Becky - tu hai il potere
"Finalmente siete tornati". La mamma ci venne incontro, portandosi dietro una pezza con cui si stava asciugando le mani e l'immancabile profumo di carne fritta che le restava impregnato addosso per giorni ogni volta che la preparava. "Becky, avresti potuto dirmelo che saresti andata con loro".
"Veramente io non sono... ough!", le parole mi morirono in bocca quando Deniel mi diede una pacca di avvertimento sulla natica.
Mi voltai come una furia verso di lui, scontrandomi con l'espressione più seria di cui era capace. Metteva quasi soggezione e per un attimo risuonarono nella mia testa le parole di minaccia che mi aveva appena rivolto. Non potevo sapere se quella sorta di legge maschilista fosse reale o meno, ma sapevo anche che non mi andava di scoprirlo.
"Scusa mamma", sibilai, senza distogliere lo sguardo da quello di Deniel Farrow.
"Fa niente, fa niente. Ne ho approfittato per cucinare alcune cose per domani. A proposito, Deniel, che tu sappia ai tuoi dipendenti piace la carne fritta?".
"Non li conosco così bene, ma posso dirle che di certo piace a me", rispose cordiale, fiutando l'aria.
Andai nel panico e con uno scatto mi parai di fronte a lui. "Non si comporti da animale", sussurrai.
"Piccola, non mi serve fare appello al mio fiuto da perfido e crudele predatore delle foreste per sentire un odore così forte".
"E non chiamarmi piccola".
Un sorriso sghembo lo illuminò tutto. "Preferisci amore?".
"Eddai, Deniel, vieni ad assaggiare la carne, così mi dai un giudizio. Hai fame, sì?", alle mie spalle la voce della mamma arrivò serena, quasi gioiosa. Se solo avesse saputo...
Gli occhi di Farrow si abbassarono lentamente contro la mia bocca, e rimasero lì. "Certo che ho fame".
Imbarazzata mi torsi le mani e gli diedi le spalle, marciando verso la cucina. Sentivo il suo sguardo addosso ed ogni punto su cui lo posava formicolava come se stesse toccandolo. Raddrizzai le spalle e mi accomodai a tavola, al mio solito posto. La sedia accanto alla mia di solito era occupata da mio fratello ed essendo l'unica rimasta libera spettò a Deniel Farrow.
Sembrava così calmo, così a proprio agio. Per un breve istante, mentre ascoltavo la completa sicurezza che trapelava dalle parole cortesi che stava scambiandosi con la mamma, riuscii quasi a comprendere come vedesse tutta questa situazione.
Pensare che volesse solo portarmi a letto era stata la strada più semplice da percorrere. Primo perché era più facile accettare che fosse un mascalzone pronto a tutto per riuscire a sedurmi, anche inventare una storiella assurda basata su alcune leggende locali. Secondo perché una parte di me, una parte rilevante a dire il vero, non poteva capacitarsi come un uomo fatti e finito, con un viso irritantemente affascinante e un corpo che faceva voltare per strada tutte le donne che gli passavano accanto, potesse davvero interessarsi ad una ragazzina come me.
Poi però vidi i suoi occhi, fissi su di me. Era assurdo il modo in cui mi guardava, come se fossi "troppo" per lui. Quasi volesse comunicarmi in silenzio che gli ero entrata dentro, sostituendo la sua anima con la mia. E la strada semplice che avevo intrapreso si era bloccata, sbarrata dalla consapevolezza che lui non fosse un uomo come tutti gli altri e che ciò che lo aveva spinto a volermi non era frutto di un capriccio momentaneo.
Molti uomini fingevano di provare amore verso una donna per riuscire ad infilarsi nel suo letto, mio padre me lo aveva ripetuto così tante volte che quella lezione di vita era diventata un chiodo fisso. Negli occhi di Farrow però, vi trovai adorazione, rabbia, sfida, dolore. Nessuna traccia di menzogna.
