Becky - quei due baci inaspettati
Spalancai la porta di casa. Un colpo talmente secco da far sbattere la maniglia contro la parete del corridoio avvolto nel buio. La carta da parati verde sembrava ondeggiare attraverso le lacrime che mi appannavano la vista.
"Papà?", strillai col cuore in gola. "Mamma!".
Cercai l'interruttore della luce per accendere la plafoniera all'ingresso e notai accanto alla porta le ciabatte dei miei genitori. Sull'attaccapanni mancavano le loro giacche.
Mi voltai di scatto e chiusi la porta, girando la chiave nella serratura a doppia mandata e tirando le tende della finestra che dava sulla strada per controllare la via. Recuperai il cellulare dalla borsetta prima di appenderla all'attaccapanni sopra una sciarpa che ormai non usavo più e che avevo dimenticato di inserire negli scatoloni degli indumenti invernali. Quindi digitai il numero di mio padre.
Spiaccicai il cellulare contro l'orecchio e contai gli squilli, restando immobile davanti alla finestra. Avevo l'impressione che il tempo scorresse troppo lentamente. Mi sembrava di essere finita direttamente in una sorta di telefilm cui avevano cancellato la programmazione sul finale, lasciando lo spettatore ammutolito a fissare lo schermo nero della televisione e a chiedersi in che modo la storia sarebbe andata a finire. Annaspavo dentro di me alla ricerca di una logica ma ovunque cercassi, non riuscivo a trovare un'alternativa a quel dolore nuovo e fulminante che spesso precede una crisi di panico e che mi urlava in faccia che non vi era alcun appiglio che potesse ridare una logica verosimile a ciò che stava accadendo.
Le lacrime erano lì, già pronte a riversarsi sulle mie guance, in attesa solo di un minimo cedimento da parte mia. E sarebbe arrivato non appena quegli squilli sarebbero stati sostituiti dalla voce di mio padre.
"Pronto?".
"Papà".
Inspirò a fondo, poi un sorriso gli attraversò la voce quando pronunciò il mio nome: "Becky? Da quale numero mi stai chiamando?".
"Non importa. Ascoltami...".
"Questo non è il tuo numero", rimarcò.
Ruotai gli occhi, bloccando una lacrima che impavida e insolente si era staccata dalle altre, minacciando di abbattere gli argini. "Papà, dove siete? Dovete tornare a casa. Subito".
"E' successo qualcosa?", il sospetto gli irrigidì la voce.
"Sì", scoppiai di colpo in lacrime. Tossii la saliva e deglutii. "Sì. Dove siete?".
"Da tuo fratello. Domani riparte e volevamo salutarlo".
Quelle poche volte che mio fratello tornava in città si appoggiava su un appartamento che condivideva con un gruppo di studenti universitari. Pagava in affitto una sola stanza ma i suoi coinquilini non gli avevano mai fatto storie se usava la cucina o il salotto. Chiusi gli occhi e li raffigurai sopra quel divano verde militare che stonava con il resto del mobilio di quel piccolo appartamento in centro, a bere the e scambiare quel genere di convenevoli che solo un genitore poteva trovare interessanti.
"Cosa è successo Becky?", la preoccupazione nella sua voce spazzò via l'immagine nella mia testa.
"Ho bisogno di parlarvi a voce".
"Venti minuti e sono lì".
Annuii frustrata, senza pensare che non poteva vedermi. Venti minuti erano troppi. Cosa sarebbe successo se durante il tragitto di ritorno si fossero imbattuti in quei sei uomini? Il pensiero che potessero essere attaccati da quei mostri mi fece uscire di testa.
"Papà, no... aspetta, ti prego", aggiunsi in fretta. "Puoi allontanarti dalla mamma per un momento?".
"Certo. Sì. Un secondo". Sentii le loro voci in lontananza, senza riuscire a distinguerne il significato e subito dopo il rumore di una porta finestra che veniva spalancata. Il rumore ovattato dall'altra parte del ricevitore venne sostituito da quello rombante del traffico. "Eccomi. Becky, mi sto preoccupando. Sul serio, che ti è successo?".
"Ho bisogno che tu sia sincero con me, papà".
"Lo sono sempre, piccola".
Ero in dubbio se riattaccare o meno, se correre sotto le coperte ed aspettare solo che l'inevitabile si compisse. Fissai il cellulare così stretto nella mano da intorpidirmi le dita, chiedendomi quali armi avessi per difendere la mia famiglia. Erano poche. Troppo poche.
