Becky - la Bestia
Immersi la scarpa nell'erba umida e la rugiada mi scivolò lungo la caviglia, attenuando il caldo che sentivo.
La rabbia mi stava facendo sudare. Sentivo la testa scoppiare, il sangue pulsarmi nelle tempie scandendo ogni singolo singhiozzo che non riuscivo a trattenere.
Con la vista appannata dalle lacrime cercai di orientarmi, seguendo i fasci della timida luce del mattino che riuscivano a penetrare tra il groviglio di rami che sembravano voler nascondere l'intero villaggio al mondo. L'assenza di nuvole preannunciava una giornata afosa, tipica della primavera inoltrata, che con tutta probabilità si sarebbe conclusa con un forte acquazzone.
Sollevai lo sguardo e intravidi alcuni sprazzi di cielo azzurro. Un aereo tracciò dietro di sé una linea bianca e d'istinto sollevai le braccia, illudendomi che a quella distanza potesse in qualche modo scorgermi, quando la realtà era che ogni cosa di questo dannato posto era praticamente invisibile. Ero tagliata fuori dal mondo, realizzai per la centesima volta, e lo sconforto diventò repentinamente paura appena con riluttanza ammisi a me stessa che nessuno sarebbe vento a tirarmi fuori da qui.
Uno scoiattolo attraversò la stradina di fronte a me, si fermò per raccogliere qualcosa da terra e di colpo sollevò il muso, paralizzandosi. Sapevo di non essere io il motivo del suo terrore.
Avevo imparato a riconoscere quel genere di paura negli animali. Era una paura paralizzante che in brevi attimi li conduceva alla fuga. Era la paura che solo un animale più potente di loro sapeva scatenare.
"Smettila di seguirmi", intuii al volo che Deniel fosse dietro di me quando lo scoiattolo sgattaiolò dietro alcuni tronchi, arrampicandosi in fretta per trovare riparo dietro alle foglie.
"No".
Sapevo che mettermi a discutere era inutile perciò mi fermai, schermandomi gli occhi da un raggio di sole appena mi voltai verso di lui.
Era in piedi a pochi passi da me, lo sguardo talmente dispiaciuto che per un attimo sembrò quasi ribaltare le carte in tavola, dipingendolo come la vittima della situazione. Come se fossi stata io a costringerlo a mettersi supino sul tavolo davanti a centinaia di persone per... per...
Tirai su col naso e scossi la testa, sforzandomi di non ripensare agli occhi di tutti quegli uomini, testimoni della mia umiliazione.
"Perché lo hai fatto?", chiesi piano, in preda ad un'umiliazione talmente feroce che mi tolse quasi la voce.
Scrollò la testa e gettò fuori l'aria con un colpo secco. "Anche se sono l'Alpha non posso ignorare le nostre leggi".
"Quali leggi?", singhiozzai. "Leggi che vi consentono di poterci picchiare se non facciamo come volete voi? Leggi che ci costringono a sottometterci al maschio per non fargli perdere il controllo? Sono queste le vostre leggi?".
"Le leggi del branco non sono impari", spiegò paziente. Staccò una foglia e la sbriciolò, prendendosi del tempo per osservarne i piccoli pezzi che oscillando caddero sopra la punta dei suoi anfibi. "Noi possiamo punirvi...", riprese ma subito si fermò, correggendosi: "dobbiamo punirvi. E lo stesso vale per voi. Solo che accade più di rado che una femmina debba punire il proprio compagno".
"Lo immagino", farfugliai tra i denti. "Scommetto che voi non ci permettete di punirvi. E' molto comodo sfruttare la propria forza fisica per evitare punizioni".
"No", sorrise, scuotendo la testa in un modo che mi fece capire di essere completamente fuori strada. "Accade di rado perché è praticamente impensabile per un maschio ferire la propria compagna ed è impensabile per lui andare contro i suoi desideri, ammesso che non vi sia costretto".
Lo fissai, presa in contropiede. "In parole povere siamo sempre noi donne ad essere il problema".