Trattenni il respiro e deviai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. Continuava a nominare l'imprinting eppure non riuscivo a capacitarmi di come questo potesse influenzare a tal punto il suo comportamento e i suoi desideri. Tuttavia ogni volta che pronunciava quella parola, un lampo di rabbia gli induriva i lineamenti, come se non volesse accettarla, ed era a quella rabbia che mi sarei dovuta aggrappare. Se era vero ciò che avevo intuito, e cioè che non fosse affatto contento di aver avuto l'imprinting con me, forse esisteva la possibilità di convincerlo o quantomeno aiutarlo ad annullarne gli effetti.
"Dimitri arriverà col team verso le dieci", lo sentii rispondere ad una domanda da parte della mamma che però mi era sfuggita. "E' stata davvero gentile a concederci lo spazio per effettuare le riprese. Le assicuro che non le ruberemo troppo tempo, anche perché ci hanno dato un nuovo incarico per la campagna promozionale del nuovo acquedotto e metà squadra è già impegnata su questo nuovo progetto. Io e Becky, inoltre, dobbiamo ultimare le riprese al monte Eagle per il sergente Malloj e partire per un tour promozionale".
Balzai sulla sedia e sputacchiai la limonata che avevo appena sorseggiato.
"Partire per un tour?", io e la mamma avevamo parlato contemporaneamente e le nostre voci si mescolarono.
"Un breve tour a dire il vero", spiegò Farrow, dandomi due colpetti sulla schiena quando cominciai a tossire. "Nulla di troppo impegnativo. Ne ho preferito discutere con suo marito prima di ogni cosa... spero non le dispiaccia".
Disperata cercai mio padre con lo sguardo, trovandolo però concentrato contro una venatura del tavolo. Una profonda ruga gli solcava la fronte, poco sopra le sopracciglia. Avevo imparato a conoscere quel singolo solco nella pelle e sapevo che appariva sempre quando stava ragionando su qualcosa di poco chiaro.
"E' un'ottima opportunità lavorativa per Becky", commentò pacato, guardando di sfuggita Farrow, come a cercare un assenso. Lo sguardo poi tornò immediatamente contro la stessa venatura.
Non era mai stato bravo a mentire ed era evidente che stava improvvisando, dato che ogni centimetro di pelle sul suo volto aveva assunto un colore verdognolo. Qualunque cosa si fossero detti in quel bar, capii che l'idea del tour era venuta su due piedi a Deniel Farrow. Era un ottimo piano per costringermi lontana da casa per molto tempo con il benestare dei miei genitori, gliene davo atto. Peccato per lui che quel suo piano improvvisato avesse una falla che non aveva considerato.
"Non posso venire con lei nel tour", attaccai. "Perché ho deciso di licenziarmi".
Farrow non si scompose, strinse le labbra come se si fosse aspettato questa mia iniziativa e sollevò una spalla con indifferenza. "Attenderò la tua lettera di licenziamento".
"Perciò non verrò nel tour", rimarcai. Forse gli era sfuggito.
"Oh, verrai invece", obiettò, sicuro, frugando nella tasca della giacca alla ricerca del cellulare. Lo piazzò al centro del tavolo in modo che tutti noi potessimo vedere il display illuminato e aprì una cartella gialla denominata "Hill Farrow - documents". C'era un file con il mio nome e con l'indice lo pigiò; sullo schermo apparve un documento che aveva tutta l'aria di un contratto. "Lo ricordi questo? Lo hai firmato il giorno che Dimitri ti ha assunta".
"Certo che me lo ricordo. Ma che centra ora?".
Con l'unghia del pollice sbatté un paio di volte sull'angolo del cellulare. "Clausola D, ultimo paragrafo".
Scorsi la pagina fino ad arrivare al punto che aveva indicato e gli occhi mi si paralizzarono attoniti sul piccolo trafiletto la cui dicitura, al momento dell'assunzione, non aveva attirato la mia attenzione. Ora invece rappresentava la mia condanna. E sopra quella condanna c'era la mia firma.
