1. Un nuovo inizio

Potrei guardare ancora per molto la pioggia scendere.

Potrei stare qui, con i palmi delle mani poggiati al marmo della finestra, a fissare le gocce cadere con prepotenza dal cielo. Ma credo che non cambierebbe molto.

Non smetterà.

E pensare che fino a mezz'ora fa non era così la situazione. Certo, un tuono mi ha svegliato di prepotenza prima ancora che suonasse la sveglia, ma non sembrava che si sarebbe scatenato l'inferno, come invece sta accadendo. Perché non si tratta solo della pioggia forte, dei tuoni, ma anche del vento che pare quasi voler sradicare gli alberi. Come una deficiente, poi, ho rifiutato il passaggio di mia madre, che questa mattina è uscita prima per andare allo studio; Marco deve ancora finire il turno di notte e Remo non è ancora rientrato dalla sua serata in discoteca.

Insomma, sono fottuta.

Sbuffo e mi stacco dalla finestra; vado in bagno per farmi una doccia, poi inghiotto la prima cosa che trovo nel frigo – una merendina e un succo di frutta alla pera – e mi dirigo alla porta d'ingresso. Avrò bisogno di sicuro di un ombrello, ma non ne vedo sistemati nel mobile dove li tiene mia madre. Scavo per qualche secondo, quindi riesco a trovarne uno. Sembra a posto, tutto sommato.

Mi do una veloce occhiata allo specchio, alzo il cappuccio della felpa e tiro un lungo respiro profondo.

Forse posso saltare il primo giorno di scuola, penso.

D'altronde, cosa potrebbe succedere di così importante? Senza contare che, importante o meno, la scuola per me non ha nessuna attrattiva. Ci vado solo perché sono obbligata, o me ne starei tutto il giorno in casa a suonare la chitarra elettrica e ad ascoltare musica metal. E c'è da considerare, anche, che si sta facendo piuttosto tardi e dovendo andare a piedi sotto la pioggia, arriverò che la campanella è già suonata.

Poso l'ombrello, abbasso il cappuccio della felpa, faccio qualche passo in direzione della mia camera da letto, l'intenzione di rimettermi a dormire che mi solletica la mente. Ma mi fermo di nuovo, mentre qualcosa mi pizzica dietro l'orecchio e poi scende fino alla nuca.

So bene cos'è. Quel maledetto senso di coscienza che stranamente ho anche io. Quello che mi suggerisce, ogni tanto, di fare la cosa giusta.

Vado?

Se non andassi, come detto prima, non cambierebbe molto. Non perderei spiegazioni importanti, né altro di utile per la promozione – anche se all'ultima ci sono arrivata sul filo del rasoio.

Se andassi, però, non mi giocherei un giorno d'assenza, dover chiedere a mia madre di firmarmi una giustifica, o nel peggiore delle ipotesi dover falsificare la sua firma.

Decido che è troppo uno sbattimento saltare il primo giorno di scuola e allora afferro di nuovo l'ombrello, alzo il cappuccio e questa volta esco davvero di casa. In strada, il vento mi colpisce subito il viso, insieme alle gocce di pioggia. Ovviamente non sta piovendo in maniera normale e l'ombrello che ho preso si rivela essere mezzo rotto e neanche abbastanza grande da coprirmi come si deve.

Percorro il viale alberato che si trova appena fuori casa mia e che precede l'inizio della strada vera e propria, poi mi fermo davanti all'incrocio. Devo attraversare la strada, lo farò sulle strisce pedonali, ma voglio essere sicura che nessuno mi investa, anche perché non è detto che con questa pioggia mi vedano: sono un agglomerato di nero, tra i vestiti, il cappuccio tirato sulla testa, i capelli, lo zaino e l'ombrello.

Una signora, in una Panda rossa, si ferma e mi fa cenno di attraversare. La ringrazio con un sorriso, ma poco dopo aver messo piede sull'asfalto, una moto supera l'automobile e per poco non mi prende in pieno. Lo stridio dei freni mi fracassa le orecchie e il deficiente ha inchiodato a pochi centimetri dalla mia gamba destra.

Un deficiente, sì. Perché può essere solo un deficiente, uno che guida in questo modo con questo tempo. Purtroppo non posso vedere il suo volto, per via del casco integrale con la visiera scura, ma gli urlo lo stesso un "Imbecille!" accompagnato da un dito medio, prima di correre dall'altro lato della strada. Mi guardo indietro e mi rendo conto che da qui posso vedere, anche se con qualche difficoltà, casa mia.

