Becky e Deniel - Il più bel ti amo
(ringrazio Ella-ari per avermi segnalato questa canzone)
BECKY
L'odore di carne alla griglia permeava tra la cappa di vapore sprigionata dalla stufa alimentata a legna, dipanandosi nell'aria fino a rendere l'intera casa satura del proprio aroma.
Riconobbi immediatamente le voci dei genitori di Deniel ma unita alla loro c'era anche quella di un altro uomo che non riuscii a riconoscere.
"E' il cugino di mia madre", mi spiegò Deniel, fiutando la presenza dell'ospite ancor prima di udirne la voce. "Non appartiene al mio branco da ormai una ventina d'anni, esattamente da quando si è unito alla sua compagna". Arricciò il naso in una smorfia dispiaciuta. "Ha preferito unirsi al branco del padre della sua femmina".
Provai a sbirciare lungo il corridoio che univa l'ingresso alla cucina ma l'attaccapanni colmo di giacche mi bloccava la visuale.
"Non ne sembri contento", notai.
"E' un valido combattente. Mi sarebbe piaciuto averlo tra i miei uomini, soprattutto dopo che la sua compagna lo ha abbandonato", fece spallucce, impostando ogni lineamento del volto in un'espressione rassegnata. "Lui però ha deciso di restare fedele a quel branco. Forse spera in un ritorno di fiamma o più probabilmente il legame che ha con lei lo tiene ancorato ai suoi doveri".
"Quali doveri?".
"Proteggerla", rispose ovvio, immediato. "L'istinto primario di difendere la propria compagna non scinde dal fatto che lei non lo ami più. Resta immutato nel tempo e negli eventi. A proposito...". Mi aiutò a togliermi la giacca e nello sfilarmi la manica trattenne la mia mano tra la sua, ispezionandone i tendini col polpastrello. "Ti fa ancora male?".
La ritrassi risoluta. "Cosa ti fa pensare che mi sia fatta male?".
"Il fatto che tu sia riuscita a farne sentire a me", ammiccò, massaggiandosi la mascella. "Picchi duro, ragazzina, lo sai?". Quindi tornò serio. Il sorriso non era durato che un istante. "Ora ridammi la tua mano".
"Altrimenti?".
"Altrimenti me la riprendo con le cattive".
Inarcai un sopracciglio. Non avevo dubbi che lo avrebbe fatto, ma questa volta -a differenza delle precedenti- non permisi alla paura di insinuarsi a sorpresa nella mia testa. Era sempre lì, pronta a balzare fuori e a stritolarmi il respiro, eppure riuscii ad arginarla nella consapevolezza che mai e poi mai Deniel mi avrebbe fatto del male. Per certi versi, in quanto donna, ero più al sicuro con lui che con la polizia. Si sarebbe strappato via a forza la mano piuttosto che usarla contro di me.
Me lo aveva dimostrato pochi attimi prima, quando mi ero scagliata contro la sua gola, artigliandola fintanto che le mie dita strette a pugno lo colpivano alla mascella. Non sapevo se gli avessi causato dolore o se i miei pugni avessero rappresentato per lui solo una formicolante seccatura. Qualsiasi emozione, dal dolore all'impazienza, erano rimasti sepolti sotto strati di imperturbabile calma. Era rimasto immobile, accusando ogni colpo senza battere ciglio, senza nemmeno provare a difendersi, concedendomi il tempo necessario per sfogare la rabbia.
Non aveva detto neanche mezza parola, nemmeno un gemito di dolore, malgrado ciò sembrava avesse voluto urlarmi "fai di me ciò che vuoi, ti presto il mio corpo per sfogarti. Usalo. Sono tuo!".
Fu a quel punto che mi ero fermata, ansimante come dopo una corsa, con la mano intorpidita e il fiatone. Le lacrime ormai secche sulle guance. La rabbia sbollita. E fu sempre a quel punto che Deniel mi aveva sorriso, allungando un mano verso di me per invitarmi ad andare a casa insieme.