"Becky! Perché vuoi licenziarti?", sentii in lontananza la voce della mamma. Tutti i suoni erano lontani, ovattati. Mi sembrava che le orecchie si fossero riempite di uno sciame di api.
Non c'era alcuna falla nel piano di Farrow, realizzai. Non aveva lasciato al caso nessuna mossa, ponderando ogni decisione con una precisione tattica che non mi consentiva alcuna via di fuga.
"Almeno aspetta di trovare un altro impiego. Non essere precipitosa", di nuovo la voce della mamma. Stava cercando di attirare la mia attenzione, forse stava persino parlando a voce più alta del solito, eppure era solo un ronzio. Non potevo guardarla. Non ci riuscivo. Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle tre righe scritte in un carattere più piccolo rispetto alle altre clausole, e in cui veniva chiesto al dipendente la garanzia di non licenziarsi entro la scadenza del primo anno.
Era legale?
Sì che lo era. Doveva esserlo per forza. Una agenzia pubblicitaria famosa come la Hill Farrow era nell'occhio del mirino di legali e finanzieri, difficilmente quindi avrebbero commesso uno sbaglio banale come quello di far firmare contratti con all'interno un errore di vizio. E comunque non avrei avuto la possibilità di pagare un avvocato che potesse prendere in mano la mia situazione né avrei potuto sperare che riuscisse ad annullare il contratto d'assunzione nel giro di pochi giorni.
"Per quando è previsto il tour?", indagai.
"Partiremo appena avremo terminato le riprese al monte Eagle".
Lo fissai cercando un cedimento da parte sua a cui aggrapparmi, ma che non trovai. "Davvero vuole che io torni là?".
"Non proprio", si limitò a dire, facendo sì che la mia testa venisse inondata da una nuova serie di domande.
Se non voleva portarmici, perché era in questa cucina, seduto composto sulla sedia, a fingere di chiedere il permesso ai miei genitori per poter portarmi con lui? Come poteva voler farmi tornare là, dopo che sei lupi erano stati attirati dal mio odore? Dopo che era iniziata una guerra a causa mia?
"Quando faremo queste riprese?".
"Dopo domani, se possibile", spiegò, sollevando poi lo sguardo su mio padre. "Becky ha impegni nei prossimi giorni?".
"Dovrebbe chiederlo a me, non le pare?".
Mi guardò di sbieco. "Hai impegni nei prossimi giorni?".
"Ovvio che sì".
Il sorriso che mi inviò fu accecante. "Ed ecco spiegato il motivo per cui lo chiederò a tuo padre". Il sorriso si spense appena spostò gli occhi da me a mio padre. "Quindi, signor Tony?".
"Dopo domani?", sussurrò tagliente, dimostrando una seconda volta che il piano improvvisato di Deniel divergesse completamente da ciò che gli aveva detto in quel bar.
"Se lei è d'accordo".
Mi voltai di scatto verso Farrow, sorpresa che stesse davvero chiedendo il permesso per qualcosa. E a mio madre, un umano, niente meno.
"Sì... bhe... non credo... uhm... non credo ci siano problemi. Lillibeth?".
"L'opportunità è elettrizzante", ragionò la mamma. Un cipiglio però mi faceva intuire che non fosse affatto contenta. "Tuttavia non mi sento molto tranquilla. Becky è talmente giovane...".
"E' una dei pochi dipendenti a non aver figli. Chi meglio di lei può assentarsi?". Aveva pensato proprio a tutto. Rispondeva ad ogni domanda senza alcun tentennamento, quasi avesse imparato a memoria le risposte. "Inoltre sarà ricompensata economicamente in modo egregio, e se alla fine dell'anno non avrà ancora intenzione di licenziarsi, otterrà due passaggi di livello".
Chissà se anche questa parte era inventata?
