavo e la reazione della madre non tardò ad arrivare.
"Non puoi certo costringerla. Se è stata chiara dovrai accettare la sua decisione".
"E' stata più che diretta", mi massaggiai la mandibola, ricordando lo schiaffo che mi aveva dato quando avevo tentato di baciarla.
Il mio gesto fu talmente eloquente che la fece scoppiare a ridere. "Scusami... scusami se rido. Ti garantisco che non l'ho allevata in questo modo. Eppure... il modo in cui tu...". Scoppiò in un'altra risata e per un attimo fui tentato di accompagnarla con la mia.
"Ci soffri?", chiese quando riuscì a calmarsi, tornando affettuosa.
"La sofferenza in questo determinato caso è sottostimata", ammisi in un sussurro.
Il mio dolore sembrò librarsi nell'aria, prendendo in ostaggio i suoi occhi che in reazione si rattristarono. "Mi dispiace davvero tanto, Deniel. Le pene d'amore sono delle vere e proprie torture".
Sbirciai verso la camera di Becky. Anche se mi era impossibile vederla, potevo immaginarla addossata alla porta, con l'orecchio appiccicato per origliare. Mi chiesi se stesse sentendo ogni cosa e mi risposi di no. Se avesse sentito cosa stavo dicendo, a quest'ora sarebbe tornata di corsa in cucina con una scusa qualsiasi pur di interferire nella discussione e fermarmi.
"Proprio non capisce, eh?", ripresi disinvolto, prendendo uno strofinaccio e aiutandola ad asciugare un bicchiere. "Sua figlia non mi sta rifiutando perché non mi vuole. Mi sta rifiutando per colpa sua".
"Mia?".
Mugugnai un sì e le diedi una gomitata scherzosa, misurando la forza. "L'ha cresciuta con troppi principi morali".
Un sorrisetto soddisfatto le ingraziosì il volto, tuttavia rimase sul chi va là. "E tu?".
"Io cosa?". Le restituii lo straccio. "Dove tenete i bicchieri?".
"In quell'armadietto laggiù, accanto al gas". Si asciugò le mani ed attese paziente che mettessi tutto a posto. Era meraviglioso muovermi tra le cose di Becky, mi faceva sentire parte di lei. "Con quali principi morali sei stato cresciuto?".
Era evidente dove volesse arrivare. Appoggiai un fianco contro il top della cucina e incrociai le braccia. "Signora, mi sta chiedendo di non desiderare il corpo di sua figlia? Perché in tal caso le dico subito che è impossibile. Se però quello che vuole sapere è se saprò aspettare, la risposta è sì. Becky non è un capriccio e voglio che questo sia chiaro fin da subito perché non amo ripetermi. Quanto al modo in cui sono stato cresciuto, la famiglia per noi fa parte dei principi fondamentali. Se inizio una relazione non è per interromperla, perciò sarà bene che quando mi darete la benedizione di sposare Becky siate sicuri di quello che state facendo".
"Benedizione per... parli di matrimonio?", quasi si strozzò.
"Sì". L'assoluta fermezza nella mia risposta le permise di comprendere quanto fossi serio.
La tonalità della sua faccia cambiò drasticamente, da pallida a rossa. Poi di nuovo pallida. Attesi in silenzio che assorbisse la notizia, concedendole qualche secondo per metabolizzarla.
Dovetti aspettare ben più di qualche secondo. Poi finalmente si riscosse e con una scrollata del capo liquidò la notizia con indifferenza.
"In ogni caso mio figlia ti ha già rifiutato". Sembrava sempre più contenta di ripeterlo. Si aggrappava al "no" di Becky come ad un'ancora di salvezza. Da una parte potevo anche capirla. Era la madre di una femmina, più che normale quindi che tentasse di mettere le mani avanti.
"Signora, se le sto confidando il mio interesse è perché so benissimo che quel rifiuto si trasformerà molto presto in un sì. Mi creda, non sarei qui altrimenti".
"Come puoi dirlo?".
"Riconosco un no detto solo per dispetto o per timore. Sua figlia non ha mai avuto un uomo...".
"E' una bambina, santo cielo, mi mancherebbe altro", si stizzì.