Invito che avrei rifiutato se non fosse che, vedendomi titubante, mi ci aveva trascinata.
Lungo il brevissimo tragitto non mi aveva detto nulla, accettando ogni mio sbuffo di frustrazione con una pazienza che non gli riconoscevo, e solo una volta giunti a destinazione aveva provato ad indagare sullo stato della mano con cui lo avevo picchiato, sfruttando probabilmente la presenza della sua famiglia come un palliativo per obbligarmi a mantenere la calma.
"La prossima volta che ti verrà in mente di picchiarmi cerca di farlo con un oggetto. Ti eviterà la possibilità di frantumarti le nocche", mi sgridò.
"Mi hai davvero appena suggerito come picchiarti?". Era assurdo.
Lo sguardo serio si tramutò in uno più malizioso. "Se non altro è un modo per essere toccato da te".
"Crepa", digrignai i denti.
Con uno scatto allungò le braccia contro la parete alle mie spalle, imprigionandomi tra questa ed il suo petto. La bocca planò rapida contro il lobo del mio orecchio, lambendolo con la punta della lingua. "Forse il tuo desiderio di picchiarmi è un tentativo di dirmi che ti piace il sesso violento. E' questo ciò che vuoi?".
Affondai i palmi contro il suo torace, cercando inutilmente di allontanarlo. "Spostati".
"Rispondimi".
"Togliti di mezzo ti ho detto".
La punta della lingua ruotò contro la mia clavicola, lasciandola umida al proprio passaggio. "Essere presa con la forza... è questo ciò che desideri? L'idea che possa sbatterti sul mio letto per possederti senza alcun riguardo ti farà sentire meno in colpa per avere ceduto a me?".
"No". Mi sfuggì un ansimo. Le sue parole stavano gettando un cappio attorno alla mia resistenza.
La lingua risalì per tutto il profilo del collo, puntando la mandibola. "I miei metodi rudi ti faranno sentire meno vittima se aprirai le gambe per me?".
Strizzai gli occhi e un'ondata di calore mi colpì al basso ventre con la stessa potenza di un pugno. Sentii le dita delle mie mani artigliarsi contro la parete, quasi a cercare un sostegno.
"Smettila", e di nuovo mi sfuggì un ansimo, abbastanza intenso da essere in piena contraddizione con l'ordine che gli avevo appena impartito.
Ci fu un momento di immobilità in lui.
Aveva capito!
Ogni mia singola parola lo stava respingendo eppure non c'era un solo lembo della mia pelle che non bruciasse e pulsasse disperata alla ricerca di un dolce sfogo che solo poteva darmi.
E lo aveva appena capito!
La sua mano si insinuò sul bordo dei miei pantaloni e senza alcuna incertezza affondò sotto la stoffa, fermandosi sull'orlo delle mie mutandine. Le strattonò, creando una frizione sulla mia apertura. Il cuore mi restò bloccato in gola, azzerando ogni mia resistenza. Subito non capii a fondo quali fossero le sue intenzioni, poi però strattonò ancora, e ancora, fin quando le sue narici si allargarono percependo l'odore della mia eccitazione prima ancora che io potessi comprendere la reazione del mio corpo. Mi stava masturbando con il mio intimo, a pochi passi dalla sua famiglia, ed io non stavo facendo nulla per impedirglielo.
"Dimmi di smettere", mi provocò, e quelle basse parole vibrarono contro il mio orecchio in una sfida che avevo già perso in partenza.
Aprii la bocca a caccia di ossigeno, respirando così velocemente che mi fu quasi impossibile parlare. "Smettila".
"Anche la tua fica vuole che smetta?", chiese, mentre mi depositava piccoli e rapidi baci lungo la mandibola. "O è bagnata per me, in questo momento?".
La stoffa degli slip frizionò nuovamente contro il mio clitoride e un'altra ondata di eccitazione nel mio intimo trasformò i miei respiri in un singhiozzo, a conferma delle sue ultime parole.