La mamma si lasciò sfuggire un sorriso, seppur tirato. Il classico sorriso di chi ha le spalle al muro. Dopotutto era una madre che non aveva potuto permettersi di pagare gli studi alla figlia, condannandola a svolgere un lavoro sottopagato. Per quanto fosse evidente che stesse cercando qualche appiglio per obiettare, cosa poteva dire? No, preferisco che Becky resti tutta la vita a fare le fotocopie e svuotare i cestini? Aveva le mani legate.
"Sarà meglio che vada a tirar fuori dalla soffitta la valigia grande", si arrese con un sorriso leggermente più convinto.
Un sorriso che mi spezzò il cuore e che per la prima volta in tutta la mia vita mi fece sentire sola.
"Se abbiamo finito andrei volentieri a letto", dissi di punto in bianco, sollevandomi dalla sedia. Le lacrime già pronte a inondarmi gli occhi, in attesa solo di ritrovarsi faccia a faccia con me, nella solitudine della mia stanza. Non sarei stata in grado di trattenerle ancora a lungo. "Signor Farrow, l'accompagno alla porta".
"Volentieri! Signora, questa carne fritta è la migliore che abbia mai mangiato, le rinnovo i miei complimenti".
"Sei sempre troppo gentile", le scappò un risolino lusingato.
Sollevai gli occhi. "Sì, un bisciù... signor Farrow, sono davvero molto stanca, perciò...".
"Eccomi".
Attesi impaziente che stringesse la mano a mio padre e facesse un vomitevole bacia a mano alla mamma. La sua calma mi metteva sul chi va là. Non era una calma dettata dall'arrogante carattere spocchioso di un uomo abituato ad lottare per ciò che più desiderava. Era piuttosto l'arroganza di un uomo che sapeva di avere in mano tutte le carte vincenti. E le aveva. Tutte vincenti. Dalla prima all'ultima.
Socchiusi la porta d'ingresso alle mie spalle, lasciando un piccolo spiraglio poiché non avevo con me le chiavi e per un attimo dondolai sui piedi, tra il primo gradino e il secondo. Farrow non aveva urgenza di andarsene, sebbene gli occhi non si stancassero di perlustrare i dintorni, segno che era sulle spine.
"Perché lo fa, signor Farrow?", chiesi in un bisbiglio.
I suoi occhi smisero immediatamente di controllare il fondo della via. "Faccio cosa?".
"Tutto! Tutto questo. Perché lo fa? Perché vuole strapparmi via da casa, dalla mia famiglia, dal mio lavoro? Vuole togliermi la mia vita per gettarmi nella sua. Perché?".
"Davvero non lo hai ancora capito?".
Mi strinsi nelle spalle. "L'unica cosa che ho capito è che lei non è... umano. E non sono nemmeno sicura di aver capito giusto".
Puntò un dito sul gradino su cui tenevo ancorato il piede. "Ci sediamo un secondo? O sei davvero così stanca?".
L'unica cosa che desideravo fare era correre in camera mia e nascondermi sotto le coperte, chiudere gli occhi e riaprirli in un'altra vita. Ma sapevo anche che se avessi rifiutato di parlare con lui non avrei mai potuto comprendere a fondo i suoi piani. Era necessario che imparassi a conoscere i suoi obiettivi se volevo prevederne le mosse.
Perciò mi accomodai sulla pietra fredda e strinsi le braccia attorno al corpo per ripararmi dal freddo. Per qualche istante Farrow esitò, valutando forse dove sedersi, infine scelse il gradino più basso, in un punto che lo avrebbe costretto a parlarmi reclinando la testa all'indietro. Lo interpretai come un segno di sottomissione ed ero certa di non sbagliarmi. Pur non avendo studiato il mondo animale, sapevo che per i lupi, o i cani in generale, mettersi in una posizione più bassa equivaleva ad un segno di rispetto e inferiorità.
"Dio solo sa quanto vorrei evitarti il mio mondo", cominciò, guardandomi dritto negli occhi. "E ci ho provato, ci ho provato davvero".