"Solo noi maschi proviamo l'imprinting, voi ne siete semplicemente coinvolte, ma ciò che provate non sarà mai paragonabile a ciò che sentiamo noi. Per questo vi è più facile ferirci. Per questo siete voi ad avere in mano ogni decisione. Noi ci limitiamo ad adattarci a ciò che voi volete. Volete un cucciolo? Ve lo diamo. Volete una casa? Ve la costruiamo. Volete lasciarci? Ci mettiamo da parte. E per questo, mmm sì...", annuì, pensando a qualcosa che subito tradusse con le mie stesse parole: "in parole pavore siete sempre voi donne ad essere il problema. Dimmi, piccola, tu credi di non esserlo?".
"Io?", mi indicai il petto. "Io sarei un problema?".
"Fino a prova contraria eri tu che fino a mezzora fa stavi vagando da sola nel bosco senza protezione".
Affilai lo sguardo, puntando a far emergere i suoi sensi di colpa. "Mi pare di averti già domandato scusa mentre mi picchiavi davanti a tutti".
"E sono state le scuse più false che abbia mai sentito".
Mi asciugai una lacrima col dorso della mano. "Cosa ti aspettavi? Un'annunciazione più biblica? Tipo Mosé che distribuisce le dieci tavole con inciso quaranta paragrafi di sentite scuse?".
"Mi aspettavo di non vederti più scappare da me. Non dopo essere stata marchiata". Il tono fu così saturo di dolore che riuscì a far vibrare di sofferenza il mio cuore.
Mi spinse ad abbassare lo sguardo. "Non scappavo da te".
"Lo so. Ti ho creduta quando mi hai spiegato che stavi fuggendo da questa guerra". Mi fissò solenne. "Io ti credo, Becky. Sempre. Perché sei così sfacciatamente genuina che mi è impossibile non capire quando mi stai mentendo".
"Qualunque persona sana di mente avrebbe reagito come ho fatto io".
"Permettimi di dissentire. Una persona con un po' di sale in zucca non se ne sarebbe andata in giro di notte da sola col rischio di ritrovarsi per puro caso in mezzo a un branco nemico", perse le staffe. Capii che la calma in lui era solo apparente, pronta ad esplodere alla prima parola sbagliata che avessi detto. Mi mise sul chi va là.
"Quindi secondo te cosa avrei dovuto fare?", mi asciugai un'altra lacrima. Ero al limite. Sapevo che mi mancava poco per perdere la mia lotta contro i nervi saldi. Stavo per crollare. A stento riuscivo a reggermi sulle gambe. "Restare ferma ad aspettare che la guerra arrivasse qui? Restare immobile, senza sapere che diavolo stesse accadendo, senza un'arma, senza di te, a fare da spettatrice a non so quanti licantropi che si azzannavano?". Mi sfuggì un altro singhiozzo e non feci nulla per dissimularlo. La voce mi tremolò, divenendo simile ad un piagnucolio: "Io non faccio parte di questo mondo. Non ne so niente di tutto questo. Non oso nemmeno provare ad immaginare come sarà uno scontro perché se lo faccio mi passano davanti agli occhi immagini orripilanti di code mozzate e canini ricoperti di sangue e urla e ossa che fanno crack e...".
"Vieni qui", allargò le braccia, dolce.
"No". Un altro singhiozzo. "Non ci vengo".
"Piccola...",
"Ti ho visto uccidere un licantropo. Ti ho visto mangiarlo vivo". La voce mi si incrinò sull'ultima parola, spezzandola nell'ennesimo singhiozzo. "Non voglio vedervi mentre vi mangiate. Non voglio vedere zampe e orecchie staccate che rotolano nell'erba. Non voglio partecipare a questa guerra. E' disumana. E'... Dio, è troppo! Ed io non ce la faccio, lo vuoi capire? Io ho paura. E tu non puoi arrabbiarti con me se ho tentato di scappare da tutto questo".
"Non sono arrabbiato con te perché sei scappata". Deniel lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rinunciando al suo tentativo di accogliermi in un abbraccio.