Scossi la testa, più a me stessa che a lui, perché aveva ragione. Le mie parole di rifiuto erano deboli e poco convincenti, dettate solamente dal bisogno di continuare a rifiutarlo, quando la verità era che ogni parte del mio corpo era attratta da lui. Lo era stata dal primo momento in cui avevo posato gli occhi contro i suoi nell'atrio della Hill Farrow.
Ma ammetterlo mi avrebbe fatto odiare me stessa. Come avrei potuto perdonarmi di essere debole, di aver permesso di toccarmi ad un mostro che mi aveva rapita, che aveva ucciso davanti ai miei occhi?
L'intera situazione era sbagliata, ed era ad essa che urlavo i miei rifiuti. E sempre grazie ad essa che Deniel aveva tollerato ogni mio diniego con una pazienza che rifletteva il rispetto e l'amore che diceva di provare.
Per questo scossi ancora la testa, gemendo "smettila" più e più volte.
"No", incalzò senza darmi tregua, aumentando la forza con cui strattonava i miei slip. "Ti entrerò dentro, piccola mia. Non potrai evitarmelo ancora per molto. E ti concederò di urlarmi di no mentre lo starò facendo, potrai dimenarti e lottare mentre lentamente, centimetro dopo centimetro, ti allargherò tutta fino a quando il mio cazzo si sarà fatto spazio dentro di te".
Quindi mi lasciò andare di colpo, retrocedendo di un passo, senza perdere il contatto visivo con me, senza lasciarsi sfuggire un solo ansimo. A differenza mia sembrava calmo, come se non mi avesse appena fatta avvicinare ad un orgasmo. Le spalle immobili non mostravano alcun respiro accelerato.
"Ma quando ti avrò fatta mia", riprese in un mormorio profondo, udibile a stento, "quando te lo starò sbattendo dentro così forte da farti girare la testa, tu ti struscerai addosso a me.... e sarai così bagnata che non potrai più fingere di non desiderarmi allo stesso modo in cui desidero te".
Abbassò le palpebre, forse ancor più calmo di pochi istanti prima, talmente sicuro di sé da mandare al diavolo ogni mia intenzione di contraddirlo, con una sorta di tranquilla fiducia nell'espressione che poteva essere dettata unicamente dall'inconfondibile profumo di eccitazione che dal mio corpo si librava verso il suo.
"Vai in cucina", ordinò piatto.
"Cosa?", farfugliai, barcollando in avanti.
Le sue mani mi afferrarono pronte sotto le ascelle per sorreggermi. "Vai in cucina prima che decida di inginocchiarmi per assaggiare la tua eccitazione".
Si umettò deliberatamente seducente il labbro superiore, senza mai perdere di vista i miei occhi e quando li sgranai mi baciò la fronte. Dal profondo della gola una risata vittoriosa.
"Fila, ragazzina!".
Azzardai un passo, quindi un altro. Mi tremavano le gambe e percorrere qual breve tratto di corridoio fu una tortura accompagnata in ogni singolo istante dallo sguardo di Deniel puntato contro la mia schiena.
Fu quando stavo per fare il mio ingresso che mi sentii trascinare velocemente indietro, costretta a ripercorrere a ritroso i miei passi, e ritrovandomi con le spalle sprofondate contro il massiccio petto di Deniel.
"E' troppo forte", spiegò.
"Cosa?".
"Ti ho eccitata così tanto, bambina, che il tuo odore potrebbe rappresentare un serio problema". Puntò lo sguardo contro lo stipite della cucina e mi strinse più forte a sé, retrocedendo velocemente verso la propria camera. "Fatti una doccia prima che mi ritrovi a sterminare parte della mia famiglia".
Mi lasciai trascinare nel bagno e ancora irrigidita dall'orgasmo privato mi limitai a restare impalata accanto al lavandino, le mani ancorate alla porcellana fredda e dura per sostenermi mentre Deniel apriva il soffione della doccia, regolandolo alla temperatura giusta.