"Non hai l'aria di uno che non riesce a portare a termine qualcosa. Forse non ci hai provato abbastanza".
Una mezza risata gli scosse il petto e lo sguardo verté verso la punta delle scarpe. "Hai idea di quanto sia doloroso, per uno come me, stare lontano dalla propria compagna? Essere rinnegato da lei? No...", scosse la testa, amareggiato da qualcosa che però non riuscivo a comprendere. "Non puoi saperlo. Non puoi, ovviamente. Per voi umani è diverso. Per voi l'amore è labile, alle volte effimero. Vi accendete con rapidità, sareste persino capaci di fare follie, ma allo stesso tempo vi spegnete in un secondo".
"Non è sempre così", lo contraddissi, prendendo ad esempio i miei genitori. Il loro amore durava da decenni, superando indenne migliaia di difficoltà. Erano la prova vivente che non vi era sempre caducità nei sentimenti umani.
"Neghi che un uomo sia capace di rifarsi una vita quando la sua compagna muore? Neghi che vi rifugiate in tradimenti psicologici o fisici perché scontenti di ciò che avete? Lo neghi davvero?... Per noi è diverso", rimarcò. "Per noi lupi, la compagna è per la vita. Senza di lei non abbiamo ragione di esistere. E se la nostra compagna ci dovesse rifiutare, bhe...".
Si bloccò, strofinandosi il palmo al centro della fronte. Aveva delle rughe che non c'erano mai state. Ora che mi ero calmata, o quantomeno mi stavo sforzando di mantenere alta la guardia senza per forza cedere all'isteria, osservandolo da vicino potevo notare come la pelle del viso fosse più lucida, appena bluastra sotto le lunghe ciglia, adombrata da dei solchi che dall'attaccatura del naso si rincorrevano verso il labbro superiore.
"Cosa accade quando una ragazza di cui siete innamorati non vi ricambia?", chiesi, fremente di sapere cosa stava per dire. Nella sua risposta probabilmente c'era la soluzione che andavo cercando e che mi avrebbe spiegato come convincerlo a staccarsi da me.
"Non si tratta di una ragazza di cui siamo innamorati", copiò le mie parole, facendo le virgolette con le dita e ruotando gli occhi come a voler sminuire il significato che l'amore aveva per noi umani. Un sorriso triste gli incurvò il labbro e i solchi sotto al naso apparvero ancora più profondi. "La nostra compagna è la nostra unica ragione di vita".
Fu il mio turno di ruotare gli occhi. "Mi sembra una esagerazione adolescenziale".
"Non devi vederla solo sotto l'aspetto romantico del termine. Con ragione di vita intendo che senza di lei siamo destinati a morire".
"Tipo alla Romeo e Giulietta?", chiesi scettica.
"Quella era follia mascherata di stupidità. Una storiella romantica che fanno studiare al liceo... e sì, prima che tu me lo chieda, anche noi andiamo al liceo". Fece una smorfia. "Okay, il nostro liceo forse è un tantinello diverso".
"Reputi sciocco morire per amore. Eppure un attimo fa hai detto che un lupo senza la propria compagna è destinato a morire".
"Diciamo che un lupo non sceglie di morire. Ma sarà quella la sua sorte. Senza una compagna restiamo privi di linfa vitale. Finché non proviamo l'imprinting riusciamo ad accoppiarci con le umane, e per un po' va tutto bene grazie al loro liquido di eccitaz...".
"Okay, okay, credo di aver sentito abbastanza", lo interruppi.
La sua risata non tardò ad arrivare. Mi scompigliò la frangia, scoccandomi una delle sue occhiate seducenti. Quel contatto così casuale e affettuoso mi rimescolò lo stomaco.
"Ti imbarazza sempre parlare di sesso? O è solo con me?", chiese.
"Signor Farrow, lei è il mio capo e...".
"Ancora!", sbuffò. "Se ti licenzio potrò quindi avere una conversazione normale con te?".