"No?". Mi asciugai il naso, fissandolo dubbiosa. "Come no?".
"No", rimarcò, usando un tono talmente dolce che somigliò ad un abbraccio. "Sono arrabbiato con te perché, scappando, non sei corsa da me. E sono arrabbiato con me stesso perché se non l'hai fatto significa che mi temi e significa che non sono stato in grado di farti capire che accanto a me sarai sempre al sicuro".
Mi tremò il labbro ma riuscii comunque ad assimilare una buona dose di ossigeno per consentire alla mia voce di uscire limpida e chiara. "Non è vero che sono al sicuro con te. Che ne so io che se ti girano male non tenterai di mangiarmi?".
"Mangiarti?", si concesse un mezzo sorriso. "Piccola, lo sai vero, che noi licantropi non siamo cannibali?".
"E invece sì. Tu lo hai fatto".
Il sorriso si allargò, tingendosi di malizia. "Sì, ti ho mangiata per bene ieri notte".
Incrociai le braccia e mi accartocciai su me stessa, come a volermi difendere dal suo sguardo. "Mi... mi stavo riferendo... parlavo di quell'uomo. Quello che ti sei mangiato. Ti ho visto. Hai affondato i denti nei suo fianco e il muscolo è scattato via".
"Bhe, se vogliamo proprio essere precisi, il muscolo poi l'ho sputato", cercò di non ridere.
"Non sei divertente".
"Quantomeno non stai più piangendo".
"Sei stato tu a farmi piangere. E'...".
"Fammi indovinare?", il sorriso sghembo rese il suo volto meno minaccioso. "Stai per dire: è colpa tua, Deniel", provò a intuire ciò che stavo per aggiungere.
"Sì, esatto".
"So di essere il motivo di ogni tuo dispiacere", sospirò, abbassando il tono. La sofferenza era tornata, rendendo i suoi occhi un pozzo di lacrime non versate.
"Non è proprio così", mi sentii in dovere di dirgli. Era stupefacente il modo in cui il suo dolore riuscisse ad annebbiare la mia rabbia, trasformandola in un disperato bisogno di vederlo sorridere ancora. "Non è che piango proprio sempre-sempre-sempre per colpa tua. Ogni tanto...".
"Solo ogni tanto?", mi sfidò ad essere sincera fino infondo, con un sopracciglio alzato.
Mi imbronciai e sviai il suo sguardo. "Sì, ogni tanto".
Fece un passo avanti, e un altro ancora, fermandosi quando col braccio riuscì ad allungare la mano contro il mio mento, costringendomi ad rialzare il volto su di lui.
"Quindi non sono così cattivo come sembra, eh?", il sopracciglio era rimasto caparbiamente sollevato, segno che la sfida non era giunta al termine.
"Prima lo sei stato", non potei fare a meno di scimmiottare un tono capriccioso.
"Se ti sforzassi di comprendere le nostre leggi, capiresti che sono stato ben lontano dall'essere cattivo con te. Scommetto che il tuo bel culetto sta molto meglio di quanto si meriterebbe. Sbaglio?".
"Mi hai umiliata".
"No. Sei stata tu a umiliare me", ribatté pronto, senza alcuna accusa nella voce. "Tenermi testa in quel modo davanti ai miei uomini mi ha davvero fatto apparire come un Alpha debole e incapace di gestire la propria femmina. Ho sentito più d'uno domandarsi come avrei potuto guidare un intero esercito se non sapevo nemmeno farmi ubbidire da un esserino grande la metà di me".
Meccanicamente sollevai la testa di scatto, colpita dalle sue parole, e in quel momento capii la portata di ciò che avevo combinato. Accecata dalla rabbia non avevo pensato nemmeno per un solo secondo che nel mondo di Deniel i miei atteggiamenti tipicamente umani avrebbero rischiato di mettere in dubbio la sua posizione di Alpha. Sebbene ritenessi la punizione avuta come la cosa più illegale che mi avesse inflitto dopo il rapimento, non riuscii più a impedirmi di pensare che tutto sommato me l'ero meritata.