La mia bella e accogliente casetta. Calda e asciutta soprattutto, non come sono io in questo momento. E manca ancora parecchia strada da fare, per arrivare a scuola.

Che palle.

Proseguo cercando di ripararmi dalla pioggia, di fare strade che mi permettano di arrivare prima, ma alla fine, quando sono fuori al cancello arancione della scuola, appena davanti alla statua di Carducci che si erge in tutto il suo splendore, l'acqua mi ha bagnato i jeans fino alle ginocchia, le punte dei capelli sono umide e arricciate, sento la felpa appiccicata alla schiena e la pioggia che mi è entrata pure nelle scarpe. Manco a dirlo, avrà bagnato anche i calzini.

Almeno, ormai, sono qui. Non guardo nemmeno l'orologio, ma mi basta il deserto che c'è nel cortile per capire che la campanella è già suonata. Spero non da tantissimo, però.

Fuori dall'aula, che è la stessa dell'anno scorso ma che ha cambiato dicitura – III B e non II B –, tiro l'ennesimo respiro profondo della giornata. Anzi, sarebbe meglio dire mattinata. Spalanco la porta e i primi occhi che incrocio sono quelli della professoressa Brandelli, l'insegnante di Matematica.

Eccola.

Un pensiero mi attraversa la mente. Ed è strano, come nato senza il mio controllo.

La professoressa Brandelli è in piedi, col sedere fasciato da una gonna strettissima nera poggiato sulla cattedra, i boccoli biondi che le ricadono sulle spalle e il rossetto rosso in tinta con la camicetta. Appena mi riconosce chiude il libro che aveva tra le mani e va a scrivere qualcosa sul registro.

«Primo giorno di scuola e sei già in ritardo, Fado» mi dice.

«Se avessi saputo che c'era lei alla prima ora, non sarei entrata proprio.» Poggio l'ombrello a ridosso della porta, quindi mi vado a sedere accanto a Elisa, che mi ha tenuto il posto vuoto di fianco a lei come tutti gli anni. «Purtroppo è andata così» continuo, incrociando gli occhi della mia compagna alla ricerca della sua approvazione.

Lei purtroppo non me la dà, ma anzi mi guarda male, con un'espressione di ammonizione sul volto dalla pelle olivastra. So benissimo che vorrebbe farmi una partaccia, dirmi che non devo rispondere male alla professoressa, visto quello che è successo l'anno scorso, ma proprio non ce la faccio a trattenermi quando si tratta di lei. Trovo che sia una persona insopportabile, incapace nel suo lavoro e che sta togliendo il posto a chi invece lo merita decisamente di più. Non fosse stato così, avrei avuto la sufficienza nella sua materia, invece è l'unico debito che mi porto dietro dal primo anno.

Sarà anche che l'antipatia è ricambiata e che di certo non me le fa passare liscia neanche una. Come adesso.

«Come ti permetti?» sbraita, rossa in viso quasi quanto la sua camicetta. «In presidenza, subito!»

Sbuffo.

«Fado, sto parlando con te.»

«La sento, la sento...» borbotto, alzandomi. Elisa mi lancia un'altra occhiata ammonitrice, ma questa volta le do ragione: non ho alcuna intenzione di farle perdere le staffe ancora di più.

Mi avvio in presidenza con lei alle calcagna. Non appena la preside ci vede, ruota gli occhi al cielo e si fa un veloce segno della croce. Quel gesto, lo ammetto, mi strappa una risata. La professoressa Brandelli entra in stanza prima di me, spiega con grande agitazione quello che ho "fatto", poi la preside rivolge il viso nella mia direzione.

«Entra» mima con la bocca.

Obbedisco e sprofondo sulla sedia di fronte a lei, che si raccoglie i capelli castani su una sola spalla, la docente già fuori e i cui tacchi sento riecheggiare sul pavimento di marmo della scuola.

«Fado, hai intenzione di comportarti come l'anno scorso?»

«Ho intenzione di colpirla, questa volta.»

«Come, scusa?»

«Niente, niente» dico in fretta, scuotendo anche la testa e provando a far sparire dalla mente il ricordo di me che lancio una sedia contro la professoressa Brandelli ma senza prenderla in pieno, purtroppo.

«Allora?»

Sospiro e distolgo lo sguardo da lei per piantarlo sul quadro alle sue spalle: degli elefanti che camminano con un tramonto alle loro spalle. «No. Non è mia intenzione, ma lei...»