"Stiamo parlando di imprinting animale... non credo che licenziarmi trasformerà la nostra discussione in qualcosa di normale".
"Forse non per te", acconsentì, pensieroso, ma in un attimo tornò giocoso come pochi istanti prima. "Però se ti licenzio, probabilmente parleresti di sesso con me senza rischiare di andare a fuoco".
Mi toccai le guance, imbarazzata. "Non sono arrossita", mentii sapendo di mentire.
Col pollice e l'indice mi pizzicò la guancia destra. "Perché lo neghi? Non sai quanto sia raro trovare una femmina che sappia arrossire".
Puntai lo sguardo sulle unghie per sviare il suo. Erano sporche e spezzate in alcuni punti. Portavano su di sé tutto ciò che avevo subito in queste ultime ore.
"Okay", dissi infine.
Scosse la testa. "Okay cosa?".
"Okay sono arrossita".
"Non ti ho chiesto un'ammissione, tuttavia non mi piace quando mi menti. Preferirei non lo facessi più".
"Quando lo avrei fatto?".
"Lo fai ogni volta che mi guardi".
Corrugai la fronte. "Non è vero, io...".
"Lo fai ogni volta che mi rifiuti".
"Signor Farrow, io non mento quando dico di non volerla", ribattei dura.
"Allora dimmi perché".
"Perché?".
"Sì, perché!". Incrociò le braccia e cambiò posizione, in attesa. "Dimmi perché non mi vuoi".
La domanda era banale e tutto sommato aveva tutto il diritto di porgermela. Era la risposta a non essere per nulla semplice. Perché non c'era. Non esisteva.
"Posso provare a comportarmi da umano e fingere di accettare che tu non mi voglia, ma almeno devi dirmi il motivo. Ne avrai uno, no?", incalzò.
Mi misi sulla difensiva. "E' ovvio che ce l'ho".
"Allora sentiamolo".
Mi dimenai sul gradino, distraendomi per qualche secondo ad osservare un gatto che cercava di scalare un mucchio di sacchetti d'immondizia. Si muoveva nel buio, nello stesso buio che avevo nel cervello.
Per quanto mi sforzassi di trovare una spiegazione, non vi era niente tra i vari sentimenti che provavo che potesse assumere le sembianza di un risposta. Deniel Farrow incarnava la perfezione: affascinante, elegante, con quell'aurea da cattivo ragazzo che piaceva tanto, sicuro di sé, arguto. Mi resi conto che se lo avessi incontrato in un'altra situazione con tutta probabilità avrei ceduto alle sue lusinghe in un batter d'occhio. Cosa che, da quel che potevo benissimo intuire, avevano fatto tutte le ragazza che aveva incontrato prima di me. Perché non esisteva una sola ragione per cui una donna sana di mente potesse rifiutarlo. A meno finché non avesse scoperto chi fosse realmente.
"Lei è un lican... un li... lican...". Era inutile. Il mio cervello si rifiutava di pronunciare quella parola, associandola inevitabilmente a qualcosa di irreale. O forse era solo troppo codardo per crederci fino infondo.
"Dov'è il problema?", chiese con una semplicità disarmante.
"Dov'è?", mi sorpresi. "Per lei è normale che esistano i licantropi?".
"Ho avuto la tua stessa reazione quando ho scoperto che esistevano gli umani".
Lo fissai. "Parli sul serio?".
"Avevo dieci anni quando l'ho scoperto", scrollò la testa, ripensando a qualcosa. "Credimi, è stato shoccante".
"Non sapevi che esitavamo?", blaterai a bocca aperta.
Mi pizzicò un fianco. "Piantala di esserne così sorpresa".
"E come lo hai scoperto?".
"A dieci anni abbiamo il permesso di uscire dei confini del nostro territorio. I miei fratelli sono andati verso le vette, a caccia di aquile. I soliti esaltati". Alzò gli occhi al cielo, un mezzo sorriso tra il divertito e il derisorio. "Io invece sono sceso a valle. E' lì che ho incontrato il primo umano".
