14. Il tuo Angelo Custode
Il giorno dopo, quando mi sveglio, nonostante io mi sia praticamente addormentata piangendo, mi sento riposata. Al mio fianco però non c'è più Gabriele, ma un bigliettino ripiegato in quattro parti e poggiato sulla porzione di cuscino in cui lui ha posato il capo. Ha ancora il suo odore, un odore fresco, di buono, di nuvole.
Dentro il bigliettino c'è scritto:
"Ci vediamo a scuola, non fare tardi, devo mostrarti una cosa.
Il tuo Angelo Custode".
Sul volto, mi si apre un enorme sorriso per quel "Il tuo Angelo Custode", scritto peraltro con le iniziali di "angelo" e "custode" in maiuscolo. Non so perché, ma trovo che abbia un significato particolare, e forse ce l'ha, e proprio per questo voglio conservarlo. Dovrò però farlo in un posto sicuro, in cui difficilmente potrà essere visto da estranei. Non posso rivelare l'identità di Gabriele e di certo nessuno crederebbe che è letteralmente il mio angelo custode, ma è meglio essere prudenti.
Sulla scrivania c'è un cofanetto che mia madre mi portò dal suo viaggio a Istanbul. Ha un meccanismo particolare di apertura che consiste nel far scivolare una striscia di legno verso il basso, toglierla, spostare un'altra striscia di legno questa volta a sinistra e solo a questo punto si apre.
Direi che è perfetto.
Prima di riporlo e di richiudere il cofanetto, rileggo il biglietto. Gabriele deve farmi vedere una cosa importante... Chissà a cosa si riferisce.
La curiosità mi spinge a prepararmi in fretta e a volare verso scuola.
***
Appena entro in classe, Michela mi getta le braccia al collo con così tanta foga che i suoi capelli leonini mi avvolgono il viso. Rimango sorpresa, ma ricambio comunque il suo abbraccio chiudendo gli occhi. L'odore del suo shampoo al cocco mi entra nelle narici ed è una sensazione così bella che ispiro forte per sentirlo fino in fondo. Mi è mancata molto, anzi, mi sono mancate tutte e tre.
Quando ci sciogliamo dall'abbraccio, i suoi occhi verdi sono velati di lacrime.
«Sono contenta» dice, «grazie per aver parlato con Remo.»
Le sorrido. «Figurati.»
Alle sue spalle, si sono avvicinate Elisa e Claudia, ma solo Claudia mi sorride, mentre Elisa distoglie lo sguardo quando i nostri si incrociano. Si massaggia imbarazzata il braccio destro e poi va sedersi al suo posto.
«Se il pranzo finisce presto, io e Remo veniamo a sentirti» continua Michela.
«Anche io vengo» afferma Claudia. «E anche lei» aggiunge indicando Elisa.
«Tutti a sedere, forza!» esclama la professoressa di Italiano entrando in classe poco prima che la campanella suoni. Come sempre è puntualissima e sebbene mi piacerebbe restare ancora a parlare con le mie amiche, vado a sedermi anch'io al mio posto.
Elisa si schiarisce la voce tossendo, prima di chiedermi: «Stai bene?»
Annuisco semplicemente mentre un sorriso fa capolino sul mio viso. Anche lei sorride e credo che non servano altre parole per chiarire la situazione tra di noi. Credo sappia che ha sbagliato e credo, a mia volta, di averle dimostrato che di me può ancora fidarsi.
La professoressa di Italiano ha deciso che oggi introdurrà la Commedia di Dante e mentre con un disegno alla lavagna raffigura quello che secondo Dante è il paradiso, non posso far altro che rivolgere un pensiero ironico al mio angelo custode.
Perché non ti alzi, e ci spieghi com'è in realtà il paradiso?
Sono cose che voi umani non potreste comprendere.
Mi scappa una risata che prontamente camuffo dietro una tosse, quando la professoressa blocca la spiegazione per rivolgere lo sguardo su di me. Abbasso la testa sul quaderno, facendo finta di prendere appunti, e lei per fortuna ritorna a spiegare.
Allora mi stai confermando l'esistenza del paradiso?
Ovviamente no.
E l'inferno esiste?
Non ti rispondo.
Allora è un sì!
No.
Quindi no?
No, non te lo dico.
