Becky - se non è desiderio che cos'è?
Avevo fatto una figuraccia. L'ennesima.
Eppure, a farmi mancare il respiro non era la consapevolezza di aver scritto parole senza senso mentre stavo parlando con Farrow, bensì il significato nascosto in quelle lettere gettate lì a casaccio.
Ogni volta che avevo pigiato a caso un tasto sul pc, avevo ammesso con Farrow il mio interesse per lui, un interesse tra l'altro che non sapevo nemmeno di provare.
Se tornavo indietro con la memoria, alla ricerca del momento esatto in cui una parte di me aveva iniziato a provare un qualcosa per lui, riuscivo a riportare a galla solo momenti spiacevoli alternati a momenti in cui ero rimasta paralizzata dal terrore.
Sia lui che Dimitri stavano cercando di farmi il lavaggio del cervello, come quelli che si fanno ai Marines per intenderci, approfittando della mia inesperienza per portare avanti un piano ben studiato e di cui, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovarvi falle.
Com'era possibile quindi che Farrow fosse riuscito a coinvolgermi mio malgrado nel suo ostinato tentativo di farmi cadere ai suoi piedi? Dove voleva arrivare? E io fin dove ero in grado di resistergli?
Ripetermi che lui mi fosse completamente indifferente era ormai inutile perché non avrebbe cambiato ciò che sentivo e a cui non riuscivo a darvi un nome. Ed era assurdo. Sbagliato e assurdo.
Avevo già avuto delle cotte in passato, ma ciò che avevo sentito per quei ragazzi era stato completamente diverso. Più semplice. Quello che sentivo per Farrow invece era oscuro e misterioso.
Oscuro perché ero sicura che ciò che provavo era una banalissima attrazione verso il suo aspetto talmente avvenente da essere quasi fastidioso.
Misterioso perché non avevo mai provato nulla di simile stando accanto a un uomo. Non ero bigotta da non sapere che alle volte tra uomo e donna potesse esserci una devastante attrazione sessuale da spingerli ad agire senza sentimenti. Tuttavia, un conto era saperlo, un altro era viverlo. E non avevo alcuna esperienza passata che potesse venirmi in auto per riuscire a capire e a gestire il calore allo stomaco e alle mani che sentivo ogni volta che un suo sguardo diventava troppo audace o semplicemente quando si avvicinava, annusandomi come se fossi una sorta di droga di cui non poteva fare a meno.
"Vuoi un caffé?", mi chiese, rompendo il lungo silenzio.
Stavamo lavorando da almeno un'ora ai nostri rispettivi pc, senza degnarci di un'occhiata, concentrati unicamente sulla sceneggiatura per lo spot pubblicitario. Di tanto in tanto, con la coda dell'occhio, l'avevo scoperto voltato verso di me, ma a parte qualche occhiata fugace non mi aveva più rivolto la parola.
Digitai l'ultima frase che avevo in mente prima di dimenticarla. "Grazie, sì".
"Vuoi altro?".
Inconsciamente lessi un malizia all'interno di quelle due semplici parole che sicuramente non c'era. Che mi stava accadendo? Sentii la faccia accaldata e spostai una ciocca di capelli in avanti per nascondergli il mio profilo.
"Piccola", mi chiamò e quando non risposi rimise la ciocca al suo posto. "Adesso però non puoi arrossirmi ogni volta che ti parlo".
Mi feci aria con le mani, scostando il colletto della maglia. "Dovreste abbassare i termosifoni qua dentro. Fa troppo caldo".
"Togliti la maglia".
"Cosa?", gracchiai.
"Ho detto: togliti la maglia".
Sgranai gli occhi contro il pc, rifiutandomi di guardarlo. "Io non mi tolgo niente".
"Piccola non era un invito ma un suggerimento", ridacchiò. "Giusto per sapere, mi guarderai in faccia prima o poi? Il tuo profilo è splendido ma preferisco parlare ai tuoi occhi".
Mi voltai lentamente, a scatti. Non ero nemmeno più in grado di deglutire. Com'era possibile che fossi attratta da lui? Dopo quello che mi aveva detto? Dopo quello che aveva fatto?
"Così va meglio. Vado a prenderti un caffe e quando torno leggiamo insieme cosa hai scritto, okay?".
Annuii, gli occhi ancora sgranati che seguivano i passi felpati di Farrow mentre usciva dalla sala riunioni. Mi concessi un respiro solo quando mi ritrovai sola e la tensione svanì all'istante, lasciando il mio cervello libero dalle catene dell'imbarazzo. Subito si mise al lavoro, vedendo nella momentanea lontananza del signor Farrow una possibilità di fuga.