Sollevai lo sguardo su di lui, sentendomi fragile, sbagliata, sporcata dal mio stesso odore traditore. Poi si voltò verso di me e i suoi occhi si intrecciarono nei miei così colmi di desiderio che faticai a mantenere quella connessione.
"Togliti i vestiti", ordinò freddo.
"Allora esci da qui".
La mascella si irrigidì. "Se non ti spogli in tre secondi, ti strappo via quegli abiti direttamente coi denti. A costo di doverti fare urlare così tanto da allertare l'intero branco. Decidi, Becky".
Mi staccai dal lavandino, avanzando scontrosa. "E' una punizione?".
"Per cosa?", ribatté.
"Per averti detto di no anche questa volta".
Scoppiò in una risata sardonica. "I tuoi no non contano più niente, non dopo avermi fatto annusare il tuo odore".
"Il mio corpo potrà anche reagire irrazionalmente ma questo non significa che io ti voglia".
Ebbe l'audacia di sorridere ancora. "Va bene".
Sentii gonfiarsi le vene del collo per la rabbia. "Ti odio. Ti odio più di qualsiasi altra cosa al mondo".
La sua espressione diventò stoica. Non sbatté neanche le palpebre mentre si prendeva tutto il tempo di osservarmi dalla testa ai piedi. "Cercherò di tenerlo a mente".
"Ti odierò così tanto che ti sarà impossibile dimenticarlo".
"Ci vuole molta energia per odiare qualcuno così tanto, Becky".
"Vorrà dire che impiegherò ogni forza e ogni energia e ogni maledettissimo minuto della mia vita per odiarti".
"Okay".
"Esatto! Okay! OKAY!", sbraitai. "E ti farò anche pentire di avermi rapita".
"D'accordo".
"Ancora non lo sai ma ti odierò così tanto che arriverà il giorno in cui pregherai che io esca per sempre dalla tua esistenza esattamente come io prego ogni giorno che tu non sia mai esistito".
"Certo".
"Sì. Certo".
"Entra in quella cazzo di doccia, Becky".
"Neanche morta. Preferisco affrontare il tuo intero branco con questo stramaledettissimo odore addosso piuttosto che farmi una doccia davanti a te".
"Sicura?".
"Sì. Sicurissima".
Mi afferrò per il braccio all'improvviso e mi trascinò di peso dentro il box doccia, con ancora tutti i vestiti addosso. Cercai di uscire subito ma appena feci un passo in avanti entrò a sua volta, tenendomi ferma sotto il getto dell'acqua.
I capelli mi si appiccicarono in faccia e sputacchiai quando un fiotto di acqua tiepida mi finì direttamente in bocca, spalancata in un urlo.
"Ti odio da morire. Ti odio. Ti odio. Ti odio".
C'era qualcosa di pericoloso nel suo sorriso. "Lo hai già detto".
Mi spinse contro le piastrelle fredde della doccia e tutta la stanchezza mi crollò addosso, allo stesso modo in cui i getti d'acqua mi infradiciavano i vestiti, facendomi scivolare lungo la parete, fino a rannicchiarmi con le ginocchia al petto.
Si accovacciò a ruota, guardandomi con uno sguardo duro che pochi istanti prima non c'era, e per una volta tanto non mi importò di mostrarmi vulnerabile dinanzi a lui. Gli lascia gustare la mia resa, permettendogli di cedere quanto mi avesse lasciata a pezzi.
Restammo seduti lì, vestiti dalla testa ai piedi, sotto la cascata d'acqua, senza più dire una sola parola. Guardandoci e basta.
Fu lui il primo a spezzare il silenzio. "Dimmelo ancora".
"Che cosa?".
"Dimmi ancora che mi odi, piccola", il tono dolce di chi aveva capito quale sentimento si nascondesse veramente dietro a quella parola.
Mi strinsi le ginocchia al petto con più forza e vi ci scossi la testa.
"Dimmelo, amore mio. Dimmi che mi odi".
"No".
Non potevo vederlo, ma percepii comunque il suo sorriso. "Questo no è il più bel ti amo che avessi potuto dirmi, piccola".
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