Lancio un'occhiata a Gabriele, il quale sorprendo a fissarmi a sua volta. Un sorriso di sbieco gli illumina il viso, ma subito dopo, con la penna, mi indica la professoressa. Non mi servono discorsi mentali con lui o parole vere e proprie per capire che vuole che ritorni a seguire la lezione.
Mi arrendo e con uno sbuffo faccio quanto mi ha appena ordinato. E dopo due ore di Italiano e una di Filosofia in cui vengo anche interrogata, posso tirare un respiro di sollievo quando scendiamo in cortile per Educazione Fisica.
Non amo particolarmente lo sport, anche se non sono goffa come afferma Gabriele, e nonostante la giornata sia piacevole da sopportare all'aperto, decido che non voglio impegnarmi molto. Soprattutto, non ho intenzione di sudare. Per questo, quando la professoressa ci dà due opzioni – dividerci in squadre e giocare a pallavolo o fare dei tiri liberi al canestro da basket – io propendo per la seconda.
Mi avvio quindi verso il canestro. Gabriele, però, corre verso di me, si soffia dalla fronte i suoi indomabili capelli ricci e mi chiede: «Non giochi a pallavolo con noi?»
«Preferisco di no.»
«Dai!»
«No, Gabriele, non insistere.»
«Dai!» ripete, ma questa volta tirandomi per un braccio.
«Ho detto di no.»
Se vieni a giocare, ti prometto che ti spiego com'è il paradiso.
Davvero?, rispondo, incredula.
Sì.
«D'accordo!»
Ci disponiamo in due squadre e io capito con Gabriele, Michela e Claudia. L'altra, invece, ha nella sua formazione Elisa e Matteo. Siccome ho giocato raramente a questo sport, mi lascio condurre da Gabriele, che mi suggerisce di dispormi indietro, in zona cinque (così dice) mentre lui sarà davanti. Non posso fare a meno di notare che Matteo si è piazzato esattamente di fronte a Gabriele.
Non ho tempo però per riflettere troppo su questa scelta di Matteo, che la palla mi sfiora e finisce a terra. La partita è appena iniziata e la squadra avversaria ha già fatto punto per colpa mia.
Cominciamo benissimo.
Per evitare un secondo punto facile, quando la palla arriva di nuovo nel nostro campo, Gabriele difende su di me e grazie a un'alzata perfetta di un nostro compagno di squadra, schiaccia facendo punto. La mia squadra esulta e lo faccio anche io, almeno fin quando non mi rendo conto che, a causa della rotazione, tocca a me battere.
Lo odio perché sono veramente negata con la battuta, ma non posso fare altrimenti, allora afferro la palla, vado a fondo campo e sospiro.
Colpisco dal basso e nonostante superi di pochissimo la rete, la palla cade esattamente tra Matteo ed Elisa, che la guardano posarsi a terra senza neanche provare ad allungarsi verso di essa. Forse entrambi hanno fatto lo stesso pensiero, forse si aspettavano che sarebbe stato l'altro a difendere.
Fatto sta che questo è un secondo punto per noi, che si trasforma in un terzo quando, sempre per via della mia battuta sbilenca e vicinissima alla rete, Matteo non riesce a difendere.
«Dannazione!» esclama proprio lui dando un calcio al pallone.
La palla rotola veloce fino a sbattere sulle mie caviglie, ma malgrado il dolore, la afferro noncurante per non dargli alcuna soddisfazione.
«Non con i piedi, Matteo!»
La professoressa lo rimprovera, ma lui non risponde e si piega sulle ginocchia pronto a ricevere la mia prossima battuta. Questa volta colpisco con tutta la forza che ho, ma lui riesce, anche se con difficoltà, a riceverla. Tuttavia non c'è intesa con i suoi compagni, che non ricostruiscono il gioco, ed è di nuovo punto per noi.
Alla quarta battuta, riescono finalmente a ricostruire il gioco, ma la schiacciata di Francesco viene murata da Gabriele. Corro a dargli il cinque prima di ritornare a battere.
«Continua così!» mi dice lui con l'affanno.
Gli faccio l'occhiolino e sento, dall'altra parte della rete, Matteo borbottare qualcosa.
Decido di non darci troppo peso, così come decido di cambiare direzione di battuta e di indirizzare la palla su Elisa, ma ci metto troppa forza e quella va fuori. Punto per loro.
Storco la bocca e ritorno in campo.
«Dai, non fa niente, siamo avanti noi!» mi fa notare Claudia.