«La professoressa Brandelli sarà sicuramente disposta a venirti incontro, se lo farai anche tu.» La preside Valente poggia le mani pieni di anelli, incrociandole, su delle carte che ha davanti. Plichi con dentro una miriade di fogli, forse alcuni riguardanti i nuovi iscritti. «L'espulsione ti stava per costare l'anno e per cosa, poi? Hai la sufficienza in quasi tutte le materie e gli altri professori non lamentano la cattiva condotta che hai invece con lei.»

Certo, perché loro sono competenti e non mi stanno sulle palle.

«Vuoi davvero partire con il piede sbagliato? Non sarebbe meglio vedere questo come un nuovo inizio?»

Un nuovo inizio...

Azzerare tutto ciò che è successo l'anno scorso e gli anni ancora precedenti. Tentare di lasciarmi alle spalle tutto.

«Posso provarci» borbotto.

«Bene!» si anima lei, una mano che si schianta su quelle carte, che saltano di poco dalla loro posizione. «Torna in classe e segui la lezione, per favore. Per questa volta non ti metto note, ma alla prossima non sarò così clemente. D'accordo?»

Annuisco.

«Bene.»

***

«Comunque...» Elisa mi sveglia dai miei pensieri, mentre siamo nel bel mezzo della ricreazione, dopo due ore di Matematica. «Stamattina, per via del casino fatto con la professoressa, ti sei persa la novità.»

«Eh?»

«Quella.» Elisa indica in fondo alla classe, in cui sono ammassati gran parte dei miei compagni attorno a qualcuno che da qui non riesco proprio a vedere. «È un nuovo compagno e si chiama Gabriele.»

Allungo il collo per cercare di vedere sopra le teste dei miei compagni e non appena uno di loro si sposta, riesco a scorgere questo fantomatico Gabriele. Ha i capelli biondi, ricci, quasi a boccoli; gli occhi chiarissimi, azzurri; un sorriso dolce, che rivolge a chi gli sta attorno e con il quale risponde alle domande che gli stanno facendo. Deve sentirsi osservato da me, perché i nostri sguardi si incrociano e quel sorriso si rivolge su di me.

Ciao, sussurra la mia mente e, immediata, una sensazione di smarrimento mi percuote da capo a piedi. Provo a scacciarla via, mentre lui mi saluta con la mano, per poi ritornare alle sue conversazioni.

«Carino, eh?»

«Mh, sì.»

«Mh?» Elisa pare indignata, le labbra sottili strette in una smorfia di pura disapprovazione. «Solo "mh"?»

«Scusa, ma tu non eri fidanzata?»

«Sì, ma che c'entra. Guardo, ma senza doppi fini. E poi è carino per te, mica per me.»

«Per me? Ma figurati.»

«Paola...» Elisa aggrotta la fronte e mi fissa intensamente coi suoi occhi grigi. Un colore assurdo, ma che si abbina perfettamente al colore dei suoi capelli. «Non mi dirai che sarebbe meglio M...»

Ma Elisa non riesce a concludere la frase, perché la docente di Italiano è appena entrata in aula reclamando attenzione e chiedendo silenzio tombale. Meglio così, perché so bene cosa stava per dire e non mi va proprio di affrontare di nuovo il discorso.

***

Quando esco da scuola, il sole splende alto nel cielo e non c'è nemmeno una nuvola a oscurarlo. Mi chiedo come sia possibile, questo cambiamento del tutto improvviso, ma almeno, visto che dovrò farmela di nuovo a piedi, non rischierò di inzupparmi come questa mattina. Per fortuna, i jeans si sono asciugati del tutto e sento solo i piedi un po' umidi.

Nel tragitto verso casa, camminando sul marciapiede ma in una strada molto trafficata, becco un posto di blocco dei carabinieri. Hanno fermato una macchina, che sta venendo controllata da un giovane carabiniere, e io mi chiedo se l'altro che lo accompagna sia mio fratello. Non dovrebbe esserci lui, dato che aveva il turno di notte, per cui mi sento abbastanza tranquilla da passare davanti alle auto parcheggiate senza fastidi.

Tuttavia commetto l'errore di soffermarmi a guardare chi c'è alla guida della macchina dei carabinieri e incrocio gli occhi di Marco.

«Paola!» mi chiama, sporgendosi dal finestrino dell'auto. «Paola!»