"Quindi forse dovremmo lasciarle il tempo di capire cosa prova, non crede? Come posso prendere per buono l'ingenuo rifiuto di una donna che non sa ancora riconoscere l'amore?".
Arricciò il labbro, pensandoci su. "Se son rose fioriranno? E' questo che stai cercando di dire?".
"Praticamente!... Però io lascerei stare le rose", arricciai il naso, ripensando allo squisito profumo di quel fiore che indicava la verginità di una femmina.
"A questo punto un invito a cena diventa doveroso", rimuginò.
Mi finsi spaventato. "Considerando che dovrò affrontare suo marito, direi di sì".
"Ti suggerisco di non correre troppo", ridacchiò complice. "Vediamo prima cosa vorrà fare Becky, non credi?".
"Mi lasci qualche giorno", concessi.
"Sembri molto sicuro di te".
"Si sbaglia. Non è di me che sono sicuro. Sono sicuro di sua figlia".
"Spero tu non debba sopportare una delusione".
"Lo spera sul serio? Si rende conto, vero, che mi ha appena confidato che si augura che tra me e sua figlia nasca qualcosa? Suona quasi come una benedizione, lo sa?", la stuzzicai.
"Non mettermi in bocca parole che non ho detto", mi fulminò nello stesso modo con cui lo faceva Becky. Eppure un sorrisetto appena accennato tradì quello sguardo severo. "Sei un bravo ragazzo", me ne diede la conferma, "anche se a guardarti non si direbbe".
"Così mi ferisce", premetti una mano sul cuore, simulando un mezzo infarto. "Che ho che non va? Aspetti, vado a recuperare la giacca in veranda".
"Tutte quelle catene al collo, gli anelli, i tatuaggi che intravedo sul collo e sulle braccia", l'elenco accompagnò la mia camminata in veranda. Quando rientrai in cucina, infilandomi la giacca, mi squadrò con attenzione in faccia. "E i capelli lunghi!".
"Ora basta con tutti questi complimenti o dovrò riferire a suo marito", non la presi sul serio. "Aspetto il suo invito a cena, intesi?".
Mi seguì fino all'ingresso. "Io nel frattempo terrò la bocca chiusa con mio marito". Mi squadrò circospetta quando le passai accanto per uscire. "Non la prenderà molto bene, sai?".
"Quale padre la prende bene?", chiesi retorico.
Per un attimo esitai sulla soglia, guardando verso la camera più vicina. Sapere che oltre quella porta vi era la mia piccola mi rallentava i movimenti. Non volevo andarmene. Dondolai i piedi sull'ingresso, saettando con lo sguardo tra la porta e la signora.
"Mi saluti Becky", tergiversai.
Lei seguì il mio sguardo e infine sospirò profondamente. Sembrava quasi uno sbuffo rassegnato. "Vuoi vedere se è ancora sveglia?".
"Cazzo sì. Sì che lo voglio", mormorai svelto, marciando lungo il corridoio e dimenticando completamente le buone maniere.
"La porta deve restare aperta", avvertì.
L'aprii senza bussare, evitando di spalancarla con troppa foga per timore di rovesciare Becky a terra. A differenza di quello che mi aspettavo, però, non la trovai appiccicata con l'orecchio alla porta. Si era distesa sul letto a pancia in giù, completamente vestita e sopra le coperte, usando un braccio come cuscino e dimenticando di spegnere la luce. Doveva davvero essere stravolta per essere riuscita ad addormentarsi pur sapendo che ero in cucina con sua madre.
Una ciocca di capelli le era finita sul viso ma non riusciva a nascondere le lacrime che si erano seccate sulla guancia.
Mi avvicinai piano e mi accucciai accanto a lei, scostandole i capelli dalla fronte. Un respiro più pesante fu l'unica reazione al mio tocco e per qualche secondo uscii fuori dai confini del mondo, dimenticando ogni cosa, persino me stesso. C'era solo lei. Tutto il mio mondo si era raccolto nelle sue palpebre abbassate, il naso arrossato per il pianto, le labbra dischiuse.
Avvicinai le mie alle sue e le sfiorai talmente piano che riuscii a percepirne il tocco solo quando sussurrai: "Buonanotte piccola".
Quello, fu il bacio più bello di tutta la mia esistenza!
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