"E' ancora vivo?", borbottai, convinta di sapere già la risposta.
"Oh, sì, eccome se lo è", mi sorprese. "E' Malloy".
"Dev'essere stato un vero shock".
Osservò un punto indefinito lungo la strada, anche se dentro di me sapevo che i suoi sensi erano allertati. "Ne fui rimasto terrorizzato e sconvolto".
"Intendevo per Malloy".
"Lui sapeva già della nostra esistenza. E' un caro amico di famiglia".
"E poi quando hai incontrato altri umani?".
"Dopo aver visto Malloy sono fuggito. Ero ancora un lupo molto giovane e non ero in grado di comprendere quanto fossi più forte di lui. Lo avevo visto come un nemico ed ero tornato di corsa da mio padre. Mi ci volle una settimana per riuscire a parlargliene e quando lo feci mi rivelò tutto ciò che si celava oltre i nostri confini territoriali. Mi spiegò le differenze tra la nostra specie e la tua, e ne rimasi così colpito che pian piano, giorno dopo giorno, mi aggregai sempre più spesso ai licantropi adulti che venivano inviati qua in città per monitorare la situazione".
"Ci spiate?".
"No. Controlliamo soltanto che i nostri mondi non collidano. Se qualcuno dovesse scoprire della nostra esistenza sarebbe il caos. Nascerebbe una sorta di caccia alle streghe. Nessuno si fiderebbe più dell'altro, proprio perché le nostre sembianze sono identiche alle vostre. Uomini e donne comincerebbero a sospettare dei propri vicini, dei propri colleghi, addirittura dei propri amici. La guerra infine sarebbe inevitabile e, per quanto noi licantropi siamo in netta minoranza, sarebbe comunque la fine per voi umani". Continuava a fissare un punto lungo la strada, talmente assorto da far risultare le proprie parole ancora più solenni. "Poco dopo queste mie prime spedizioni però mi proibirono di uscire nuovamente dai confini perciò per molti anni la mia vita tornò normale".
"Perché te lo impedirono?".
Era la domanda sbagliata. Il suo volto si fece scuro e la mano si strinse in pugno sopra il suo ginocchio.
"Non vuoi dirmelo?", indagai.
Sollevò lo sguardo su di me per un momento. L'espressione era malinconia. Quindi tornò verso la strada. "Avevo iniziato a cacciarvi".
"Non è quello che fate tutti?". Il mio tono fu più pungente di quanto mi aspettassi. Temendo di averlo scoraggiato a continuare perciò cercai di proseguire con più gentilezza: "Voglio dire, le leggende sono piuttosto chiare su questo punto: i lupi sbranano gli uomini".
"Le leggende sono appunto leggende. Tutto ciò che sai su di noi lo hai appreso dalla televisione o da qualche romanzo".
"Quindi non c'è nulla di vero?".
"Qualcosina", restò sul vago.
"Non ululate alla luna piena?".
Arricciò il naso, apparentemente allegro. Il malumore sembrava passato. "Okay, quello è vero".
"Ed è anche vero che vi trasformate quando venite colpiti da un raggio lunare?".
Rise. "No. Ci trasformiamo solo quando siamo noi a deciderlo, di solito lo facciamo quando dobbiamo andare a caccia. Oppure quando proviamo molta rabbia o... eccitazione. Nel secondo caso comunque non ci trasformiamo del tutto. Niente pelo e orecchie a punta", concluse facendo un'occhiolino scherzoso.
"E come fate a frequentare noi umane senza farvi scoprire?". Mi sentivo una perfetta idiota ogni volta che gli ponevo una domanda su un argomento tanto assurdo e irreale.
"Intendi come facciamo a possederle?", andrò dritto al punto, senza alcun imbarazzo.
"No", mentii di getto. La sua occhiataccia mi fece desistere subito: "Cioè... sì".