Non giustificavo nulla, né mi sentivo di perdonarlo. Ma ora sapevo che non era semplicemente lui a dover essere a caccia di un perdono. Avevo anche io una buona dose di colpe.
Le differenze dei nostri mondi erano talmente radicate da formare lacune incolmabili che minavano qualsiasi tipo di rapporto avessimo voluto costruire. Non vi era spazio per la comprensione. Non vi era mai stata. Eppure ora, dopo aver avuto con lui la prima chiacchierata degna di essere chiamata tale, sentii nascere in me una tolleranza verso il suo mondo che soli dieci minuti prima non avrei mai immaginato di provare.
Per questo non mentii affatto quando fissai i miei occhi nei suoi, lasciando che dalla mia bocca uscissero parole che mai mi sarei sognata di dirgli. "Mi dispiace, Deniel. Scusa, io non... mi dispiace".
"Non dispiacerti". Si avvicinò di un altro passo e la sua mano, dal mio mento, slittò verso una ciocca di capelli. Se l'attorcigliò attorno alle dita, giocandoci un po' prima di lasciarla andare. "Dio solo sa quanto bisogno ho in questo momento di una regina come te al mio fianco. Non ho tempo per una femmina sottomessa che si piange addosso. Il mio branco ed io abbiamo bisogno di una donna come te, che forse si bagna le mutandine per la paura", ridacchiò affettuoso, ammiccando complice, "ma che nel farlo non va a nascondersi sotto al letto. Sul serio, piccola, non ho tempo per una regina incapace di prendere decisioni da sola, in attesa solo di un mio comando".
Sbattei le palpebre, sorpresa. "Perciò ti vado bene così?".
Fece scattare in alto entrambe le sopracciglia. "Vuoi scherzare? Piccola, credimi, tu non vai bene per un cazzo".
"Ma tu hai appena detto che...".
"Ho detto che amo il tuo temperamento ma non sarebbe male se mi rompessi un po' meno i coglioni".
"Ah! Io ti rompo i coglioni?".
Mi acciuffò la mano. "Ogni due secondi. E se te lo stai domandando, sì! Anche adesso".
"Ma se non sto dicendo nulla".
"Fidati, ti basta respirare per farmi girare le palle".
"E tu invece? Vogliamo parlare di te?". Cercai di strappare via la mano dalla sua. "Lasciami".
"Col cazzo". Mi trascinò accanto a sé, avviandosi lungo la stradina.
"Parliamo di te, allora", ripresi, piantando i talloni a terra per arrestare la sua camminata, ma lui non sembrò nemmeno accorgersene. Non rallentò nemmeno. "Sei un maledetto dispotico, credi di potermi comandare a bacchetta come fai con tutti gli altri. Ci conosciamo da quanto? Due settimane? E in soli quattordici giorni al mio fianco sei riuscito a collezionare più di sedici anni di galera. E non è poco, sai? Ci sono tossici e ladri che scontano meno anni. E poi dici a me che devo capire le tue leggi ma non ti prendi la briga di comprendere le mie".
Mi aggrappai al suo polso e tirai più forte che potei, senza riuscire a liberarmi, inerme contro la sua ferrea presa.
"Dici che vivi e respiri per accontentare i miei desideri e poi invece li ignori. Persino adesso mi stai ignorando. Lo vedi? Guarda. Dai. Guarda. E' mezzora che sto cercando di farti capire che non voglio seguirti e tu lo ignori. Visto? Cos'è? Il discorso non ti piace più? Non hai niente da dire?".
"Sì, attenta alla merda", indicò un punto nell'erba accanto alla mia scarpa.
"Sei proprio uno idiota!", sbottai, allungando il passo per non calpestare la cacca. "Ripensandoci mi rimangio tutto quello che ho detto. Non mi dispiace affatto averti umiliato. Lo rifarei altre mille volte, così impari. E poi si può sapere dove stiamo andando?".
"A casa".
"Perché? Non hai una guerra imminente da combattere?".
"Quella può aspettare. Tu no".
"Io no? Cos'è che non devo aspettare io?".