Che noia, e io che volevo evitare di incontrarlo in servizio, il primo giorno di scuola. Abbiamo avuto una furiosa litigata a causa della scuola proprio qualche giorno fa e io vorrei davvero evitare di discutere ancora con lui: quando indossa quella divisa sembra essere il padrone del mondo. Senza contare che si prende la briga di rompermi su questioni che non sono di sua competenza e non sopporto davvero questo suo atteggiamento.

È mio fratello, non mio padre.

«Paola!»

Al terzo grido mi decido ad andare da lui. Attraverso la strada, passo accanto al giovane carabiniere e sono faccia a faccia con Marco. I suoi occhi di un castano chiarissimo sono cerchiati da due profonde occhiaie. Deve star lavorando ininterrottamente da ore, ma non gli chiedo se vale davvero la pena sbattersi tanto per un lavoro. La risposta la so già a memoria: «Sono il Maresciallo Capo della mia caserma. Ho un mucchio di responsabilità.»

«Maresciallo» lo saluto, godendomi anche un po' la sua smorfia di disapprovazione per il tono che uso quando lo chiamo col suo grado.

«Dove stai andando?»

«A casa, Maresciallo.»

«Sei entrata a scuola?»

«Sì.»

«Sicura?»

Sbuffo. «Sì.»

«Paola...»

«Fai una cosa: chiama a scuola e chiedi direttamente alla preside. Tanto tu e lei ormai siete amici per la pelle...»

«Paola.» Marco tira un lungo respiro profondo socchiudendo gli occhi. Si sistema meglio sul sedile, lascia penzolare il braccio sinistro fuori dal finestrino e rivolge lo sguardo sull'altro carabiniere che sta ancora lavorando. «Non voglio affrontare di nuovo questa conversazione con te. Mi hai costretto a fare quello che ho fatto.»

Costretto? Ma sentilo! L'anno scorso ha praticamente chiamato tutti i giorni la preside per assicurarsi che io entrassi e in più le ha anche detto di avvisarlo, nel caso in cui avessi combinato qualcosa di grave. Qualcosa tipo lanciare una sedia addosso alla professoressa di Matematica. Ma questo suo accanimento è avvenuto proprio dopo la litigata con la professoressa Brandelli e la mia conseguente espulsione. Da allora non è più successo nulla, mentre il rapporto tra me e Marco è peggiorato proprio quando sembrava star migliorando e tutto per delle telefonate che mi ha tenuto nascosto.

«Comunque, dai, sali in macchina, ti do un passaggio.»

«Non c'è bisogno. Vado a piedi.»

«Dai...» Prova a forzare un sorriso, che però non ricambio. «Non lo sto facendo per assicurarmi che tu vada davvero a casa.»

«Ah no?»

«No. E poi mamma a casa non torna per pranzo, Remo sta dormendo sicuramente... Perciò, prima arrivi e prima mangi.»

Questa, in effetti, è un'ottima osservazione.

«E va bene» sospiro, mentre entro in auto nei posti posteriori. «Però non dovrebbe essere tipo illega...»

«Abbiamo finito?» Marco mi interrompe, ma non si sta rivolgendo a me, quanto al suo collega. Neanche mi ero accorta che era entrato anche lui insieme a me.

«Sì, Maresciallo.»

«Bene. Accompagniamo un attimo mia sorella a casa e poi torniamo, d'accordo?»

«Come vuole, Maresciallo.» Il giovane carabiniere si volta per un attimo verso di me e io riesco a vederlo meglio in viso. È un bel ragazzo, dai lineamenti delicati e il volto sottile. Nemmeno un filo di barba e i capelli con la riga di lato tenuti fermi dal gel. «Dovevamo però incontrare i signori Rinaldi per quella deposizione e se non sbaglio arrivano tra una decina di minuti.»

«Ah già» risponde Marco, per poi restare in silenzio per qualche secondo. «Facciamo così, allora: andiamo in caserma ora, poi tu accompagni a casa mia sorella e...»

«Io?» scatta lui, visibilmente infastidito – e forse anche un po' offeso – dalla richiesta di mio fratello.

«Sì, tu, Scalò.»

«Ma...»

«Marco» mi intrometto io, attaccandomi al sedile di mio fratello, così che mi senta meglio, «non serve. Te l'ho detto anche prima: posso andare a casa a piedi. Non c'è bisogno di fare tutto questo casino.»