Distolse lo sguardo, sulle spine. Il gatto stava ancora rovistando tra i rifiuti. Avanzò di qualche passo, fiutando nell'aria qualche profumo e sollevò il muso verso di noi. Gli occhi gialli si scontrarono quieti con i miei, poi lentamente si spostarono verso Deniel, sgranandosi d'ansia all'improvviso. Retrocesse veloce e con un balzo oltrepassò un muretto, scomparendo.
"Codardo", ridacchiò, riferendosi al gatto.
"Spaventi tutti gli animali?", chiesi, ricordandomi il modo in cui anche il cerbiatto in mezzo al bosco era fuggito appena Deniel si era avvicinato di qualche passo.
"Sono il predatore più spietato", rispose maligno, con ovvietà. "Nel mondo animale vige la legge del più forte, sappiamo fiutare il pericolo e, comunicando solo con versi, abbiamo imparato a riconoscere il potere di ognuno di noi attraverso lo sguardo. Con gli occhi imponiamo la scala gerarchica, e la mia, Becky, è al primo gradino, superiore a quella di ogni altra specie animale, compresa quella umana".
Mi ci volle un minuto buono per digerire le sue ultime parole. La paura che provavo verso di lui si rinnovò, facendomi venire la pelle d'oca.
"Per rispondere alla tua domanda di prima", riprese, togliendosi la giacca e posandomela attorno alle spalle con un movimento così naturale che non me la sentii di protestare, "quando ci accoppiamo con voi umane è raro che inizi la trasformazione. Non siamo eccitati, lo facciamo in modo meccanico, spinti solo dal bisogno di rinnovare le nostre cellule. Accade raramente che la Bestia dentro di noi prenda il sopravvento".
"Cosa succede quando accade?".
Era di nuovo la domanda più sbagliata che potessi porgergli. Il malumore tornò di colpo, adombrandogli il volto e rendendolo mortalmente serio. Lo stesso sguardo aveva assunto una luce letale.
"Nulla di buono", si limitò a rispondere. Nel tono freddo tuttavia vi era una punta di malinconia. Forse addirittura di vergogna.
"La uccidete?".
Deniel si accarezzò la barba bionda, scuotendo leggermente la testa quasi volesse evitare la domanda.
"Deniel, la uccidete?".
"E' successo", buttò lì con un filo di voce.
"Okay", annuii fingendomi disinteressata. Ero così terrorizzata da lui che non volevo dargli un pretesto per discutere. Tutto il coraggio che avevo mostrato fino a pochi attimi prima era stato spazzato via dalle sue parole.
Eppure non gliela diedi a bere. "Sai di non devi avere paura di me".
"Ho sempre avuto paura di te".
"No, piccola". Si sporse veloce verso di me, imprigionandomi il volto tra le mani. "Fare del male a te sarebbe fare del male a me stesso. Non scherzavo quando dicevo che la mia vita dipende dalla tua".
"Non riesco a comprendere come sia possibile".
"L'unica cosa che devi comprendere è che tra me e te, chi ha il potere sei tu".
Ci fissammo a lungo, in silenzio, provando a leggere i pensieri l'uno dell'altra. I miei erano confusi, incerti, piroettavano verso una consapevolezza sempre più lontana, imprigionati in una giostra di emozioni che ruotava all'infinito in un vortice di irrealtà.
"Se tu sei più potente, se fai parte di una specie superiore, come posso io avere tutto questo potere?", chiesi.
Deniel staccò le mani con un movimento nervoso e si alzò di scatto. "Rientra in casa adesso. La giacca tienila pure, me la darai domani mattina".
Mi alzai a mia volta. "Perché non mi rispondi?".
Farrow si allontanò di qualche passo, infilandosi le mani nelle tasche anteriori dei jeans. Restò in silenzio tanto a lungo che per un attimo pensai non mi avesse sentita. Stavo per riaprire bocca quando con un lungo sospiro mi fece intuire che stava soltanto prendendo tempo.
"Piccola, tu hai il potere di decidere se farmi morire o meno tra sei mesi".
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