Ma sebbene io sia riuscita a ottenere quel leggero vantaggio per noi, dopo alcuni minuti la partita torna in parità e ce la giochiamo punto su punto.
Siamo sul ventitré pari, quando tocca a Gabriele battere.
Va a fondo campo, si sistema i ricci sulla fronte, palleggia la palla un paio di volte a terra, poi la lancia in aria e schiaccia saltando. I suoi movimenti sono fluidi e composti, i muscoli tesi e la grazia e la bravura di un giocatore professionista.
Distratta dal guardare Gabriele, non mi accorgo che la squadra avversaria sta per schiacciare.
Sento solo qualcuno urlarmi contro: «Paola!» Poi la guancia si deforma sotto il tocco violento della palla. Un dolore fastidioso si propaga per tutto il mio viso; la mandibola mi brucia e la polvere del pallone mi fa all'istante lacrimare l'occhio destro.
Claudia si avvicina per accertarsi se va tutto bene. Le dico di stare bene, tutto sommato, e dopo poco riesco anche a fermare le lacrime e a ricompormi.
«Non ti sembra di doverle delle scuse?»
La voce di Gabriele, arrabbiata come poche volte l'ho sentita, mi fa voltare di colpo lo sguardo verso di lui. Si è rivolto a Matteo, ma lui non l'ha sentito, tant'è che un suo compagno di squadra deve scuoterlo per un braccio e indicargli Gabriele che, dall'altra parte del campo, lo osserva.
«Cosa?»
«Non far finta di non aver sentito cosa ho detto: chiedile scusa.»
«A chi?»
«A Paola.»
Matteo mi lancia un'occhiata, prima di rispondere: «Non l'ho di certo fatto apposta.»
«Ciò non toglie che devi chiederle scusa.»
Matteo alza un sopracciglio, sconcertato. «Devo?»
«Sì, devi.»
«Io non devo proprio niente, soprattutto a Paola.»
«Gabriele, lascialo perdere» mi intrometto.
«Sì, Gabriele, lasciami perdere!» Matteo mi imita assumendo un tono di voce stridulo e acuto che sicuramente non ho.
Mi verrebbe voglia di picchiarlo seduta stante, ma non voglio scatenare un'altra rissa e non voglio nemmeno che lo faccia Gabriele. Infatti, quando Gabriele volta le spalle a Matteo, sono sollevata.
Il mio sollievo però dura poco, perché Gabriele si volta di nuovo verso Matteo, sorpassa la rete che li divide e gli pianta un pugno dritto sul naso.
La confusione scoppia in un attimo. Matteo vorrebbe rispondere, ma è trattenuto dai compagni di squadra. A mia volta, provo a prendere Gabriele per i fianchi, ma non riesco a farlo spostare nemmeno di un millimetro. Sul volto ha un'espressione schifata mentre fissa Matteo.
«Ga...» comincio, ma mi blocco quando i nostri occhi si incrociano e quelli di Gabriele sono rossi. E non intendo rossi in senso metaforico, come rossi di rabbia, ma davvero rossi.
Le parole mi muoiono in gola e non dico più niente mentre la professoressa inveisce dicendo di voler portarli entrambi in presidenza. Per fortuna, Gabriele riprende il controllo di sé, i suoi occhi tornano al suo azzurro naturale e grazie al controllo mentale si toglie di nuovo dai guai.
***
Per strada, appena usciti da scuola, devo letteralmente correre dietro a Gabriele. Cammina veloce davanti a me, che quasi mi sembra stia facendo una maratona.
«Gabriele!» urlo, ma non ottengo nessuna risposta. «Gabry!»
«Che c'è?» ringhia lui fermandosi di botto, a due centimetri dal mio viso.
Tiro indietro la testa e lo fisso impaurita. «Perché corri?»
Sospira. «Scusami, sono nervoso, e poi ripensavo a quella testa di...»
Ma si ferma prima di concludere.
«Non avevi detto che non puoi provare sentimenti?»
Sbuffa. «E infatti era così, ma è tutta colpa di questo!» Si batte le mani sul petto. «E di questo!» Indica tutto ciò che lo circonda. La Terra, forse?
«Il secondo "questo" forse l'ho capito, il primo no.»
«Il corpo, Paola, il corpo umano, e la Terra. Non ci sono più abituato. Avere un corpo umano, vivere tra voi, mescolarmi in sentimenti ed emozioni mi rende... Non so spiegarti.»