"Non puoi aspettare altri secondi fuori dal mio letto".
Mi lasciai sfuggire una risata secca, simile ad un colpo di tosse. "Io non entrerò mai nel tuo letto".
Fece spallucce. "Allora ti ci butto io".
"Questa si chiama violenza".
"Vorrà dire che sconterò ventisei anni di carcere anziché sedici", restò impassibile.
Mi appesi direttamente al suo braccio e finalmente fu costretto a rallentare il passo. "Io. Non. Ci. Entro. Nel. Tuo. Maledettissimo. Letto".
"No?", chiese tranquillo.
"No!", sputai rabbiosa.
"Va bene", si bloccò di colpo, lasciandomi il polso per afferrarmi le spalle.
Mi fece retrocedere velocemente e prima che riuscissi a comprendere dove stessi mettendo i piedi mi ritrovai con la schiena premuta contro il tronco di un albero, imprigionata tra la dura corteccia e il suo petto.
"Vorrà dire che ti prenderò qui", acciuffò la mia gamba e la sollevò, posizionandola all'altezza del suo fianco.
"No!", mi dimenai, intuendo le sue intenzioni.
Questa volta però, non si limitò a imprigionarmi contro l'albero usando le proprie braccia. Questa volta utilizzò ogni muscolo e tendine del proprio corpo per tenere fermo il mio. L'erezione mi colpì al centro del ventre, vigorosa e pulsante.
Il suo caldo respiro lambì la mia bocca, stuzzicandola, implorandola di aprirsi per accoglierlo mentre chinava lentamente la testa. Le labbra di Deniel infine si arrestarono di colpo, a pochi millimetri dalle mie.
"Lo hai capito, sì, che sto per baciarti?", mi alitò contro. "Devo aspettarmi qualche schiaffo?".
Gli occhi mi scivolarono contro le sue labbra e per alcuni secondi restarono incastrati lì, incapaci di perderle di vista. Smaniosi che percorresse quei pochi millimetri mancanti. Era assurdo, non lo accettavo, eppure ogni parte di me desiderava che lo facesse.
"Non ti permetterò di baciarmi", blaterai confusa.
Fu la mia incapacità di rispondergli che gli stiracchiò le labbra in un sorriso vittorioso. "La tua bocca mi dice di no mentre il tuo corpo dice di sì. A quali dei sue devo credere?".
"Alla mia bocca", ansimai appena fece scontrare in modo esigente il proprio inguine contro il mio.
"Alla tua bocca che ansima?".
"Sì", biascicai confusa, rendendomi conto in ritardo di ciò che avevo appena ammesso. "Cioè no".
Riecco il sorriso. "Mi sembri un po' confusa".
"Non sono affatto confusa", riuscii in qualche modo a schiodare lo sguardo dalla sua bocca e il cervello tornò a funzionare nel pieno delle proprie capacità. "Ti sei divertito, ora lasciami".
Scosse la testa, serio, e in quel momento notai nel suo sguardo un'urgenza che non avevo mai visto.
"Non puoi voler davvero fare l'amore con me qui nel bosco", lo apostrofai disorientata, guardandomi attorno.
Non vidi nessuno ma l'idea che qualcuno ci stesse osservando mi mandò il cuore in gola.
"Io avrei preferito il letto, ma tu non ci vuoi entrare", rispose infine.
"Invece voglio", dissi in preda al panico.
Strofinò il mento contro la mia mandibola, irritandomi la pelle con la barba ispida. "Ah sì? Vuoi?".
"No".
"Si o no?".
Sentii le sue labbra aprirsi in un ghigno mentre percorrevano la striscia di pelle che aveva appena tracciato col mento. La mia confusione lo divertiva, era evidente. Come era evidente che non gli stava sfuggendo il modo sfacciato con cui stavo trattenendo il respiro.
"Sto aspettando", fece scivolare le labbra all'angolo della mia bocca, senza prendersi il bacio che nella sua testa gli spettava.
"Cosa?".
"Che tu mi risponda".