"Quanto ti fidi di Malloy?".
"Del sergente? Becky, io e Malloy siamo amici da una vita, lo sai. Mi ha aiutato a trovare lavoro e da all'ora gli sono riconoscente. Ha fatto molto per la nostra famiglia. Perché?".
Lasciai andare la tenda e mi voltai verso il corridoio. Nella penombra scorsi alcune fotografie che mio padre aveva scattato insieme a Malloy durante un'escursione tra amici oltre i confini del Minnesota. Piccole istantanee di una realtà che non era mai esistita. Strizzai gli occhi per bloccare le lacrime.
"Ho motivo di credere che non sia stato completamente sincero con noi", mi decisi a confidare.
"Malloy?". Tossicchiò contro la cornetta e l'allontanai d'impulso dall'orecchio. "Non dire assurdità. Mi fido ciecamente di lui. E' una brava persona e un ottimo sergente. Cos'è successo? E' forse passato da casa e avete litigato?".
"No", scossi la testa e mi passai nervosa una mano tra i capelli, strappando alcuni nodi quando le dita ne rimasero incastrate. Dio, stavo impazzendo.
"Piccola, ci sei ancora?".
Tirai su col naso e passai velocemente la manica della maglia sotto la palpebra per cancellare il passaggio di una lacrima.
"Ti ricordi di quella volta, alcuni anni fa, di quando vi aveva raccontato la leggenda legata ai nostri boschi?".
Rimase in silenzio per qualche attimo. "Vagamente...".
"Quella sera mi avevate mandata in camera perché era tardi e la mattina dopo dovevo andare a scuola. Ma io ero rimasta in corridoio per origliare, incuriosita dai discorsi dei grandi".
"Oh, sì, sì", alzò il tono, ricollegandosi completamente a quella serata. Una risatina accompagnò le sue successive parole: "Me ne ero accorto, piccola, che te ne eri rimasta nascosta a ficcanasare. Malloy pensava che fossero discorsi del terrore ed eri ancora troppo piccola per ascoltarli".
Singhiozzai isterica contro la cornetta e sentii il suono rimbombare metallico prima di spegnersi in un silenzio imbarazzato.
"Vuoi dirmi perché stai piangendo?", domandò premuroso.
Chiusi gli occhi e con la mente tornai a quel giorno di tanti anni prima. Lo avevo rimosso per tanto tempo ma ora ogni dettaglio stava assumendo improvvisamente un significato sempre più vivido nella mia testa. "Vi aveva parlato di alcune leggende sui... licantropi".
"Mmm... mmm".
"E ricordo che tu eri scoppiato a ridere perché ovviamente non avevi creduto a quella storia".
Sentii il rumore del traffico mescolarsi con le sue parole. "Ricordi male. Ero scoppiato a ridere per un'altra ragione. Se non vado errando, tua madre si era spaventata a tal punto da rovesciare il caffè sopra i pantaloni della divisa di Malloy facendo sembrare che se la fosse appena fatta addosso. Era stata una scena divertente".
"Papà", lo richiamai con un tono talmente grave che la sua risata si arrestò all'istante. "Ti sei mai chiesto se quella storia fosse vera?".
Restò in silenzio così a lungo da farmi sospettare non avessi sentito le mie parole. Sapevo con certezza che la linea non era caduta perché potevo riconoscere indistintamente il rumore del traffico.
"Papà?".
Ancora silenzio. Questa volta però durò solo pochi attimi. "Cosa è successo, Becky?".
Strinsi i denti fino a sentir scricchiolare la mandibola. "Ho visto qualcosa".
"Che cosa hai visto?", incalzò.
"Vorrei discuterne con Malloy se mi garantisci che posso fidarmi di lui".
"No, ne discuti con me. Che cosa hai visto, Becky?".
Serrai le palpebre sul punto di crollare a terra. Cosa potevo dirgli? Quanto potevo dirgli prima di spingerlo inevitabilmente a darmi della pazza? "Ho visto un uomo".
"E...?".
"Ho visto...", deglutii incapace di dirlo ad alta voce e posai la schiena contro la porta d'ingresso, lasciandomi scivolare sul pavimento.
"Becky? Cosa hai visto?".