Non sapevo ancora bene cosa volessi fare ma ogni cellula del mio corpo mi urlava di allontanarmi da lui e da quel posto. Avevo bisogno di restare sola, di correre a casa, farmi una doccia e poi con calma raccontare a mia madre cosa era successo negli ultimi giorni. Avevo bisogno di metterla in guardia dalla follia di Farrow e Dimitri e indagare con mio padre su Malloj.
Afferrai la borsa e il cellulare, e corsi verso la porta. La dischiusi, abbassando la maniglia lentamente per non farla cigolare, quindi controllai il corridoio: era vuoto.
Ogni piano dell'edificio aveva una zona relax perciò sapevo con certezza che Farrow non avrebbe impiegato troppo tempo a tornare. In punta di piedi mi diressi verso l'ufficio amministrativo nella speranza di trovare Jenny ma quando mi affacciai vidi le sette scrivanie vuote, i pc spenti e l'attaccapanni spoglio da qualsiasi giacca. L'orario d'ufficio si era concluso da poco e solo l'addetta alla reception restava alle volte fino a dopo le 18.
Feci per tornare indietro ma dal corridoio rimbombarono dei passi. Mi guardai attorno frenetica, pensando alla svelta cosa fare. Telefonare alla mamma era fuori discussione perché la mia voce sarebbe riecheggiata ben oltre la porta di questo ufficio e l'ascensore era proprio accanto alle scale e per raggiungerlo avrei dovuto andare proprio verso il rumore dei passi che aumentava di secondo in secondo.
Corsi verso la scrivania di Jenny e mi accucciai dietro ad un pannello divisorio.
Il rumore di passi si arrestò e di colpo il mio nome rimbombò forte e chiaro lungo il corridoio. Trattenni il respiro e aprii l'anta di uno scaffale per nascondermi meglio, stringendo le ginocchia al petto per occupare meno spazio possibile.
Udii un passo. "Becky?".
Un altro paio di passi. "Sei al bagno?".
Sentii una porta aprirsi e poi richiudersi.
"Becky?".
Poi udii direttamente il suono del cellulare.
"Merda", bisbigliai spalancando la borsa e rovesciando a terra tutto il contenuto.
Sparpagliai velocemente sul pavimento due fazzoletti di carta usati, un assorbente, tre penne, il portafogli, la carta di un cioccolatino, alcune ricette mediche che avevo dimenticato di avere e il sasso portafortuna che mi aveva regalato la mia vicina di casa prima di partire per un corso di patafisica in Nuova Zelanda.
Digitai veloce il tasto di risposta, senza nemmeno guardare il numero che appariva sul display. "Pronto", parlai quasi sottovoce.
La voce di Farrow mi fece sussultare. "Dove sei andata?".
"Dove sono andata io?", sussurrai.
"Sì, dove sei andata tu".
"Non sono andata da nessuna parte".
"Perché bisbigli?".
Sentii altri passi nel corridoio ma non erano abbastanza forti da farmi capire in che punto di trovasse.
"Perché mi trovo in un punto dove è meglio non urlare. Sa come sono i miei vicini di casa. Ascoltano tutto e poi riferiscono a mia madre".
"Recentissimamente hai detto di essere ancora in ufficio", mi fece notare. Era calmo. Buon segno.
"No, non l'ho detto".
"Quindi non sei in ufficio?"
"Ehm... no, signor Farrow. Avrei dovuto avvertirla ma mi è arrivata una telefonata improvvisa da parte di mio padre. C'è la signora Meredith, quella che ha il panificio di fronte casa mia, che ha un problema alle tubazioni idriche e non si sa come e perché si sta allagando anche parte del mio giardino. Allora sono dovuta correre a casa".
"Ti raggiungo lì".
"No! Non serve. Appena finisco la raggiungo io nuovamente in sala riunioni".
All'improvviso un'ombra si allungò oltre le mie scarpe.
"Facciamo che torni in sala riunioni entro dieci secondi, eh?!", la voce di Farrow arrivò da fuori la cornetta, esattamente sopra la mia testa.
Stralunata fissai la sua ombra allungarsi all'improvviso oltre le mie scarpe e con una lentezza disarmante sollevai la testa, incontrando i suoi occhi vagamente divertiti. Chiusi la telefonata e riposi il cellulare in borsa insieme alle altre corse sparpagliate sul pavimento, senza più osare alzare lo sguardo da terra.