"Non mi ricordo più la domanda", piagnucolai, piantando i palmi contro le sue spalle e provando a spingerlo via.
"Mi sembri di nuovo un pò confusa. Se fossi malignetto potrei pensare che l'idea di allargare le gambe per me non ti dispiaccia così tanto".
"Mi ripugna".
Di nuovo fece scattare il bacino in avanti e la sua erezione sbatté contro il mio ventre, mostrandomi quanto mi stesse desiderando in tutta la sua lunghezza e strappandomi via a morsi un ansimo più forte del precedente.
"Piccola, se mi ansimi per così poco, mi diventa difficile crederti". La mano scivolò tra i nostri corpi, a caccia del mio seno. Quando lo trovò lo strinse, massaggiandolo attraverso lo spesso strato di stoffa del reggiseno, ignorando il mio flebile mugugno di protesta. "Non negarti a me. So che mi vuoi. Lo sento nel modo in cui respiri, nel modo in cui mi guardi. E lo sentirò tra un secondo quando mi inginocchierò davanti a te per leccartela".
Quelle parole ebbero il potere di riportarmi coi piedi per terra.
"E' giorno. Potrebbero vederci". E mentre lo dissi mi mandai al diavolo, consapevole che la mia voce non era uscita salda come avevo sperato.
"Vieni nel mio letto?", tornò alla carica. Le ginocchia flesse in avanti, pronte a chinarsi fino a farlo inginocchiare.
"Mi stai ricattando", gli feci notare, infilando le mani sotto le sue ascelle. Come se avessi avuto anche solo mezza possibilità di fermarlo se avesse deciso di inginocchiarsi per davvero.
Si ritrasse per esaminarmi meglio e vidi l'angolo del labbro sollevarsi in un sorrisetto compiaciuto mentre infilava i pollici nell'elastico dei miei pantaloni.
Con uno strattone li abbassò fino a metà coscia e per qualche attimo restò a studiare il mio intimo. Lo aveva scelto personalmente, perciò sapevo che rispecchiava completamente il suo gusto e se avessi anche avuto qualche dubbio al riguardo, il suo sguardo li avrebbe spazzati via tutti.
"Apri le gambe", ordinò seducente.
Mi guardai freneticamente attorno. "No".
Deniel piazzò un piede tra le mie gambe e mi diede un calcetto contro la caviglia.
"Subito", tornò ad usare il suo tono autoritario.
Fu a quel punto che tornai a concentrarmi su di lui, dimenticando per un istante che tra gli alberi potessero esserci degli spettatori. Ero abituata ai suoi modi dispotici e arroganti, ero arrivata persino a tollerarli, ma questa volta nel suo tono riconobbi una nota stonata che mi fece accapponare la pelle.
Non era stato lui a parlare. Nel breve attimo di un battito di ciglia, Deniel era scomparso e al suo posto si era presentata la Bestia.
Non fu difficile riconoscerla. La sua furia era in grado di annebbiare ogni traccia di umanità nello sguardo di Deniel. Si incanalava nei canini, allungandoli, nelle unghie, affilandole. Nella voce. Disumanizzandola.
Distorcendola fino a renderla infernale.
"Deniel", urlai nel panico, convinta che da qualche parte, dentro il suo possente corpo, potesse in qualche modo sentirmi.
Volevo che la mia voce lo guidasse e lo riportasse a me. Pregavo di riuscirci mentre la Bestia si inginocchiava, infilandomi una mano dietro la coscia per sollevarmi una gamba. Se la depositò sulla spalla e avvicinò il volto ad un palmo dalle mie mutandine.
Dal basso i suoi occhi non mi perdevano di vista, sfidandomi a ribellarmi. Maligni, quasi famelici. Vuoti.
Stuzzicò la mia intimità con un soffio caldo, osservando sul mio volto le varie emozioni che non riuscivo a nascondere.
"La tua paura è sempre stata una catena per me. Mi ha tenuta imprigionata troppo a lungo. Troppe volte", soffiò ancora contro il clitoride, quindi fece schioccare i canini due volte, fendendo l'aria. "Non osare distogliere lo sguardo".