"Ho visto un uomo mangiare un altro uomo", sputai veloce, nascondendo la testa tra le ginocchia.
Il silenzio di mio padre risuonò come un urlo.
"Venti minuti", mormorò infine, riagganciando senza attendere una mia risposta.
Posai il cellulare a terra e restai immobile finché ogni parte del mio corpo smise di tremare. Una macchina strombazzò oltre la porta, facendomi sussultare, poi il rumore di gomme che stridevano sull'asfalto introdusse un silenzio tombale.
Mi sollevai lentamente e a passi incerti andai verso ogni finestra del salotto, controllando che fosse ben chiusa. Abbassai le persiane e chiusi a chiave la porta finestra che dava sulla veranda, accendendo le luci interne ogni volta che cambiavo stanza.
Presi un bicchiere dalla credenza e aprii il rubinetto, riempendolo fin quasi al bordo e bevendolo tutto d'un sorso. Da quando ero entrata in casa, la nausea era diventata più gestibile e quei due miseri minuti di telefonata con mio padre erano riusciti in qualche modo a placare la paura.
Mi concentrai su alcune notifiche arrivate sul cellulare per impedirmi di pensare. Sapevo che se avessi concesso alla mia mente -anche solo per un breve attimo- di ripensare al volto di Deniel Farrow e al modo in cui i suoi denti avevano masticato e sputato interi pezzi di carne di quell'uomo, non sarei mai riuscita a restare in casa da sola per venti minuti.
Aprii per ultima la porta della mia camera. La finestra era già chiusa grazie al cielo, anche se le persiane lasciavano alcuni spiragli da cui si intrufolava la luce ambrata dei lampioni per andare a colpire le pareti in lunghe strisce arancioni.
Fu proprio osservando una di quelle strisce arancio che capii che qualcosa non andava. La strisciata ambrata, in un punto, metteva in risalto un'ombra, simile a quella di una sagoma.
Non ebbi il tempo nemmeno di urlare che una mano scattò contro la mia bocca, uccidendo l'urlo che rimase prigioniero dei miei polmoni, talmente saturi di ossigeno che per un attimo mi sembrò di andare in iperventilazione.
"Sono io... sono io", la voce di Farrow, alle mie spalle, arrivò in un sussurro concitato. "Stai calma".
Mi voltai di scatto, ritrovandomi quasi inghiottita dalla sua sagoma scura che incombeva su di me.
"Perché sei qui?".
"Non posso lasciarti andare". Per un attimo nella sua voce riecheggiò un dolore talmente profondo che mi spinse a credere che il solo pensiero di lasciarmi fosse per lui devastante.
"Vattene. Esci di qui. Vattene, vattene, vattene!", urlai isterica.
"Non posso farlo".
Chiusi gli occhi, stringendomi le braccia attorno al corpo a mo' di scudo.
"Becky, guardami. Per favore".
Risollevai le palpebre e vidi la sua mano protesa verso di me.
"Dammi la tua mano", mormorò dolce. "Dammela".
Quando vide che non mi mossi l'afferrò, portandosi il palmo contro il suo petto. Sentii il cuore battere sotto i polpastrelli, regolare e tranquillo. L'opposto del mio.
"Ti giuro sulla mia stessa vita che non ti farò del male", disse, restando poi immobile per concedermi il tempo di interpretare ogni sfumatura di emozione che gli stava attraversando il volto.
"Smettila!", strappai via la mano, attraversando la stanza di corsa, fiondandomi verso la porta.
Mi aggrappai alla maniglia e tirai verso di me ma la porta rimase chiusa. Alle mie spalle, Farrow la stava tenendo bloccata posandovi contro una mano sola.
"Lasciami andare!", sbraitai nel panico, accucciandomi per passargli sotto il braccio teso all'altezza della mia testa.
"Perché sei spaventata da me?", domandò esasperato, continuando ad avvicinarsi.
Lo fissai allucinata. Nella penombra era la cosa più pericolosa e spaventosa che avessi mai visto.
"Ti ho appena visto mangiare un uomo", strillai, barcollando per la stanza.
Lui seguì ogni mio movimento, guadagnando lentamente terreno e avvicinandosi inesorabilmente fino a bloccarmi nell'angolo della parete accanto alla finestra.
"Non l'ho mangiato", spiegò sardonico, quasi stesse parlando con una bambina. "Hai solo visto come un Alpha uccide un traditore".