«Umano?»
«Sì.»
«Non capisco cosa ci sia di brutto.»
«Non c'è niente di brutto, infatti, è solo che, come ti ho già detto, non ci sono più abituato e poi essere un angelo ti porta a vivere in una condizione di quasi... Come potrei dirti? Benessere perenne. Non c'è nulla dall'altra parte, quindi nemmeno le emozioni positive come l'amore, ma è comunque uno stato di completo appagamento e di certo senza rabbia.»
«Che intendi per "dall'altra parte"? Il paradiso?»
«No, Paola, il paradiso non esiste.»
«Come non esiste?»
«Non esiste.»
«E cosa succede dopo la morte? Si diventa angeli?»
«Sì, ma non tutti possono diventarlo, solo chi è degno.»
«E chi non lo è?»
«Muore.»
«Cioè» provo a ricapitolare, «chi è degno diventa angelo custode, mentre chi non lo è muore e basta? Senza provare quest'esperienza sovrannaturale?»
«Esatto.»
«Tutto qui?»
«Sì, perché che ti aspettavi?»
«Qualche rivelazione sconvolgente, sinceramente!»
Gabriele ride. «È davvero tutto qui. Anche se, in realtà, essere angeli custodi è un'esperienza non indifferente e volevo proprio fartelo vedere stamattina, ma poi...»
È vero! Nel bigliettino mi aveva scritto che doveva mostrarmi una cosa.
«Poi cosa?»
«Quell'imbecille me l'ha fatto dimenticare. Ma adesso siamo ancora in tempo, se vuoi.»
«Certo che voglio!»
Gabriele si guarda intorno, scruta la situazione che c'è per strada, poi mi afferra la mano e mi conduce dall'altro lato della strada. «Chiudi gli occhi» ordina.
Faccio come mi dice e quando avverto un leggero vento davanti al viso, indietreggio d'istinto ma non apro gli occhi.
«Aprili» concede Gabriele dopo qualche secondo.
Devo battere le ciglia un paio di volte per rendermi conto che non è successo nulla alla mia vista, che quello che ho davanti agli occhi è normale.
Certo, per quanto sia normale vedere in bianco e nero.
Le persone che camminano e che si muovono attorno a me sembrano essere doppie, come se dietro di loro avessero una scia che le segue. Capisco ben presto che alle loro spalle ognuno di loro ha un angelo custode e per la prima volta le vedo, le ali.
Sono bianche, enormi, e avvolgono sia l'angelo che il loro protetto. Tuttavia, gli angeli non hanno un vero e proprio corpo, come ce l'ho io o come ce l'ha Gabriele, né lineamenti umani, ma sono pura luce, quasi pixellata, che si muove in continuazione.
I protetti non sanno cosa sta avvenendo alle loro spalle, e proseguono la loro vita come se niente fosse. Una mamma spinge la carrozzina con dentro il figlio, ma solo lei ha un angelo; un bambino gioca a nascondino dietro un albero, ma lui ha un angelo a differenza del suo compagno di gioco.
«Bello, eh?»
«Bellissimo, ma perché non tutti hanno un angelo?»
«C'è chi ne ha bisogno e chi no.»
«Vuoi dirmi che un bambino non ne ha bisogno?»
«Certo, ma conoscendo il suo percorso, non ne ha bisogno. Se invece non lo seguirà, allora gliene sarà mandato uno. Ti ricorda forse qualcuno?»
«Io. Allora non ne avevo bisogno.»
«No, affatto.»
Sorrido, per la prima volta sono contenta di averne combinate di tutti i colori, almeno mi hanno mandato Gabriele.
«D'accordo, basta così!» esclama d'improvviso Gabriele, passandomi una mano davanti agli occhi e facendomi ritornare a vedere come sempre.
«Ma a me piaceva!» mi lamento.
«Sei troppo ingorda.»
«Dai!» lo imploro.
Gabriele alza gli occhi al cielo, sbuffa, però alla fine mi concede un'altra sbirciata nel mondo degli angeli.
Ma che carino Gabriele che lascia i bigliettini, ma non lo è altrettanto quando i sentimenti "umani" prendono il sopravvento sulla sua parte angelica. Sarebbe meglio vivere senza provare alcun tipo di sentimento? Voi che dite?
A martedì prossimo!
Mary <3
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