Riportai immediatamente gli occhi sulla Bestia, sentendo le prime lacrime schiantarsi lungo le guance.
"Hai dato a lui la tua verginità", sorrise contrita, parlando come se reputasse Deniel un avversario da sconfiggere. "Ora io mi prendo tutto il resto".
"Deniel", singhiozzai, paralizzata dal terrore.
"Non c'è Deniel", Il suo sorriso scomparve e ogni tratto del volto tornò ad essere spietato mentre infilava un canino nell'orlo dei miei slip.
Lo sentii graffiarmi la pelle e il dolore che seguì fu talmente forte da attirare il mio sguardo verso il basso; rigagnoli di sangue scuro stavano zigzagando lungo la mia coscia, tracciando un percorso caldo e viscido fino al ginocchio.
"Voglio Deniel", frignai coprendomi il volto con entrambe le mani. "Voglio Deniel. Ti prego. Torna. Torna. Torna".
"Non c'è il tuo Deniel!", ruggì furiosa, sollevandosi di scatto e strappandomi via le mani dalla faccia. "Non osare chiamarlo ancora, umana".
Lo guardai allibita, frastornata, strozzandomi con la mia stessa saliva mentre si abbassava i pantaloni fino alle ginocchia per liberare la mastodontica erezione. Tossicchiai un singhiozzo, respirando a stento, muovendo a scatti le mani in avanti per difendermi.
Fino a quando mi agguantò un polso, spingendolo contro il suo desiderio pulsante e vigoroso.
"Stringilo", ansimò.
Le mia dita si contrassero automaticamente in un pugno. "Ti prego, no. Basta, basta, basta!".
"Oh sì, piccola umana. Sì", ghignò, sollevandomi da terra e portandosi le mie gambe attorno ai fianchi.
Con un movimento frenetico della mano agguantò l'erezione alla base e la spinse con foga contro la mia apertura, divaricandola con ferocia e trovando una dolorosa resistenza nella mia lubrificazione assente.
Boccheggiai per il dolore e irrigidii i muscoli della schiena, preparandomi al primo affondo.
Arrivò sotto forma di dolore lancinante. Immediato. Fulmineo. Mi penetrò senza alcun riguardo, facendosi spazio a forza dentro di me, graffiandomi contro le pareti aride, pulsando con bruciante egoismo.
E poi lo sentii uscire completamente, lasciandomi talmente dolorante che mi ritrovai a contrarre ogni muscolo indolenzito della mia intimità.
Il secondo affondo arrivò inaspettato, lacerando ogni mia resistenza, beffandosi delle mie lacrime.
E di nuovo mi lasciò vuota. Ancor più dolorante di pochi attimi prima.
"Sentilo", ringhiò, facendo scattare il bacino in avanti e sprofondandomi dentro con un unico colpo secco. "È tuo".
Il tronco si conficcò nella mia schiena, graffiandomi le natiche, martoriando ogni lembo di pelle scoperta ad ogni spinta rapida e irregolare.
"Brava bambina", ansimò, retrocedendo ancora e avanzando. Sempre più veloce, fino a farmi sbattere la nuca contro la dura corteccia. "Prendilo tutto".
Il colpo mi stordì, portandosi via per un attimo tutte le mie forze, lasciandomi incapace anche solo di urlare. La mente vagò inerme, allontanandosi da ciò che stava accadendo, difendendosi nel ricordo dell'amore fisico che avevo provato con Deniel.
Fu a quel ricordo che mi aggrappai quando la Bestia accelerò il ritmo in movimenti bruschi e irregolari, ansimandomi contro il collo. Fu all'amore di Deniel che mi afferrai nel momento esatto in cui sollevò la mia maglietta con uno strattone, palpandomi il petto con foga. Fu a me stessa che mi sostenni quando gli artigli, nel loro crudele massaggio, squarciarono la delicata striscia di pelle che separava i miei seni e sotto la quale batteva il mio cuore.
Sempre più lento.
Sempre più debole.
Fino quasi a fermarsi.
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