Il mio stomaco si ribellò e di nuovo chiusi gli occhi, scuotendo forte la testa. Non volevo pensarci. Mi rifiutavo di farlo.
"Sei solo un assassino", lo accusai, barcollando per la stanza. "Come può la morte significare così poco per te?".
Lo sguardo che mi rivolse fu gelido. "Per tua informazione, io combatto per proteggere e non perché ho la fissa di uccidere. Ed è quello che ho fatto stasera per te. Quindi se vuoi che finga imbarazzo verso la morte non posso farlo, perché lo rifarei e di sicuro lo rifarò quando gli altri cinque torneranno".
Con un altro passo annullò infine la distanza tra di noi, piazzandosi di fronte a me. Quando poi posò una mano sulla mia spalla mi accovacciai, coprendomi la testa con entrambe le braccia come a volermi difendere da qualcuno che stava per picchiarmi.
"Non toccarmi", singhiozzai. "Non toccarmi".
"Devo proteggerti, piccola mia. Solo io posso farlo". Si accucciò di fronte a me, accarezzandomi i capelli.
"No!", gridai, gettandomi carponi sul pavimento e strisciando via. Gli girai attorno e balzai in piedi, correndo nuovamente verso la porta.
Questa volta si aprì immediatamente ed attraversai come una furia il corridoio, puntando l'ingresso. Feci girare la chiave, spezzandomi un'unghia per la foga, uscii di casa e...
Farrow era lì. In piedi. Infondo ai tre gradini esterni che conducevano al portoncino d'ingresso.
Mi fermai di colpo, sopraffatta dal terrore. La mia mente rischiò di vacillare nella follia e istintivamente ruotai su me stessa, rientrando in casa di fretta e furia.
"Non puoi sfuggirmi", la voce di Farrow questa volta venne da un punto di fronte a me. Non era minacciosa. Puntava solo a sottolineare l'ovvietà.
"Tutto questo non è reale", biascicai, premendomi la mano sulla bocca per arrestare un conato di vomito.
"Per favore, piccola mia, vieni a sederti prima di cadere a terra. Devo parlarti e preferirei farlo prima che torni tuo padre".
Di colpo mi tornò in mente che la mia famiglia stava per rientrare in casa e sgranai gli occhi. "Li ucciderai?".
"No", rispose paziente.
"Gli dirai chi sei?".
"Sì".
"Non ti crederanno".
"Allora glielo mostrerò".
Scossi la testa. Ripensai ai suoi canini, agli occhi rossi, e un altro conato di vomito mi fece piegare in due. "No. No. No".
"Dovrò farlo prima o poi, Becky. Possibilmente prima che quei cinque riprendano la guerra che sono riuscito a sospendere poco fa".
"Cosa vogliono da me?". Il tono che usai era così implorante che sembrava mi stessi rivolgendo a Dio piuttosto che a Farrow.
"Non vogliono qualcosa. Vogliono te", rispiegò per la milionesima volta. Solo che, a differenza delle volte precedenti, adesso non avevo più alcun dubbio nel credergli.
"Perché?".
"Siediti". Indicò il divano e attese che guardinga mi accomodassi sul cuscino più lontano da lui prima di continuare. "Quei sei lupi hanno fiutato il tuo odore quando eravamo sul monte Eagle e, non prenderla a male, ma è talmente eccitante che io stesso ne sono rimasto sopraffatto. Per questo sapevo con assoluta certezza che ti avrebbero dato la caccia. Quello che non potevo sapere è che non appartengono al mio branco. Per questo hanno ignorato le mie leggi. Per quanto io sia un Alpha, non ho alcun potere su di loro".
Si accomodò nella poltrona di fronte a me e si protese in avanti, posando i gomiti sopra le ginocchia. "All'inizio ti cacciavano solo perché mossi dal desiderio di averti. Uccidendo uno di loro, però, li ho spinti a dichiarare guerra a me e all'intero branco. Le cose sono cambiate, piccola mia: se prima rappresentavi per loro una dolce preda, ora rappresenti la vendetta perfetta".
Scossi la testa, confusa. "Vendetta?".
"Attaccando te, colpiranno indirettamente me".
"Che ti importa se muoio?", bofonchiai, abbassando lo sguardo.
Per un attimo esitò. Sembrava a disagio, proprio lui che non aveva mai dimostrato di provare imbarazzo verso alcunché.