«Sta' tranquilla: Scalò è felice di obbedire agli ordini. Vero, Scalò?»

A parte che non credo si possa mai essere felici di obbedire agli ordini, ma poi dall'espressione che ha non credo nemmeno che ne sia così tanto felice. Eppure sono sicura di due cose: deve essere un novellino, qualcuno di arrivato da poco in caserma e a cui Marco sta facendo assaggiare l'amara vita del carabiniere, fatta di ordini, di rispetto verso i gradi più alti e di continui "Sì, signore"; dirà di sì perché non può fare altrimenti.

Infatti, il suo "Certo, Maresciallo" gli esce strascicato dalla bocca, con uno sforzo che è paragonabile solo a quando io sono costretta a dire alla professoressa Brandelli che ho capito tutto della sua spiegazione.

«Perfetto.»

Marco mette in moto e fino alla caserma nessuno di noi tre parla. Io non so cosa dire, al giovane carabiniere girano visibilmente le palle e Marco starà di sicuro pensando al prossimo compito da svolgere. Arrivati in caserma, addirittura Marco parcheggia la macchina all'interno. Mi fa scendere aprendomi la portiera dall'esterno.

«Ci vediamo a casa» mi dice, poi si rivolge al collega: «Scalò, usa questa macchina, per favore.»

«Certo» borbotta lui.

Risalgo in macchina, ma questa volta mi siedo nel posto che prima occupava Scalò. Lui mi lancia una breve occhiata mentre mi sistemo e anche se non lo dice intuisco che avrebbe preferito che fossi rimasta indietro, ma non è un taxi né io ho voglia di passare ancora come una delinquente che sta per essere portata chissà dove.

«Devi dirmi la strada, non la so» afferma, prima di partire.

«Certo. Sei nuovo?»

«Sì, sono arrivato stamattina in caserma...» Sta bene attento che non arrivino macchine, prima di uscire dalla caserma. «Destra o sinistra?»

«Destra. E da dove? Dall'accento sembri del... sud, giusto? Ma non vorrei sbagliarmi.»

«Sicilia, sì.»

«Bella. Il sole, il mare...»

«La gente educata...»

«Come?»

«Niente.» Scrolla le spalle e a un nuovo incrocio mi chiede dove deve svoltare. «Pensavo solo che la gente dalle mie parti non si comporta in quel modo.»

«In... in quale modo?»

Inizio a pensare che sia arrabbiato per qualcosa che gli è successa quando è arrivato, il che giustificherebbe tutto questo nervosismo. Fare però di tutta un'erba un fascio non mi sembra tanto giusto: voglio dire, cosa c'entro io? Non sono certo uguale a tutti gli abitanti di Melzo.

Lui scrolla di nuovo le spalle e non risponde alla mia domanda. Trascorriamo così il resto del tragitto nel silenzio intervallato solo dalle indicazioni che gli do riguardo la strada. Quando siamo al viale alberato lo faccio fermare.

«Grazie» sussurro.

Apro la portiera, scendo, ma quando sto per chiuderla lui la ferma sporgendosi sul sedile del passeggero. «Fare il dito medio alla gente in mezzo alla strada. Ecco come non si comportano dalle mie parti.»

Detto questo, tira la porta a sé, la richiude e se ne va.

Così, senza darmi il tempo di rispondere, né di capire a cosa cavolo si riferiva. Ma poi qualcosa mi torna in mente, per la precisione, un flashback di questa mattina.

Un motociclista che per poco non mi investe, io che gli faccio il dito medio.

Cazzo!

Era lui il motociclista! 







Inizia così questa avventura! Per chi non lo sapesse, questo è il primissimo libro che io abbia mai scritto. Nei mesi precedenti l'ho riscritta quasi completamente, togliendo alcune cose che non mi piacevano, aggiungendone delle altre, ma lasciando sempre quella naturalezza con cui l'ho scritta la prima volta. 

Questo libro, infatti, fu scritto di pancia, senza la minima idea di pubblicarlo o farci altro di "serio". 

Spero vi piaccia tanto quanto piacque a me scriverlo. E spero amerete i personaggi così come li amo io. 

Nel frattempo, vi chiedo: chi vi è piaciuto di più da questa breve introduzione? 

A venerdì! Eh sì, pubblicherò 2 capitoli alla settimana: martedì e venerdì. E sempre in questi giorni pubblicherò un post su Instagram, perciò se volete seguirmi mi trovate come marianna_coccorese

Mary <3 

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