"Stavi fuggendo da me?", chiese una volta richiusa alle proprie spalle la porta della sala riunioni.
"Sì", ammisi in un soffio. Ormai negarlo era da stupidi.
"Vuoi spiegarmi il perché?". Manteneva la calma eppure i movimenti continuavano a somigliare a quelli di un predatore. Mi intimidivano e non sapevo nemmeno il perché.
"Volevo solo tornare a casa".
"Così? All'improvviso?".
Notai che aveva posato due bicchieri di caffè sulla scrivania e ne presi uno. "Non lo so cosa volessi fare, so solo che volevo tornare da mia madre e dirle che... non lo so. Non lo so! Non so nemmeno io cosa volessi dirle. Sono in confusione. Lei mi mette in confusione".
Storse le labbra. "Questo è poco ma sicuro". Quindi afferrò anche lui il proprio bicchiere di caffè e con un gesto veloce prese una poltroncina, sbattendomela di fronte e dimostrandomi per l'ennesima volta quanta forza nascondesse nei muscoli della braccia. "Siediti e dimmi cosa succede".
"Non succede niente", parlai senza riflettere.
Sorseggiò il caffè e da sopra l'orlo del bicchiere mi inviò un'occhiata esplicita. "Non sono un ragazzino, Becky, so riconoscere quando una femmina prova attrazione per me".
Il caffè mi andò di traverso e dovetti schiarirmi la gola una dozzina di volte prima di riacquistare la possibilità di parlare. "Lei è sfrontato e di una maleducazione...".
"A questo punto l'hai voluto tu", mi parò sopra.
"Voluto cosa?", mi allarmai quando si avvicinò di qualche passo.
L'atteggiamento passivo voleva far credere che il discorso non lo entusiasmasse più di tanto eppure gli occhi mi studiavano, attenti e vigili, tradendo l'indifferenza che fingeva di provare. Si fermò a pochi centimetri da me, rubandomi quello spazio che mi faceva provare una parvenza di sicurezza e di scatto balzai indietro, sbattendo il fianco sull'orlo della scrivania. Il caffè traballò e sostenni il bicchiere con due mani per evitare che si rovesciasse sul pavimento.
Notai le narici di Farrow fremere, a caccia del mio profumo, e quando lo trovò abbassò le palpebre, inspirando a pieni polmoni. Si avvicinò di un altro passo, compensando il mio movimento e appena feci per retrocedere ancora, nonostante avesse gli occhi serrati mi bloccò, afferrandomi per le braccia. Sembrava davvero riuscire a percepire ogni sfumatura del mio profumo, tanto da potersi lasciar guidare da essa.
"Ti ho annusata gli scorsi giorni e ti ho annusata oggi", parlò piano, facendo scontrare il proprio respiro contro la mia fronte. La sua altezza mi metteva soggezione, obbligandomi a reclinare la testa appena annullava le distanze tra di noi.
"Non capisco perché lei sia così ossessionato dal mio profumo".
"Te l'ho già spiegato. Il tuo odore è la traduzione di ciò che provi. Ogni tua sensazione è legata ad una fragranza ed io posso riconoscerle tutte. Una ad una. Puoi negare ciò che senti per me ma l'odore di fragole che ho percepito su di te poco prima di uscire da questa sala per prenderti un caffè è qualcosa che non posso fingere di non aver sentito".
"Io non ho mangiato fragole", negai risoluta.
Risollevò le palpebre e mi inchiodò sotto la potenza devastante del suo sguardo. "Sai cosa significa quell'odore?".
Provai a voltargli le spalle e la stretta aumentò, costringendomi ad un faccia a faccia che non ero in grado di sostenere. "Non voglio saperlo".
"Quello è l'odore dell'eccitazione, piccola", proseguì come se non avessi parlato.
"Non voglio saperlo", scandii, sentendo un tremore alle gambe. Cercai di aggrapparmi alla scrivania, sconvolta dal miscuglio di emozioni che danzavano impazzite alla bocca dello stomaco.
"Ed ora ne sei spaventata. Sei terrorizzata da ciò che senti e non sai riconoscerlo". Mi accarezzò una guancia, lasciando poi cadere la mano lungo il mio braccio in una sensuale carezza a cui non potei sottrarmi e che comunque durò il battito di un paio di ciglia.
I suoi movimenti erano lenti e calcolati, come se avesse timore di spaventarmi. La stessa voce riecheggiava pacata, calma e sorprendentemente dolce. Nessuna malizia a far da sfumatura.