"Difendendoti, ho dimostrato loro che tengo a te. Un Alpha...", scosse la testa, correggendosi, "... un maschio qualsiasi della mia specie non proteggerebbe mai un'umana".
Feci spallucce. "E allora perché tu lo hai fatto?".
"Perché tu, Becky, sei la mia futura compagna".
Mi sfuggì una risata e scattai in piedi, camminando nervosamente per il salotto.
"Tua?", lo guardai scettica.
"Mia".
La risata si affievolì, traducendosi in un sorrisetto diffidente. "Chi ti dice che accetterò di diventarlo?".
"Non hai scelta su questo".
Incrociai le braccia, sollevando il mento. "Quindi mi costringerai?".
"Non essere assurda. Non ti costringerò alcunché".
"Allora metti via certe fantasie perché non accetterò mai di essere la fidanzata di un assassino".
Il suo sguardò mutò, da paziente a intollerante. Persino il suo tono si adeguò allo sguardo, divenendo una lastra di giaccio. "Ho avuto l'imprinting con te. Non esiste trattativa su questo e non esiste un solo piano che tu possa mettere in atto per fuggirmi. Il tuo odore mi guiderà sempre a te. Sarei in grado di ritrovarti anche in capo al mondo".
"Imprinting?", chiesi. Lo avevo già sentito questo termine ma non ricordavo in che occasione. "E che diavoleria sarebbe?".
Scattò in piedi e camminò svelto verso la finestra, alzando di poco la persiana per controllare qualcosa nella notte.
"E' qualcosa che voi umani non potete neanche immaginare". Scosse la testa con un sorrisetto assorto tra le labbra piene. "Era una vita che sognavo di dire questa frase".
Ruotai gli occhi. "Molto divertente".
"Non posso spiegarti cos'è. Non su due piedi perlomeno. Per ora fatti bastare il sapere che l'imprinting non mi permetterà di lasciarti andare via da me".
"Mai?".
"No! Mai!", lo sguardo con cui accompagnò questa conferma rese le parole mortalmente serie.
"La mia opinione non conta?".
"Non propriamente".
"Grandioso!".
"Non conta perché non hai alcuna possibilità di oppormi resistenza", spiegò, notando che mi ero offesa. "Solo noi maschi proviamo l'imprinting, è vero, ma quando lo proviamo la femmina ne viene attratta a tal punto da non essere in grado di ribellarsi. Si lega a noi, indissolubilmente, per la vita... che lo voglia o meno".
"Bhe, per noi umane è diverso, te lo garantisco. Infatti l'unica cosa che sento è il desiderio che tu esca da questa casa e che sparisca una volta per sempre dalla mia vita".
"Becky", sbuffò, annoiato dalla mia testarda decisione di tenerlo alla larga. "Provi queste cose perché sei governata dalla paura. Il fatto poi che tu non abbia mai avuto un uomo non ti permette di...".
"Sei tu che non ti devi permettere!", lo spintonai. "Tu e la tua boria da seduttore!".
Mi voltai ma lui mi afferrò il braccio in una stretta implacabile.
"Tu appartieni a me", disse torvo.
Per un attimo vacillai e mi coprii gli occhi con le mani, come a volerlo escludere dalla mia vita in un modo o nell'altro.
"Becky, guardami". Dal tono, non sembrava più così irritato. "Guardami negli occhi".
Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi in un tonfo. "Io non ti voglio".
"No?", sorrise. Mi fece scivolare la punta del dito lungo la guancia e malgrado il mio autocontrollo, in reazione al suo tocco mi si accapponò ogni singolo centimetro di pelle. "Credi davvero che non mi accorga dell'effetto che ho su di te? Pensi davvero che non senta il modo in cui il tuo profumo cambia ogni volta che avvicino la mia bocca alla tua? Negati pure a me. Fallo! Rendimi la vita un'inferno. Questo però non cancellerà il fatto che sei mia. Come mia è tutta la tua vita".
"Io non sono tua", negai, sollevando il mento di scatto.
Farrow lo acciuffò con la mano, stringendolo con forza e trasudando minaccia da tutti i pori. "La mia pazienza non è infinita".
"Non c'è niente di mio che ti appartenga", calcai bene ogni parola.
"Allora comincio col prendermi la tua bocca", ringhiò in un gemito di virile disperazione, sospingendomi contro la parete alle mie spalle e facendo scontrare le labbra contro le mie in un bacio aggressivo, a stampo.
Le sue mani mi strinsero possessive appena piantai i palmi al centro del suo petto per tentare di allontanarlo. Ne intrufolò una dietro la mia schiena, sospingendomi contro di lui con tanta forza che sentii il seno strizzarsi contro la compattezza dei suoi muscoli. Con l'altra mano invece mi afferrò una ciocca di capelli, avvolgendosela attorno al polso per impedirmi di poter porre fine a quel bacio.
Impotente mi arresi e appena smisi di ribellarmi sentii la sua lingua premermi al centro delle labbra, creandosi egoisticamente uno spazio per poter accedere all'interno della mia bocca.
"Mmm", provai a mugugnare una protesta ma nel farlo ottenni solo di accrescere la sua foga.
Sentii premere qualcosa di duro contro il fianco e con un miscuglio tra orrore ed improvvisa eccitazione mi resi conto che Farrow, nel tenermi ferma contro di lui, aveva appena strusciando la propria erezione su di me in un gesto involontario.
Di colpo staccò la bocca dalla mia, esattamente un istante prima che le nostre lingue riuscissero a intrecciarsi, impedendo a quel bacio brutale di trasformarsi in qualcosa di più sensuale.
"Non costringermi a farlo mai più", mi alitò contro in un gemito, a metà tra un mugolio di piacere e un'oscura supplica. "La prossima volta che vorrò la tua bocca, tu me la darai".
Lo fulminai. "Nei tuoi sogni forse".
Non ebbi il tempo di pronunciare l'ultima parola che di nuovo, senza preavviso, la sua bocca calò sulla mia e la sua erezione scattò in avanti, contro la mia pancia. Fece danzare la lingua sul mio labbro superiore, sostituendola poi con i denti per mordicchiarlo dolcemente prima di lasciarmi andare.
"Non dire che non ti avevo avvisata", sorrise di sbieco.
Strinsi i pugni, indignata e completamente stravolta dal bacio. Ne avevo dati alcuni prima di oggi, ma non erano stati nemmeno vagamente simili a quelli che Deniel Farrow mi aveva rubato. Sentii il petto abbassarsi e alzarsi velocemente, in cerca di ossigeno. Non riuscivo nemmeno più a comprendere se fossi indignata, eccitata o spaventata. L'ultima delle tre le cose lo ero sicuramente a giudicare dal mio tremore.
Farrow era maschio dalla testa ai piedi. Ogni cosa di lui sprigionava forza e dominio, e i suoi gesti decisi, come quello di non concedermi alcuna possibilità di staccarmi da lui, valorizzavano la mia tesi che quell'uomo fosse una specie di animale feroce pronto a trasformarmi nella sua preda.
"Tu sei un...".
Farrow schioccò velocemente la lingua contro il palato in un verso di ammonimento. "Guarda che ti arriva il terzo", minacciò.
Mi tappai la bocca, limitandomi a fissarlo truce e la sua risata ebbe il potere di irritarmi ancora di più.
"Ora fai la brava e andiamo al bagno a sciacquarti la faccia, a meno che tu non voglia far prendere un infarto a tuo padre. Ormai dovrebbe essere qui a momenti".
Mi prese per mano, fingendo di non accorgersi che ad ogni passo tentavo in tutti i modi di svincolarmi, aprì la porta del bagno e mi fece entrare, guidandomi verso il lavandino. Aprì il rubinetto ed attese che l'acqua diventasse tiepida.
"Sono un disastro", commentai, osservandomi allo specchio. I miei occhi erano rossi, gonfi e ancora devastati dal pianto.
"Sei solo una ragazza coraggiosa e dannatamente testarda".
Immersi le mani nell'acqua e le passai sul viso. "Perché hai avuto l'imprinting proprio con me?".
"Me lo sono chiesto mille volte, fidati". Mi venne alle spalle per acciuffarmi i capelli. Li strinse tra le mani, evitando che mi finissero in faccia mentre mi sciacquavo gli occhi. "Ma fidati anche che, imprinting o meno, avrei scelto comunque te. Solo te".
Strinsi le labbra, lusingata mio malgrado, e per una frazione di secondo, solo uno, i nostri sguardi si incontrarono nello specchio, intrecciandosi in uno sguardo che portava in sé quella che parve una promessa solenne.
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