"So che non sei stata mai con un uomo e non pretendo nulla da te otre a ciò che sarai in grado di darmi. Accetterò i tuoi rifiuti come accetterò la tua scelta di privarmi della tua bocca, ma non sarò altrettanto tollerante davanti alla tua ostinata decisione di negare l'evidenza".
"Io non ne...".
"Lo stai facendo di nuovo", mi guardò di sbieco, parlando più duramente. "Tu mi desideri, lo posso sentire dal tuo odore. Posso comprendere la tua reticenza nell'accettarlo, date le circostanze, ma non riesco a credere che tu non ti renda conto di ciò che provi. La tua innocenza non può arrivare a tanto".
Messa alle strette sbuffai. Uno sbuffo lungo che mi svuotò i polmoni dall'aria che avevo trattenuto. "Okay, sento qualcosa. Non so cosa sia ma è tutta lì. Contento?".
"Tutta lì?", indagò dubbioso.
"Qui", specificai, toccandomi il basso ventre, all'altezza della cintura colorata che avevo addosso. "Ogni tanto quando lei mi viene troppo vicino sento caldo in questo punto e sento anche come dei piccoli spilli che mi tormentano fino a scendere sulla coscia. Non so cosa sia ma è fastidioso. Forse è l'ansia".
Mi fissò a lungo, serio, gli occhi socchiusi.
"Hai la vaga idea di cosa mi stai dicendo?", chiese infine. Sembrava sofferente e per un attimo ebbi l'impressione di aver detto la peggiore delle cattiverie. Le iridi si scurirono ma non vi era traccia di quell'alone rosso che rendeva i suoi occhi fuori dal comune. "E sostieni sia fastidioso...".
"Sì", mi imbronciai. "Ora può lasciarmi andare?".
L'ombra di un sorriso annullò parte della severità che rendeva i suoi lineamenti duri e autoritari. "Lasciarti? Dopo quello che mi hai detto?".
Andai in confusione. "E' arrabbiato?".
Il sorriso aumentò. "Arrabbiato? Per la tua innocenza? Le parole che mi hai confessato sono un'ulteriore conferma -per quanto non ne avessi bisogno- che nessun uomo ti ha mai toccato e che il tuo profumo di fragole è autentico. Io non ti lascio, Becky".
Abbassò lo sguardo sulla mia bocca e con uno strattone fece scontrare il mio petto contro il suo. L'impatto non fu forte ma mi tolse comunque il respiro.
"Che intenzioni ha?".
"Sto per baciarti, Becky", avvertì. Gli occhi ancora fissi sulle mie labbra.
"No!".
"Oh, sì".
Inclinò la testa e un ciuffo di capelli sfuggì dall'elastico, solleticandomi la guancia mentre la sua bocca avanzava inesorabile verso la mia con una lentezza quasi snervante. Il respiro sembrò bussare contro le mie labbra, chiedendo il permesso di poterle toccare, invitandole ad accogliere le sue.
"E' ancora un no?", mi alitò contro. Il profumo di legna arsa mi catapultò con la mente dentro a un bosco.
"Cosa?", balbettai, appena consapevole che avesse parlato. Ero immobile, in febbricitante attesa, in bilico tra il desiderio di scappare e quello di restare. Una parte di me urlava inviperita contro la mia coscienza, cercando di darle una scrollata dall'annebbiamento. L'altra parte invece, quella più irrazionale e impulsiva, aveva ceduto su tutti i fronti, affidandosi senza riserve al signor Farrow e lasciando che fosse lui ad averla in pugno.
"Non ti sto più tenendo, piccola", mi sussurrò contro, ad un centimetro dalla mia bocca.
Riaprii gli occhi e lui sviò immediatamente i suoi, come a volerli nascondere. Era talmente alto che da così vicino mi era impossibile vederli.
Ruotai le spalle in un movimento quasi impercettibile senza incontrare alcune barriera. Con stupore mi accorsi che Farrow non mi stava più trattenendo e che le braccia giacevano inoffensive lungo i suoi fianchi.
"Becky, se ora non ne approfitti per allontanare la tua bocca dalla mia, interpreterò tutto quanto come una resa e ti bacerò".
L'avvertimento suonava serio e d'impulso mi ritrassi, voltandogli poi le spalle e fiondandomi accanto alla porta.
"Codarda", mi derise bonario, scuotendo la testa in una risata silenziosa. "Prendi la giacca e le tue cose prima che ci ripensi e ti sbatta contro quella porta per finire ciò che ho cominciato... Andiamo a caccia di comparse".
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